Nel 2025 Singapore celebra il 60° anniversario dell’indipendenza e terrà elezioni generali. Dal 1965 ad oggi, Singapore ha avuto solamente quattro primi ministri e un unico partito al potere. Potranno esserci mai sorprese nell’isola dell’ordine?
Articolo di Pierfrancesco Mattiolo
Il 2024 è stato forse “il più grande anno elettorale della storia dell’umanità”, con circa quattro miliardi di persone chiamate alle urne nel mondo. Per ricordarne solo alcuni Paesi: Unione Europea, Stati Uniti, India, Pakistan, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Bangladesh, Sri Lanka. Nel 2025 sarà il turno, tra gli altri, anche di Singapore. Quasi tutte queste consultazioni hanno generato un certo grado di aspettative e incertezza per il futuro. Quelle di Singapore invece sembrano abbastanza scontate. Da quando è divenuta indipendente dalla Malesia, quasi 60 anni fa, la città-stato ha avuto un solo partito al governo, il Partito d’Azione Popolare (PAP), e soli quattro primi ministri. L’attuale primo ministro, Lawrence Wong, è succeduto lo scorso maggio a Lee Hsien Loong, figlio del “fondatore” della moderna Singapore Lee Kuan Yew. I due Lee, padre e figlio, sono stati rispettivamente il primo e il terzo capo dell’esecutivo singaporiano.
Dopo aver raggiunto i 70 anni d’età, Lee junior ha lasciato l’incarico al suo vice Wong giusto in tempo per permettere a quest’ultimo di consolidare la sua figura in vista delle elezioni del prossimo anno. Non è ancora chiaro quando si voterà. Solitamente, il Parlamento viene sciolto prima della dissoluzione automatica imposta dalla Costituzione e dopo che il Comitato incaricato di ridisegnare i confini dei collegi elettorali si è riunito. Formalmente, è il Presidente della Repubblica a sciogliere il Parlamento, su raccomandazione del Primo Ministro, raccomandazione a sua volta approvata dal Parlamento. In altre parole, il processo elettorale è saldamente in mano al PAP, che controlla il Governo e il Parlamento con una maggioranza di più dei due terzi dei seggi. L’incertezza ricopre sia la data sia i confini dei collegi elettorali. A Singapore i collegi vengono ridisegnati quasi ad ogni elezione; come menzionato, la riunione del Comitato preposto costituisce una tappa informale del percorso verso le urne. Queste incertezze rendono più difficile all’opposizione la pianificazione delle loro attività, dato che i loro candidati non sanno che confini avrà il loro collegio o in che giorni assentarsi da lavoro per fare campagna elettorale. Il PAP invece, grazie al proprio monopolio degli incarichi pubblici, può schierare politici a tempo pieno che arrivano pronti all’inizio della breve campagna elettorale.
Queste difficoltà, unite al sistema elettorale fortemente maggioritario, ha permesso al PAP di mantenere una super maggioranza parlamentare fin dall’indipendenza. Nel 2020, il PAP ha ottenuto 83 seggi su 93 con il 61% dei consensi. I due principali partiti d’opposizione, il Partito dei Lavoratori e il Partito del Progresso pesavano circa il 10% ciascuno. Le prossime elezioni potrebbero fornire all’opposizione la possibilità di erodere il dominio del PAP, affaticato da una serie di scandali e dalla transizione da Lee a Wong. Quest’ultimo sta puntando al rinnovamento generazionale per cambiare l’immagine del Partito, troppo legata al potere e alle élite economiche del Paese. C’è insofferenza anche verso gli stipendi altissimi dei membri del Governo: Wong è infatti il premier più pagato al mondo (2,2 milioni di dollari all’anno, contro il reddito medio singaporiano di 47 mila dollari all’anno). A sentire queste cifre, il dibattito italiano sugli stipendi dei politici assume un peso un po’ diverso. Il PAP si difende spiegando che gli stipendi alti servono per attirare talenti dal settore privato al pubblico, ed effettivamente la pubblica amministrazione singaporiana è considerata tra le più efficienti al mondo.
Come abbiamo visto in molti Paesi, la retorica antiestablishment può condurre a risultati elettorali sorprendenti e gli analisti suggeriscono che il PAP non dovrebbe sottovalutare tale rischio. Wong può però fissarsi un calendario elettorale molto favorevole. L’isola festeggia il prossimo 9 agosto i 60 anni di indipendenza, ottenuta dopo essere stata espulsa dalla Federazione malese a causa di profonde divergenze politiche. La festa nazionale è seguita ogni anno, a pochi giorni di distanza, da un National Rally Day, in occasione del quale il Primo Ministro tiene un discorso alla nazione per indicare le sue priorità. Le elezioni si terranno probabilmente verso inizio settembre, quindi subito dopo questo periodo di celebrazioni patriottiche guidate dal Governo. Wong avrà inoltre vari mesi di tempo per adottare provvedimenti popolari e una postura più attenta ai problemi sociali, rispondendo così ai malumori dei ceti meno abbienti.È difficile immaginare delle sorprese per le elezioni del prossimo anno. In questi tempi di sommovimenti elettorali, Singapore potrebbe essere uno dei pochi Paesi a non uscire dalle urne con un assetto politico imprevisto (e imprevedibile). Gli elettori saranno chiamati a scegliere tra la stabilità e la continuità del PAP e il cambiamento promesso dall’opposizione, esclusa da sempre dal potere. Come sarà possibile convincerli? Da un lato, le piccole dimensioni del Paese, con due milioni e mezzo di elettori, potrebbero rendere efficaci iniziative di mobilitazione dal basso. Dall’altro, il PAP conta sul supporto dell’apparato statale e della stampa mainstream. E non esita a marginalizzare voci potenzialmente critiche. Alcuni anni fa, il sito internet indipendente The Online Citizen fu costretto a sospendere temporaneamente le sue attività per presunte irregolarità nella pubblicazione delle sue entrate e nel 2021 è stata adottata una legge contro le “interferenze straniere” duramente criticata da Amnesty International. Secondo il Democracy Index 2023 dell’Economist Intelligence Unit, Singapore rientra (insieme all’Italia) nella lista delle “democrazie imperfette”. In una democrazia “perfetta”, forse, le sorprese elettorali sono frequenti.