Nell’attuale contesto di crisi pandemica, innovazione tecnologica e capacità di rinnovamento saranno cruciali per determinare il futuro del modello Singapore
La straordinaria trasformazione di Singapore da avamposto commerciale del fu impero britannico a vibrante centro economico del nascente mondo globalizzato è motivo di orgoglio per i Singaporiani e materia di studio per il resto del mondo. Al tempo dell’espulsione dalla Federazione della Malesia, nel 1965, la “Città del Leone” era una piccola isola all’estremo della penisola malese, senza risorse naturali, a parte una posizione geografica strategica ed il potenziale ancora inesplorato di una popolazione giovane e volenterosa formata in gran parte da migranti cinesi. Eppure, nei due decenni immediatamente successivi all’indipendenza, l’economia singaporiana ha registrato una crescita dell’8,5% annuo e, come ricordano spesso i suoi governanti, la neonata città-stato è passata dal terzo mondo al primo nel giro di appena una generazione.
In molti si sono chiesti quale sia il segreto del successo di Singapore: posizione geografica o conformazione demografica; identità culturale o regime politico; fattori importanti ma, di per sé, non determinanti. “La risposta semplice – secondo l’ex diplomatico singaporiano Kishore Mahbubani – è una leadership fuori dal comune.” Una classe dirigente formata nelle migliori università del Regno Unito e tornata a Singapore con l’ambizione di mettere il tradizionale pragmatismo britannico al servizio del nascente sentimento nazionale. Lo stesso Lee Kuan Yew, padre fondatore e Primo Ministro di Singapore, l’uomo che ha governato la città stato, direttamente e indirettamente per oltre 50 anni, sosteneva che il successo del modello Singapore derivasse dalla sua capacità di rispondere efficacemente all’emergere di nuove situazioni.
Effettivamente il grandioso sviluppo di Singapore non sarebbe forse stato possibile se i suoi leader non fossero stati guidati nelle loro scelte da una salda fede nell’innovazione tecnologica e da una ferma convinzione che anche il successo economico dipenda dalla capacità di innovarsi e rinnovarsi. È anche in virtù di questa ‘fede’ che una città-stato conosciuta oggi in tutto il mondo come hub commerciale e finanziario non ha mai voluto rinunciare al settore manifatturiero. Il manifatturiero, motore della crescita economica degli anni ’60, ha attraversato una grande trasformazione tecnologica e rappresenta oggi un settore ad alto valore aggiunto che vale il 20% del PIL. Meg Whitman, CEO di Hewlett Packard Enterprise, una delle tante grandi aziende che ha deciso di puntare su Singapore, ha soprannominato la città-stato una “Silicon Valley in miniatura”. Le notizie di queste settimane sembrano confermarlo: messe alla porta nell’America di Donald Trump, le cinesi ByteDance e Tencent hanno pensato di ripartire proprio da Singapore con investimenti di svariati miliardi di dollari.
Da diversi anni ormai Singapore occupa le prime posizioni del Global Competitiveness Index e dell’Ease of Doing Business Index, solo per citare due degli innumerevoli indicatori mondiali che celebrano la città-stato come uno dei miglior luoghi al mondo per fare impresa. Ciò è possibile non solo grazie all’avanzato sistema finanziario e giudiziario, ma anche grazie a infrastrutture fisiche e digitali all’avanguardia. E’ proprio su queste ultime che il governo intende puntare per superare la crisi innescata dalla pandemia di Covid-19, che ha trascinato la città-stato nella peggiore recessione dal 1965. Singapore, nelle parole dell’attuale Primo Ministro Lee Hsien Loong, si deve preparare ad “un futuro molto diverso” che, come ha spiegato un alto funzionario al Financial Times, sarà fatto di “bit e byte, cavi sottomarini e dati”, non solo cargo e container.
L’esecutivo ci stava lavorando da tempo: il Covid-19 ha reso necessaria un’accelerata. Già un anno fa, infatti, l’Enterprise Development Board, l’agenzia governativa che da sempre guida lo sviluppo industriale del Paese, presentava ai potenziali investitori esteri i risultati già ottenuti: la più grande concentrazione di cavi sottomarini al mondo, la connessione a banda larga più veloce ed un tasso di penetrazione di cellulari e smartphone del 159%. Il Digital Readiness Index 2019, l’indicatore elaborato da Cisco per identificare i Paesi più preparati ad accogliere le sfide della digitalizzazione, collocava Singapore al primo posto. Complice anche la crescente tensione tra Stati Uniti e Cina e la rapida involuzione della situazione di Hong Kong, anche grandi multinazionali del calibro di Amazon e Alibaba non hanno potuto resistere alla chiamata.
Cinque anni fa, Kishore Mahbubani, in un libro dal titolo evocativo, “Può Singapore Sopravvivere?”, individuava tre pericoli che la città-stato avrebbe dovuto affrontare negli anni a venire: la sfida del populismo, lo scontro geopolitico tra Stati Uniti e Cina, ed un ‘Cigno Nero’, un evento estremamente raro e difficile da prevedere che avrebbe messo in questione la posizione di Singapore nell’ordine mondiale. Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la profezia può dirsi avverata nel 2020. Dopo un iniziale momento di smarrimento, Singapore sembra aver reagito tornando in sé stessa: una città-stato connessa con il mondo, seppure attraverso nuove vie digitali, senza rinunciare mai all’ambizione di essere amica di tutti e nemica di nessuno. La fede nell’innovazione che ha accompagnato Singapore sin dalla nascita potrebbe garantirle ora la sopravvivenza.
A cura di Francesco Brusaporco