La scommessa elettrica della Thailandia

Tra incertezze globali e nuove aperture, Bangkok sta conquistando un ruolo da protagonista nel settore delle auto elettriche

Di Alessandro Forte

Il settore dei veicoli elettrici è uno dei fulcri strategici che connotano più significativamente le relazioni commerciali fra le maggiori economie mondiali, nonché oggetto di attenta discussione di tutta la comunità internazionale. Caratterizzato da una crescita sempre più galoppante, la vendita di auto elettriche nel 2023 ha costituito circa il 18% dell’intero settore automobilistico, risultando in un distacco eclatante rispetto all’assai minore 2% di 5 anni prima, e proiettandosi verso un valore di mercato di 990.4 miliardi di dollari statunitensi entro il 2029.

Dato il suo rilievo economico, politico ed ambientale, il settore è stato spesso veicolo di contese strategiche fra grandi potenze: la Repubblica Popolare Cinese, che oggi detiene circa il 60% di questo mercato, ha recentemente subito le limitazioni tariffarie della Commissione Europea, che tenta di controbilanciare i sussidi del governo di Pechino alle imprese cinesi; d’altro canto, il più importante attore privato nel settore, Tesla, accusa il calo delle proprie vendite nel mercato cinese, pena la competizione sempre più accesa con le alternative proposte dagli attori nazionali.

Se da un lato lo scenario delineato sembra descrivere questo segmento di mercato come un gioco relegato alle sole grandi potenze, un player regionale che, defilato, ha acquisito un’importanza sempre più rimarcata nel settore è la Thailandia. Il paese ASEAN, infatti, si è dimostrato il più proattivo nella regione in quanto a partecipazione alle catene di approvvigionamento dei veicoli elettrici, affermandosi come attore solido nella produzione ed esportazione di motori, convertitori ed invertitori statici elettrici. Oltretutto, la politica “EV 3.0” lanciata nel 2022 dal governo thailandese ha stimolato decisamente l’acquisto del prodotto nel mercato interno, concedendo detrazioni fiscali che hanno reso la spesa di un’auto elettrica equiparabile a quella di un’auto normale, e riscontrando così un incremento delle vendite del 320% nel 2023. Non stupisce, del resto, che sia proprio la Thailandia a ricoprire il ruolo di leader regionale nel settore: già nel 2001, l’allora primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra si adoperò a rendere il suo paese “la Detroit dell’Est”, promuovendo politiche di orientamento all’export ed agevolazioni agli investimenti esteri che trasformarono la Thailandia in hub del Sud-est Asiatico nel settore automobilistico.

Ciò che risulta interessante, ma non del tutto imprevedibile, è che ad aver beneficiato maggiormente dei vantaggi promossi dal governo thailandese sia stata soprattutto la Cina. Più di 20 imprese automobilistiche cinesi, includendo le rinomate BYD e Great Wall Motor, hanno penetrato il mercato del paese ASEAN, in più casi aprendo centri di produzione locali, e si stima che ad oggi contribuiscano a più della metà delle vendite di auto elettriche, un dato che sembra destinato ad aumentare. Se ciò ha favorito la crescita del settore dell’automotive in Thailandia, d’altro canto occorrerà prima o poi che Bangkok diversifichi maggiormente la gamma dei suoi investitori, per non rischiare di dipendere troppo da Pechino. Ed oggi potrebbero presentarsi valide opportunità per iniziare. 

Durante lo scorso anno, infatti, Tesla aveva già considerato l’idea di fondare una propria sede produttiva in Thailandia per espandere la sua presenza nel mercato interno, ed aumentare la proiezione nel Sud-Est Asiatico, optando infine per la sola implementazione di reti di ricarica nel paese. La gigafactory di Tesla a Shanghai avverte le pressioni della contesa commerciale Cina-USA: ad aprile, infatti, si è registrato un calo del 6% delle vendite di veicoli Tesla Made-in-China rispetto all’anno precedente. Oltretutto, l’azienda di Elon Musk ha ritirato dal mercato cinese i modelli S e X prodotti negli Stati Uniti, in concomitanza con l’inasprimento della guerra tariffaria, sebbene il CEO non abbia rilasciato dichiarazioni che confermino un nesso diretto tra i due eventi.

In un contesto pieno di sfide ed imprevisti, Bangkok potrebbe ritrovarsi in una posizione molto interessante per catturare più favorevoli intenzioni da parte dell’impresa statunitense, diversificare gli investimenti nel suo territorio, ed accrescere il proprio leverage nel settore dell’automotive. Tuttavia, è opportuno che si muova cautamente, ricercando un equilibrio nelle relazioni bilaterali con entrambe le potenze. Patientia vincit omnia.

Le Filippine a un bivio con le elezioni di metà mandato

Il voto del 12 maggio sembra quasi un referendum sulla lotta tra Marcos e la famiglia Duterte

Di Luca Menghini

Il 12 maggio, quasi 70 milioni di filippini si recheranno alle urne per quello che si preannuncia come il più importante voto di metà mandato della storia recente. In palio ci sono oltre 18.000 cariche, tra cui 12 seggi del Senato e tutti i 317 della Camera dei Rappresentanti, ma al di là dei numeri, questo voto è ampiamente considerato un referendum sulla leadership del presidente Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr. e sul futuro della vicepresidente Sara Duterte. Il crollo dell’ex potente coalizione “UniTeam” tra Marcos e Duterte ha trasformato queste elezioni in una guerra per procura ad alta tensione, con ciascuna dinastia politica intenta a consolidare il proprio potere e a plasmare il cammino verso le presidenziali del 2028.

Quando Marcos e Duterte si allearono nel 2022, la loro coalizione li portò a una schiacciante vittoria elettorale. Ma le divergenze emersero presto. Marcos riorientò la politica estera del Paese, allontanandola da Pechino e riavvicinandola a Washington, concedendo maggiore accesso militare agli Stati Uniti attraverso nuovi siti previsti dall’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) e rafforzando i legami con alleati come il Canada e il Giappone. Duterte, al contrario, è rimasta relativamente silenziosa sulla Cina, criticando invece l’approccio di Marcos alle dispute marittime, arrivando a definire la sua gestione del Mar Cinese Meridionale (West Philippine Sea) come un “fiasco”. Le tensioni sono esplose nel 2024, quando Sara Duterte si è dimessa dai suoi incarichi di governo e suo padre, l’ex presidente Rodrigo Duterte, è stato arrestato e consegnato alla Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini contro l’umanità. L’arresto, che molti ritengono sia stato reso possibile dall’amministrazione Marcos, ha infranto ogni residua illusione di unità tra i due schieramenti.

Queste elezioni non sono solo un termometro del sentimento popolare, ma anche una battaglia per la sopravvivenza politica. Per Marcos, un buon risultato della sua lista di candidati al Senato garantirebbe il sostegno legislativo necessario per portare avanti le tanto attese riforme costituzionali, tra cui l’allentamento delle restrizioni economiche. Per Sara Duterte, la posta in gioco è ancora più esistenziale. Messa in stato di accusa dalla Camera dei Rappresentanti, affronterà un processo al Senato dopo le elezioni di metà mandato. Per evitare la condanna, e mantenere viva la sua possibilità di candidarsi alla presidenza nel 2028, dovrà assicurarsi che almeno otto dei 24 senatori siano a lei fedeli. Un cattivo risultato dei suoi alleati non solo indebolirebbe la sua difesa legale, ma ridurrebbe ulteriormente l’influenza della famiglia Duterte sulla scena politica nazionale.

La battaglia si sta combattendo non solo nei tradizionali luoghi della campagna elettorale, ma anche nelle trincee digitali. Le Filippine, pioniere della guerra dell’informazione sin dal 2016, stanno assistendo a un’ondata di deepfake, contenuti generati dall’intelligenza artificiale e disinformazione. Sia il campo di Marcos che quello di Duterte hanno storicamente fatto affidamento su reti di troll online e operazioni di messaggistica coordinata, ma con la frattura dell’ex alleanza “UniTeam”, questi strumenti vengono ora usati l’uno contro l’altro. Un video deepfake diventato virale in cui Marcos appare mentre sniffa cocaina, un chiaro riferimento alle accuse di lunga data mosse da Rodrigo Duterte, è solo uno degli esempi del fango digitale che caratterizza la campagna. In risposta, la Commission on Elections (COMELEC) e alcuni parlamentari hanno richiesto nuove regole per regolamentare l’uso dell’intelligenza artificiale nelle campagne elettorali, ma l’applicazione resta una sfida.

Le preoccupazioni legate alla sicurezza complicano ulteriormente il panorama elettorale. Almeno 36 aree sono state classificate come “zone rosse” a causa del rischio elevato di violenze legate al voto, e si sono già verificati oltre due dozzine di omicidi a sfondo politico da quando sono state depositate le candidature. La COMELEC ha introdotto nuove misure per ridurre il rischio di violenze, tra cui un divieto di porto d’armi, orari speciali di voto per anziani e persone con disabilità, e seggi elettorali accessibili in emergenza, noti come Emergency Accessible Polling Places (EAPP). Inoltre, ha avviato una collaborazione con piattaforme finanziarie come GCash per individuare e bloccare tentativi di compravendita di voti, un problema ricorrente nelle elezioni filippine.

La politica estera occupa un posto centrale in queste elezioni. L’allineamento di Marcos con gli Stati Uniti, il Canada e alleati regionali come il Giappone e l’Australia ha ricevuto elogi a livello internazionale, ma continua a suscitare controversie in patria. Tuttavia, il sentimento pubblico sembra essersi spostato a suo favore su questo fronte. Un sondaggio del 2024 ha mostrato che il 73% dei filippini sostiene un aumento delle misure militari per affermare la sovranità nel Mar Cinese Meridionale (noto localmente come West Philippine Sea). Al contrario, i candidati filo-cinesi, spesso associati al campo di Duterte, sono guardati con crescente sospetto: oltre il 70% degli elettori ha dichiarato che non voterebbe per un politico considerato vicino alla Cina. Questo riallineamento strategico riflette anche dinamiche geopolitiche più ampie, con Pechino che intensifica le sue campagne di influenza nel Sud-Est asiatico e Washington che cerca di rafforzare le proprie alleanze nella regione indo-pacifica.

Tuttavia, la politica estera da sola difficilmente sarà decisiva per il voto. Le difficoltà economiche restano la principale preoccupazione per la maggior parte degli elettori. Nonostante un calo dell’inflazione all’1,8% nel marzo 2025, il tasso più basso degli ultimi cinque anni, la frustrazione dell’opinione pubblica persiste. La promessa simbolo del presidente Marcos di ridurre il prezzo del riso a ₱20 al chilo è stata ampiamente percepita come un fallimento: solo il 4% dei filippini ritiene che l’obiettivo sia stato raggiunto. Nel frattempo, l’inflazione, l’insicurezza lavorativa e l’aumento del costo dei beni di prima necessità continuano a dominare le preoccupazioni degli elettori, in particolare tra le fasce a basso reddito. Un recente sondaggio di Pulse Asia ha mostrato che il 72% dei filippini desidera che Marcos affronti l’inflazione nel suo prossimo discorso sullo stato della nazione, molto più di qualsiasi altra questione.

Con l’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato, la partecipazione degli elettori sarà fondamentale. La COMELEC ha espresso preoccupazione per l’affluenza alle urne, in particolare tra i giovani, che rappresentano quasi il 40% dell’elettorato. Le campagne di educazione al voto sono state intensificate in collaborazione con gruppi della società civile, la Chiesa cattolica e le università. Tuttavia, persistono disillusione e apatia, alimentate da un ambiente informativo tossico e dallo scetticismo nei confronti dell’integrità del sistema politico.

L’esito delle elezioni avrà implicazioni profonde, non solo per le Filippine, ma per l’intero Sud-est asiatico. I vicini dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), gli osservatori internazionali e alleati come gli Stati Uniti e il Canada stanno seguendo da vicino il voto, che determinerà se Manila continuerà a svolgere un ruolo regionale assertivo o se tornerà verso l’instabilità interna. Le elezioni influenzeranno anche il modo in cui le Filippine si rapporteranno con Pechino, soprattutto mentre le tensioni nel Mar Cinese Meridionale continuano ad aumentare a causa delle dispute territoriali e degli scontri con la Guardia Costiera cinese.

In questo contesto, il voto del 12 maggio rappresenta molto più di un semplice rinnovo delle cariche legislative. È un momento di resa dei conti per l’orientamento politico del Paese e per gli equilibri di potere tra le sue due dinastie dominanti. Con le fazioni dei Marcos e dei Duterte impegnate in una lotta per il controllo, il popolo filippino si trova ora davanti a una scelta che definirà il futuro della nazione, non solo in termini di governo, ma anche rispetto alla posizione che le Filippine assumeranno in una regione indo-pacifica sempre più contesa.

L’Ambasciatore Michelangelo Pipan: “Dopo i dazi USA, l’Italia può avere un ruolo più importante nell’ASEAN”

Gli interventi del Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN durante gli eventi organizzati da Confindustria e SACE, nell’ambito dell’Assemblea Annuale della Banca Asiatica di Sviluppo a Milano

“L’Italia e le imprese italiane possono aspettarsi di svolgere un ruolo molto importante nell’ASEAN”. Lo ha dichiarato l’Ambasciatore Michelangelo Pipan, Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, intervenendo all’evento “The potential of the Italian Industry for Development Projects in the ASEAN Countries”, organizzato martedì 6 maggio da Confindustria nel quadro dell’Assemblea Annuale della Banca Asiatica di Sviluppo (ADB) che si è svolta a Milano. “L’opportunità esiste ed è pronta per essere colta, soprattutto oggi in un momento in cui il mondo si trova ad affrontare una situazione senza precedenti. I fondamenti dell’ordine economico internazionale sono stati scossi, se non addirittura stravolti; il commercio mondiale è minacciato da una grave frammentazione geo-economica; le catene di approvvigionamento devono essere riorganizzate mentre il cambiamento climatico resta una sfida che può essere affrontata solo attraverso sforzi comuni, difficili da realizzare”, ha spiegato Pipan, nel panel intitolato “Cooperazione allo sviluppo nei Paesi ASEAN: progetti e strumenti”. Secondo il Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, “gli Stati dovranno rimodellare le proprie politiche, cercando nuovi partner, diversificando l’approvvigionamento di materie prime e beni d’investimento, e individuando nuovi mercati per le proprie esportazioni. In questo percorso cercheranno partner affini. Vorranno evitare di dipendere eccessivamente da singoli partner. L’ASEAN, in particolare, è un solido sostenitore del multilateralismo e del libero scambio; ha una lunga tradizione nel rifiutare di schierarsi tra le due superpotenze – Cina e Stati Uniti – che sono anche i suoi principali partner economici. Finora l’ASEAN ha svolto un’opera di bilanciamento notevole ed efficiente”.

Come spiega l’Ambasciatore Pipan, “in seguito al recente caos tariffario, è molto probabile che emergeranno nuove “costellazioni” di partenariato economico: l’ASEAN è stata tradizionalmente molto attiva in questa direzione, alla ricerca di prospettive commerciali più ampie, il cui esempio più emblematico è il ruolo centrale svolto a favore del trattato RCEP, entrato in vigore nel 2022, che ha abolito il 90% dei dazi tra 15 Paesi rappresentanti il 30% del PIL mondiale”. Nel contesto di un probabile e significativo aumento delle relazioni economiche tra UE e ASEAN, Pipan sottolinea che “l’Italia e le sue imprese sono ben posizionate: le nostre competenze sono ben conosciute, molto apprezzate e si sposano bene con le priorità di sviluppo dell’ASEAN: per citarne alcune, in linea con la pianificazione ASEAN Post-2025, le energie rinnovabili, l’automazione industriale, le infrastrutture, lo sviluppo del settore sanitario, incluse le apparecchiature mediche, lo spazio e l’alta tecnologia”.

Nel corso della stessa giornata di martedì 6 maggio, il Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN ha tenuto anche un discorso programmatico durante l’evento “SACE’s Growth Effect: Expanding Borders, Building the Future” , organizzato dal Gruppo assicurativo-finanziario italiano. Parlando subito dopo Riccardo Barbieri, Direttore Generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha sottolineato il ruolo dell’HIGH LEVEL DIALOGUE on ASEAN-ITALY ECONOMIC RELATIONS, l’evento annuale che l’Associazione Italia-ASEAN organizza con The European House – Ambrosetti in una capitale dei Paesi ASEAN, che quest’anno si terrà in Vietnam. L’Ambasciatore Pipan ha evidenziato che “è il Governo che deve guidare, e abbiamo accolto con grande soddisfazione il fatto che nel recente Piano d’Azione per l’Export pubblicato dal MAECI l’ASEAN sia stata inclusa tra le priorità (con particolare attenzione a Vietnam, Thailandia e Indonesia) e potrà beneficiare di nuovi strumenti più potenti – inclusi quelli di SACE – per la promozione delle esportazioni”. Secondo il Presidente dell’Associazione, “i Paesi ASEAN hanno tutte le ragioni per cercare partenariati con le imprese italiane. Alla fine, però, è l’interesse del mondo imprenditoriale che conta davvero per far sì che tutti gli ingredienti si fondano nel successo! Ed è proprio su questo ultimo punto che bisogna rafforzare l’impegno: aiutare a far crescere in Italia la consapevolezza sull’ASEAN. In quest’ottica, abbiamo recentemente proposto al MAECI di co-organizzare una conferenza internazionale dal titolo ASEAN AWARENESS, sul modello di due iniziative analoghe tenutesi negli anni ’10”, ha concluso Pipan.

Vietnam protagonista globale, 50 anni dopo la caduta di Saigon

Il 30 aprile 1975 finiva la guerra del Vietnam. Il Paese, da allora, è fortemente cambiato

Di Anna Affranio

Il 30 aprile 1975 segna una delle date più drammatiche del XX secolo: la caduta di Saigon (oggi Ho Chi Minh City) sanciva la fine della guerra del Vietnam e l’inizio di una nuova era che pose termine a un ventennio di divisioni, lutti e distruzioni. Cinquant’anni dopo, il Paese che fu teatro di uno dei conflitti più laceranti della Guerra Fredda è oggi un attore dinamico sulla scena internazionale e un nodo strategico nelle catene di approvvigionamento globali.

Le immagini iconiche dell’elicottero in decollo dal tetto dell’ambasciata americana, delle folle in fuga, del silenzio che calò su una città devastata, fanno parte della memoria collettiva non solo vietnamita, ma mondiale. Per molti, la caduta di Saigon fu sinonimo di sconfitta di un modello sociale ed economico, di perdita di riferimenti politici ed ideologici, di esilio per quanti avevano appoggiato convintamente uno sviluppo di tipo occidentale. Oggi, a mezzo secolo di distanza, la memoria resta viva: i musei, i monumenti, ma anche il modo in cui la società vietnamita ha saputo elaborare il passato senza rimanerne prigioniera.

Negli anni immediatamente successivi alla riunificazione, il Vietnam ha affrontato sfide enormi: embargo economico, isolamento internazionale, e una ricostruzione lenta e difficile. Ma a partire dalla fine degli anni ’80, con la politica del Đổi Mới (letteralmente, “rinnovamento”), il Paese ha avviato un percorso di riforme economiche e apertura al mercato che ha trasformato radicalmente la sua struttura produttiva e sociale, portando il Paese dall’essere tra i piu’ poveri al mondo ad uno a medio reddito nel corso di appena una generazione1.

Oggi il Vietnam è completamente integrato nelle catene di approvvigionamento globali: è uno dei maggiori esportatori mondiali di elettronica, tessile, calzature, mobili e prodotti agricoli. Aziende come Samsung, Intel, Nike, e Apple hanno stabilito impianti produttivi nel Paese, attratte da una forza lavoro giovane, qualificata e competitiva, e da una stabilità politica che rappresenta un asset strategico in un’ Asia sempre più turbolenta. Inoltre, il settore dell’elettronica e dei semiconduttori è cresciuto a ritmi impressionanti: oggi il Vietnam è uno dei principali esportatori mondiali di smartphone e componenti elettroniche, mentre Hanoi e Ho Chi Minh City stanno emergendo come hub per startup tecnologiche, sostenute da un crescente ecosistema di venture capital e innovazione digitale.

Il Vietnam non è solo un hub manifatturiero: negli ultimi anni è diventato uno degli attori diplomatici più attivi del Sud-est asiatico. Ha sottoscritto una lunga serie di accordi di libero scambio (FTA) con partner strategici, tra cui l’UE, il Giappone, il Regno Unito e il blocco CPTPP. Ha saputo bilanciare abilmente i rapporti con Cina e Stati Uniti, mantenendo una postura indipendente ma cooperativa, e diventando uno dei principali promotori della cooperazione ASEAN. Non per niente, la politica estera Vietnamita è stata soprannominata la “diplomazia del bambù”, come l’ha definita  Nguyen Phu Trong, segretario del partito comunista:  ben radicata nel terreno, solida nei principi, flessibile nelle strategie.

Il Paese ha anche assunto un ruolo sempre più visibile nelle missioni di pace delle Nazioni Unite e nei forum multilaterali, presentandosi come una nazione aperta, pragmatica, e impegnata nella costruzione di un ordine internazionale stabile e multilaterale.

Non si può poi non menzionare il Paese come meta turistica sempre più gettonata: il Vietnam è diventato oggi una delle mete turistiche più popolari del Sud-est asiatico, tanto che il governo punta a raggiungere la cifra di 23 milioni di turisti quest’anno. Nel 2023, il Paese ha accolto oltre 12 milioni di turisti internazionali, attratti dai paesaggi naturali mozzafiato (come Ha Long Bay, le montagne del Nord, le spiagge di Da Nang e Phu Quoc) a un ricco patrimonio storico e culturale: templi antichi, architetture coloniali, street food iconico e città vibranti come Hanoi e Ho Chi Minh City. 

A soli 50 anni dalla caduta di Saigon, il Vietnam ha saputo superare l’immagine di “paese della guerra”, trasformandosi in una realtà moderna, dinamica, e con una visione strategica ben definita. La memoria del conflitto resta scolpita nella coscienza nazionale, ma non è più il solo orizzonte narrativo. Il Vietnam di oggi è un Paese in movimento, che guarda al futuro con consapevolezza, determinazione e uno spirito profondamente internazionale.


1 https://www.worldbank.org/en/country/vietnam/overview

Pagare dazio all’incertezza: i Paesi ASEAN cercano una soluzione ai dazi USA

I Paesi ASEAN sono stati colpiti duramente dai dazi americani. La politica commerciale non convenzionale di Donald Trump impone risposte, a loro volta, inedite. Per ora prevalgono cautela e volontà di trattare, ma il ruolo di Washington (e di Pechino) nella regione è destinato a cambiare.

Articolo di Pierfrancesco Mattiolo

Alla fine, i dazi promessi da Donald Trump sono entrati in vigore. Non quelli annunciati durante il famigerato Liberation Day dello scorso 2 aprile, sospesi alcuni giorni dopo per una durata di tre mesi, probabilmente in reazione al crollo di Wall Street. Per il momento, si applicherà solo un dazio generale del 10%, con alcune eccezioni: i dazi sopra il 100% contro la Cina; acciaio e alluminio con tariffe al 25%; l’esclusione per alcuni prodotti, tra cui i semiconduttori. Durante la campagna elettorale, Trump aveva agitato l’idea di un aumento delle tariffe tra il 10% e il 20%, quindi l’attuale assetto si può considerare una promessa mantenuta, anche se la natura imprevedibile dell’attuale esecutivo USA rende difficile prevedere quali saranno i dazi tra un anno, un mese o una settimana. I dazi al 10% rimangono comunque alti e segnano forse l’inizio di una fase di profonda incertezza per l’economia globale.

Se la tabella mostrata da Trump durante il Liberation Day fosse effettivamente applicata in futuro, i dazi per quasi tutti i Paesi ASEAN si alzerebbero rispetto alla soglia di partenza del 10%. In ordine decrescente, la Cambogia sarebbe colpita da un dazio del 49%; Laos, 47%; Vietnam, 46%; Tailandia, 36%; Indonesia, 32%; Malesia e Brunei, 24%; Filippine, 17%. Solo Singapore rimarrebbe al 10%, dato che è l’unico Paese a importare dagli USA più di quanto esporta. Come ampiamente osservato da analisti e stampa internazionale, queste “tariffe reciproche” non sono basate sui dazi imposti dai partner commerciali sulle merci americane, come affermato dalla Casa Bianca, bensì sul disavanzo commerciale tra ciascun Paese e gli Stati Uniti. Una scelta criticata, che mette in difficoltà questi Paesi: anche riducendo i propri dazi sui prodotti statunitensi, il disavanzo commerciale si potrebbe forse ridurre, ma comunque non invertire del tutto, e non certo per sola iniziativa governativa. La visione mercantilista dell’attuale Amministrazione, inoltre, esclude dalle proprie considerazioni che le sue aziende importano sì molti beni a basso costo dall’estero, ma godono poi di alti margini quando vendono il prodotto finale al consumatore statunitense o di un altro Paese. Inoltre, l’economia USA, la più avanzata al mondo, può concentrarsi sull’esportare servizi e sull’attrarre investimenti e risparmi, in nome del principio di specializzazione. Trump rompe con la visione del commercio internazionale che ha dominato per decenni l’agenda dei governi di quasi tutto il mondo.

Un altro elemento “poco ortodosso” della politica commerciale di Trump è imporre un dazio generale su tutti i prodotti, da tutti i Paesi. Di solito, i governi non usano misure “one-size-fits-all” in politica commerciale. I beni che non produci avranno un dazio basso; quelli che vuoi continuare a produrre sul tuo suolo, magari per motivi politici o strategici, ne avranno uno alto. Se vuoi ottenere maggiore accesso al mercato di un altro Paese (ossia una riduzione delle tariffe sulle tue merci), solitamente dovrai offrire maggiore accesso al tuo, scegliendo su quali merci ha più senso ridurre bilateralmente i dazi. La politica commerciale UE nella regione, come dimostrato dagli accordi di libero scambio con Vietnam e Singapore, segue questo approccio. Trump si muove in tutt’altra direzione o, meglio, sembra considerare questi aspetti solo in un secondo momento, ad esempio esonerando dai dazi prodotti essenziali e prodotti all’estero, come i semiconduttori.

Infine, l’ultimo elemento di rottura tra la politica commerciale di Trump e quella “convenzionale” riguarda il suo obiettivo dichiarato. O meglio, il fatto che Trump non ne abbia (solo) uno, definito chiaramente. Ad ascoltare il Presidente e i suoi collaboratori, l’Amministrazione sembra inseguire molteplici scopi, anche in parziale contrasto tra loro. Aumentare le entrate del governo federale per ridurre altre tasse? Riportare certe industrie negli Stati Uniti? Ridurre o eliminare i disavanzi commerciali? Ottenere concessioni su altri dossier politici o economici? Imporre ai Paesi terzi di non cooperare con i rivali geopolitici degli USA, Cina in testa? Come osservato dalla rivista The Diplomat, tale ambiguità rende difficile per i Paesi ASEAN (e non solo) capire cosa vuole Trump e come accontentarlo, spingendoli alla conclusione che, forse, Washington non voglia togliere le tariffe del tutto. Tale worst-case scenario sembra confermato dal commento di Peter Navarro, il consigliere commerciale di Trump, in risposta alle prime offerte concilianti del Vietnam: “non significano nulla per noi”, il Vietnam è un punto di “trasbordo” dei prodotti cinesi ed è “essenzialmente una colonia della Cina comunista”.

Come possono reagire le cancellerie della regione, dunque? Per il momento, prevale la cautela e la ricerca di un accordo con Trump. Come dimostrato dal Messico, questo approccio sembra il più indicato per rimandare l’entrata in vigore dei dazi. Nessun Paese ASEAN ha imposto dazi di rappresaglia: se la politica commerciale di Trump rompe con i precedenti consolidati, anche la risposta degli altri Paesi lo fa. Se continueranno così, i governi ASEAN daranno in parte ragione a Trump, che aveva promesso alle aziende americane che non avrebbero subito rappresaglie, dato che i partner si sarebbero affrettati a fargli concessioni – o, per usare un’espressione di Trump, “baciargli il c…”. Molti Paesi ASEAN hanno offerto la riduzione dei loro dazi e del disavanzo commerciale, comprando più prodotti USA e diversificando le destinazioni del loro export. Tornando al caso del Vietnam, se le parole di Navarro non sono incoraggianti, quelle di Trump in persona lo sembrano – il Presidente ha definito una chiamata tra lui e il Segretario Generale To Lam “molto produttiva”. Hanoi ha anche stretto accordi con Starlink, l’azienda spaziale di Elon Musk, probabilmente per ottenere un alleato nell’entourage di Trump. Dato che la posizione dell’Amministrazione Trump è solo quella del Presidente Trump, più che quella dei suoi collaboratori, avere Navarro contro e Musk a favore fa poca differenza, specie con Musk sempre meno coinvolto nelle scelte dello Studio Ovale.

Più difficile sarà invece per Trump imporre una rottura, commerciale e politica, con la Cina. Ad esempio, il giornalista David Hutt, esperto di Cambogia, ha osservato che gli Stati Uniti potrebbero chiedere a Phnom Penh di rivedere la cooperazione con i cinesi sulla base navale di Ream in cambio di una riduzione dei dazi. I Paesi ASEAN, però, potrebbero voler fare l’esatto contrario: se non si può esportare verso gli USA, si può pur sempre commerciare tra Paesi colpiti dalle tariffe, Cina inclusa. Pechino ha colto l’opportunità e si presenta oggi come affidabile paladina del libero commercio, alternativa all’imprevedibile Washington. L’attenzione critica degli analisti e dei governi si è in parte spostata dalle pratiche commerciali aggressive cinesi ai dazi americani. Il leader cinese Xi Jinping ha già iniziato una serie di visite ufficiali e ha incassato un successo simbolico con il riavvio della cooperazione commerciale con Giappone e Corea del Sud – durante gli anni dell’Amministrazione Biden, i tre Paesi non avevano mai dialogato in materia, anzi, si erano allontanati. I governi ASEAN, abituati a destreggiarsi tra le due potenze del Pacifico, continueranno a farlo, con l’unica differenza che ora gli Stati Uniti sono percepiti come meno affidabili e prevedibili. La “ritirata strategica” USA dalla regione, però, non lascia spazio solo alla Cina: l’Unione Europea diventa un potenziale partner commerciale e strategico più importante.Per il Sud-Est asiatico, cooperare a livello ASEAN può fornire un mezzo per resistere all’approccio divide et impera di Trump. L’attuale presidente dell’Associazione, la Malesia, si è impegnata a trovare una risposta coordinata a questa sfida al modello economico della regione, basato sull’export. Anche se i Paesi membri sono stati colpiti in misura differente, rispetto ai dazi della prima Amministrazione Trump, le opportunità sembrano molto inferiori rispetto ai rischi. Negli ultimi anni, alcune economie, come quella vietnamita, avevano tratto vantaggio dal decoupling tra USA e Cina, attirando buona parte della produzione delle merci da esportare in America. Proprio questo ha fatto crescere il disavanzo commerciale, portando ai dazi più alti imposti da Trump. Il messaggio del Liberation Day è che conquistare maggiori quote di mercato statunitense, e fare più affidamento su quell’export per il proprio sviluppo, rischia di penalizzare un Paese in futuro. Se le tensioni commerciali del primo mandato sembravano un gioco a somma zero con vincitori e vinti – in linea con quella che sembra la visione del mondo di Trump –, questa volta tutti sembrano destinati a perderci. L’incertezza causata dalle scelte poco prevedibili e mutevoli di Trump, in rottura con il pensiero economico dominante, rischia di avere effetti negativi sugli investimenti e sull’economia in tutto il mondo.

Il ruolo chiave della Malaysia sui chip

Oltre a voler attirare le attività delle multinazionali leader nel settore, la Malaysia punta anche a rafforzare il proprio tessuto imprenditoriale interno

Di Emanuele Ballestracci

I semiconduttori rappresentano il fulcro dell’economia digitale contemporanea, indispensabili per alimentare tecnologie avanzate come smartphone, intelligenza artificiale, veicoli elettrici e infrastrutture critiche. Il valore del loro mercato mondiale ha raggiunto i 627 miliardi di dollari nel 2024 ed è destinato a superare i 1.000 miliardi entro il 2030, consolidandosi come uno dei pilastri nella competizione tecnologica tra le grandi potenze.

Il peso economico e strategico di questi componenti è amplificato dalle loro implicazioni in ambito militare, rendendoli un nodo nevralgico nella rivalità tra Stati Uniti e Cina. Per entrambe le leadership, mantenere – o acquisire – la supremazia tecnologica è considerato decisivo soprattutto nel lungo periodo. Questa consapevolezza ha innescato una profonda ristrutturazione delle filiere produttive globali, trainata in particolare dalle politiche statunitensi mirate a conservare un vantaggio comparato. Fino a pochi anni fa, le aziende cinesi costituivano infatti uno snodo cruciale del processo produttivo, ma tale centralità è oggi in discussione a causa delle misure adottate da Washington per ostacolare lo sviluppo tecnologico di Beijing nel settore.

In risposta, numerose imprese stanno riorganizzando le proprie supply chain, delocalizzando la produzione verso aree considerate meno vulnerabili alle tensioni sino-americane, come il Sud-Est asiatico e il Nord America, nel tentativo di rafforzare la propria resilienza operativa. In questo scenario, uno degli attori più sorprendenti – e finora sottovalutati – è la Malaysia. Il Paese si colloca al sesto posto tra gli esportatori mondiali di semiconduttori, detenendo il 13% del mercato globale ma rimanendo ancorato alle sole fasi di assemblaggio, collaudo e confezionamento. Un risultato che premia oltre cinquant’anni di investimenti strategici e programmazione industriale.

Grazie a questa solida base manifatturiera, la Malaysia si è oggi dotata di un ecosistema industriale maturo e attrattivo per gli investimenti esteri. Il governo di Putrajaya sta puntando con decisione alla valorizzazione dell’ecosistema tecnologico nazionale, soprattutto attraverso la creazione di parchi tecnologici, zone economiche speciali e corridoi di sviluppo. Tuttavia, le attività restano perlopiù concentrate su segmenti a basso valore aggiunto, limitando l’aspirazione del Paese a un ruolo di primo piano nelle catene globali del valore.

La ridefinizione delle catene di approvvigionamento degli ultimi anni ha però aperto un importante opportunità per un salto di qualità. La strategia malaysiana mira infatti a scalare la filiera e accedere alle fasi più sofisticate del ciclo produttivo. Putrajaya intende attrarre 118 miliardi di dollari in investimenti entro il 2030, concentrandosi su hub già affermati come lo stato di Penang – spesso definito la “Silicon Valley dell’Est” – che ospita stabilimenti avanzati, centri di ricerca e laboratori d’innovazione, e ha già ricevuto ingenti investimenti da aziende leader come Intel, Infineon, Lam Research e Texas Instruments.

Oltre a voler attirare le attività delle multinazionali leader nel settore, la Malaysia punta anche a rafforzare il proprio tessuto imprenditoriale interno. La “Strategia nazionale per i semiconduttori” lanciata nel 2024 intende infatti promuovere lo sviluppo delle capacità locali, rendendole protagoniste dell’industrializzazione tecnologica del Paese. Tra le iniziative principali figurano un impegno pubblico da 6 miliardi di dollari in dieci anni e l’acquisizione della blueprint per il design dei chip dall’azienda britannica ARM. Quest’ultimo passo è particolarmente significativo, poiché consente alle imprese malaysiane di accedere alla progettazione autonoma di semiconduttori ad alto contenuto tecnologico.

Nonostante questi sviluppi promettenti gli ostacoli persistono. Le debolezze in termini di ricerca e sviluppo, insieme alla carenza di capitale umano qualificato, rappresentano un freno alla piena realizzazione del piano strategico. Sebbene uno degli obiettivi delineati dalla Strategia sia di formare 60.000 ingegneri entro il 2030 – di cui 10.000 previsti nell’ambito dell’accordo con ARM – l’inadeguatezza dei curricula universitari e l’emigrazione dei talenti pongono serie difficoltà. La cosiddetta “fuga di cervelli”, alimentata da stipendi più elevati e migliori prospettive di carriera all’estero, in particolare a Singapore, resta una delle criticità più gravi. Tuttalpiù, le limitate capacità tecnologiche nazionali e la forte pressione concorrenziale da parte di giganti come Nvidia, Qualcomm e la stessa ARM rendono difficile l’ingresso sul mercato a condizioni vantaggiose.

Infine, la Malaysia dovrà continuare a bilanciare con attenzione le proprie relazioni con Stati Uniti e Cina, per garantire la continuità degli investimenti occidentali senza compromettere i legami economici con Beijing, suo principale partner commerciale. Uno degli storici punti di forza malaysiani è stata proprio la sua abilità nel praticare un’ambiguità strategica, che finora le ha consentito di evitare di essere trascinata nella rivalità tra le due superpotenze. Tuttavia, le crescenti tensioni tra Washington e Beijing stanno rendendo questo equilibrio sempre più precario. Un chiaro esempio è la recente presunta spedizione di chip Nvidia dalla Malaysia verso la Cina. Questa ha infatti suscitato una dura reazione da parte statunitense, che nel 2022 aveva imposto restrizioni all’export di semiconduttori avanzati verso la Repubblica Popolare. In risposta, Putrajaya ha intensificato i controlli e avviato indagini su alcune aziende coinvolte, i cui nomi non sono però stati resi noti.

In un contesto globale sempre più instabile, la capacità della Malaysia di consolidare il proprio ruolo nel settore dei semiconduttori dipenderà quindi dalla sua abilità nello sfruttare le occasioni date dalla ristrutturazione delle catene globali del valore, ovviare ai propri problemi strutturali e riuscire a mantenere la propria “neutralità” nel contesto della rivalità sino-americana.

A Singapore si inizia a immaginare l’abolizione della pena di morte

Nonostante una buona parte dell’opinione pubblica continui a condividere il mantenimento della pena capitale, l’abolizione sta diventando una posizione sempre più popolare, soprattutto tra la popolazione giovane

Di Emanuele Ballestracci

23 gennaio 2025, Syed Suhail bin Syed Zin viene giustiziato dieci anni dopo essere stato condannato a morte per il traffico di 38 grammi di eroina. Il 5 febbraio è invece l’ex poliziotto Iskandar bin Rahmat ad essere impiccato per un duplice omicidio risalente al 2013. Due giorni dopo un altro uomo, cinquantenne condannato per traffico di droga, subisce la stessa pena capitale. Queste impiccagioni sono state tutte eseguite nella prigione di Changi, a una manciata di chilometri dall’omonimo aeroporto simbolo della modernità e prosperità singaporiana.

Sin dalla sua indipendenza nel 1965 la pena di morte è infatti stata parte integrante del corpus legislativo della Repubblica di Singapore, strascico post-coloniale della legislazione penale britannica a cui il diritto singaporiano si è fortemente ispirato soprattutto nei suoi primi anni di vita. Nel 1973 questa pratica venne persino rafforzata tramite il Misuse of Drugs Act, prevedendola per il possesso di più di 15 grammi di eroina o 500 di cannabis. Nei due decenni successivi la pena capitale divenne uno dei principali strumenti attraverso cui il governo singaporiano cercò di eradicare il traffico e consumo di droga. È così che tra il 1994 e il 1999, Singapore ha registrato il più alto tasso pro capite di esecuzioni al mondo, con una media di 13,57 esecuzioni ogni centomila abitanti. Trasformare la città-stato in uno dei luoghi più sicuri, “armoniosi” e performanti al mondo è da sempre uno dei principi guida dell’azione del People’s Action Party (PAP), il partito al governo. Questo obiettivo si traduce in politiche spesso draconiane, tra cui la linea di “tolleranza zero” nei confronti dei reati legati alla droga — una linea che, in molti casi, comporta l’applicazione della pena di morte. Secondo il PAP, Singapore è riuscita ad attrarre ingenti investimenti esteri e sedi di multinazionali anche grazie alla sua capacità di garantire ordine e sicurezza all’interno dei propri confini. Alla base di questa visione vi è la convinzione che la severità e, soprattutto, la certezza della pena rappresentino strumenti di deterrenza essenziali non solo contro la criminalità, ma anche contro ogni forma di degrado sociale. È proprio questa convinzione che giustifica la posizione inflessibile del PAP sul mantenimento della pena di morte, considerata un pilastro della stabilità e del modello di sviluppo del Paese. 

Le uniche aperture ad un allentamento della pena capitale sono arrivate solo nel 2012, quando il governo ha introdotto modifiche legislative che hanno concesso ai giudici la discrezionalità di comminare l’ergastolo anziché la pena di morte. Ciò solo nei casi di omicidio colposo e per alcuni reati di traffico di droga, a condizione che l’imputato soddisfi specifici criteri, come aver agito solo come corriere o aver fornito assistenza significativa alle autorità. Tra l’altro, il periodo compreso tra il 2010 e il 2013, durante il quale si è discussa e implementata la riforma sulla pena di morte, rappresenta uno dei due unici momenti in cui le esecuzioni a Singapore si sono fermate stabilmente. L’altra anomalia è il biennio 2020–2021, quando le impiccagioni sono state sospese a causa della pandemia da Covid-19.

Nonostante una buona parte dell’opinione pubblica continui a condividere le opinioni governative sul tema, l’abolizione della pena di morte sta diventando una posizione sempre più popolare, soprattutto tra la popolazione giovane. Le tre manifestazioni che sono avvenute dal 2021 a Hong Lim Park – l’unico luogo a Singapore in cui è consentito organizzare proteste e manifestazioni – dimostrano come la sensibilità per questo tema stia montando. L’ultima di queste potrebbe aver persino giocato un ruolo nella sospensione dell’esecuzione di Pannir Selvam Pranthaman, cittadino malese colpevole di aver importato 51 grammi di eroina, annunciata a poche ore dall’impiccagione prevista per lo scorso 20 febbraio. Tuttalpiù, negli ultimi anni il PAP ha cominciato a perdere consensi, e il persistere di una linea intransigente su un tema così sensibile per le nuove generazioni di singaporiani — molto più istruite e consapevoli rispetto a quelle precedenti — potrebbe contribuire in modo significativo al consolidamento di questo trend elettorale negativo.

DAZI, COLPITO ANCHE IL SUD-EST ASIATICO: “UE, ITALIA E ASEAN RAFFORZINO LA COOPERAZIONE”

I Paesi del Sud-Est asiatico sono tra quelli più colpiti dai dazi imposti dagli Stati Uniti in quello che Donald Trump ha ribattezzato “Liberation Day”. Tutti e 10 gli Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) sono stati colpiti. Per la precisione, dal 9 aprile verranno imposte tasse aggiuntive sulle importazioni con le seguenti percentuali: 49% per la Cambogia, 48% per il Laos, 46% per il Vietnam, 44% per il Myanmar, 36% per la Thailandia, 32% per l’Indonesia, 24% per la Malesia e per il Brunei, 17% per le Filippine e 10% per Singapore. Molti di questi Paesi sono forti esportatori verso gli Stati Uniti, mentre la regione è da tempo tra i principali fautori del commercio globale, avendo siglato una serie di accordi di libero scambio bilaterali e multilaterali. “Ora questi Paesi del Sud-Est asiatico dovranno guardare con più attenzione agli altri mercati che non siano quello statunitense, la stessa necessità che avranno tanti altri Paesi compresi quelli europei”, sottolinea l’Ambasciatore Michelangelo Pipan, Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN. “Di conseguenza, l’Unione Europea e l’Italia stessa, che godono di diversi accordi di libero scambio con alcuni di questi Paesi, possono e devono attrezzarsi per rafforzare i rapporti commerciali con il Sud-Est asiatico”, prosegue Pipan, sottolineando che “i nostri interessi e quelli dell’ASEAN a tutela del libero commercio e contro il protezionismo coincidono. Ancora di più dopo i nuovi dazi della Casa Bianca”.

Washington ha deciso di colpire i Paesi del Sud-Est asiatico nonostante le concessioni già compiute nei giorni scorsi da alcuni di essi. É il caso del Vietnam, negli ultimi anni ascesa a hub commerciale e tecnologico globale di importanza cruciale, che ha annunciato la riduzione dei dazi e l’impegno a importare più beni statunitensi. “È ancora presto per fare previsioni, ma questa disruption provocata da Trump sembra destinata a favorire la creazione di diverse costellazioni che aumentando la cooperazione fra di loro cercheranno di sopperire a questa chiusura del mercato statunitense”, spiega l’Ambasciatore Pipan. I dati sull’interscambio commerciale tra Italia e ASEAN sono enormemente aumentati nell’ultimo anno, anche grazie all’attività svolta dall’Associazione Italia-ASEAN.

Il futuro dell’innovazione tra Smart Cities e sicurezza digitale

Il Sud-Est asiatico continua a fare passi avanti in materia di intelligenza artificiale, ampliando progressivamente il campo di applicazione

Di Luca Menghini

L’intelligenza artificiale sta rapidamente trasformando il panorama economico e tecnologico del Sud-Est asiatico, rendendo la regione un hub emergente per l’innovazione nel settore. Mentre la generative AI e i modelli di linguaggio di grandi dimensioni (LLM) catturano l’attenzione globale, l’ASEAN sta sviluppando una gamma più ampia di applicazioni di intelligenza artificiale per migliorare supply chain, smart cities, sicurezza informatica e infrastrutture digitali. L’adozione crescente di queste tecnologie pone il Sud-Est asiatico in una posizione strategica per guidare l’integrazione dell’AI nei sistemi economici e sociali della regione.

Negli ultimi anni, governi e aziende dell’ASEAN hanno investito massicciamente nell’intelligenza artificiale per affrontare le sfide del futuro. L’IBM Institute for Business Value ha evidenziato che meno del 30% delle aziende manifatturiere nell’area sfrutta appieno i dati raccolti, mentre solo il 10% di essi viene utilizzato per estrarre informazioni strategiche. Questa sottoutilizzazione rappresenta un’opportunità per l’AI di colmare il gap, ottimizzando le operazioni industriali attraverso la manutenzione predittiva, l’automazione dei processi e l’analisi avanzata dei dati.

Le supply chain nel Sud-Est asiatico stanno già beneficiando dell’integrazione dell’AI in più settori. L’uso di tecnologie di predictive analytics sta aiutando le imprese a ridurre i tempi di inattività e a migliorare l’efficienza operativa. Ad esempio, la blockchain viene sempre più adottata per garantire la trasparenza e la tracciabilità end-to-end delle catene di approvvigionamento, riducendo il rischio di frodi e migliorando la gestione delle risorse.

I leader aziendali stanno affrontando numerose sfide nel settore delle supply chain. La resilienza delle catene di approvvigionamento è diventata una priorità in seguito alle interruzioni causate dalla pandemia di COVID-19 e dalle tensioni geopolitiche. Inoltre, le aziende devono bilanciare l’adozione di pratiche sostenibili con la redditività e superare il divario di competenze tecnologiche per sfruttare al meglio le nuove tecnologie. L’intelligenza artificiale, integrata con l’Internet of Things (IoT), consente una gestione più intelligente della logistica e dell’inventario, migliorando la previsione della domanda e ottimizzando le rotte di distribuzione.

L’AI sta inoltre ridefinendo la gestione delle smart cities in ASEAN. Paesi come Singapore, Thailandia e Vietnam stanno implementando soluzioni basate su AI per migliorare la sicurezza urbana, la gestione del traffico e la sostenibilità ambientale. Singapore, con la sua iniziativa Smart Nation, è un esempio di come l’intelligenza artificiale possa ottimizzare i servizi pubblici e ridurre i consumi energetici. In Indonesia, Jakarta sta utilizzando AI-powered flood monitoring systems per mitigare i danni causati dalle inondazioni, mentre Bangkok ha adottato sistemi di monitoraggio della qualità dell’aria e della mobilità pubblica per affrontare le sfide ambientali.

Un altro settore in forte crescita è quello della sicurezza informatica. L’ASEAN ha recentemente istituito il suo primo team regionale di risposta agli incidenti informatici per affrontare le minacce crescenti legate all’uso dell’intelligenza artificiale nelle cyber-attacks. Secondo il Ministero della Difesa di Singapore, il cybercrimine è aumentato dell’82% tra il 2021 e il 2022, con ransomware e attacchi informatici che hanno colpito governi e istituzioni finanziarie. L’uso di AI per il monitoraggio proattivo delle minacce sta diventando essenziale per mitigare questi rischi, e l’adozione di strumenti di AI-powered fraud detection aiuta le aziende a proteggersi dalle frodi digitali.

L’adozione dell’AI nell’ASEAN si scontra tuttavia con alcune barriere. La mancanza di regolamentazioni armonizzate sulla protezione dei dati e sulla sicurezza informatica rappresenta un ostacolo alla diffusione di sistemi AI su larga scala. Inoltre, il divario di competenze nel settore AI rimane un problema significativo: la carenza di professionisti specializzati in intelligenza artificiale, data science e cyber security impedisce una più rapida implementazione delle nuove tecnologie. Per affrontare questo problema, istituzioni accademiche e aziende stanno investendo nella formazione di nuova forza lavoro specializzata attraverso programmi di upskilling e partnership con università locali.

L’ecosistema delle startup AI nell’ASEAN sta attirando sempre più investimenti, con startup come Social+ in Thailandia e Wiz a Singapore che hanno raccolto decine di milioni di dollari per sviluppare soluzioni AI avanzate in ambito customer engagement e automazione dei processi aziendali. La crescita dell’AI nel Sud-Est asiatico non si limita però solo al settore privato. I governi della regione stanno promuovendo politiche favorevoli all’innovazione, con programmi di finanziamento per startup AI e iniziative per creare un ambiente normativo più chiaro.

Il futuro dell’intelligenza artificiale nell’ASEAN appare promettente. L’integrazione crescente dell’AI nelle infrastrutture urbane, nelle catene di approvvigionamento e nella sicurezza informatica renderà il Sud-Est asiatico sempre più un punto di riferimento per l’innovazione tecnologica globale. La capacità della regione di affrontare le sfide normative e infrastrutturali sarà determinante per consolidare il suo ruolo di leader nell’adozione dell’AI. Con un ecosistema in rapido sviluppo e investimenti in continua crescita, il Sud-Est asiatico è destinato a diventare uno degli attori chiave della rivoluzione dell’intelligenza artificiale nei prossimi anni.

Singapore verso le elezioni

Nel 2025 Singapore celebra il 60° anniversario dell’indipendenza e terrà elezioni generali. Dal 1965 ad oggi, Singapore ha avuto solamente quattro primi ministri e un unico partito al potere. Potranno esserci mai sorprese nell’isola dell’ordine?

Articolo di Pierfrancesco Mattiolo

Il 2024 è stato forse “il più grande anno elettorale della storia dell’umanità”, con circa quattro miliardi di persone chiamate alle urne nel mondo. Per ricordarne solo alcuni Paesi: Unione Europea, Stati Uniti, India, Pakistan, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Bangladesh, Sri Lanka. Nel 2025 sarà il turno, tra gli altri, anche di Singapore. Quasi tutte queste consultazioni hanno generato un certo grado di aspettative e incertezza per il futuro. Quelle di Singapore invece sembrano abbastanza scontate. Da quando è divenuta indipendente dalla Malesia, quasi 60 anni fa, la città-stato ha avuto un solo partito al governo, il Partito d’Azione Popolare (PAP), e soli quattro primi ministri. L’attuale primo ministro, Lawrence Wong, è succeduto lo scorso maggio a Lee Hsien Loong, figlio del “fondatore” della moderna Singapore Lee Kuan Yew. I due Lee, padre e figlio, sono stati rispettivamente il primo e il terzo capo dell’esecutivo singaporiano.

Dopo aver raggiunto i 70 anni d’età, Lee junior ha lasciato l’incarico al suo vice Wong giusto in tempo per permettere a quest’ultimo di consolidare la sua figura in vista delle elezioni del prossimo anno. Non è ancora chiaro quando si voterà. Solitamente, il Parlamento viene sciolto prima della dissoluzione automatica imposta dalla Costituzione e dopo che il Comitato incaricato di ridisegnare i confini dei collegi elettorali si è riunito. Formalmente, è il Presidente della Repubblica a sciogliere il Parlamento, su raccomandazione del Primo Ministro, raccomandazione a sua volta approvata dal Parlamento. In altre parole, il processo elettorale è saldamente in mano al PAP, che controlla il Governo e il Parlamento con una maggioranza di più dei due terzi dei seggi. L’incertezza ricopre sia la data sia i confini dei collegi elettorali. A Singapore i collegi vengono ridisegnati quasi ad ogni elezione; come menzionato, la riunione del Comitato preposto costituisce una tappa informale del percorso verso le urne. Queste incertezze rendono più difficile all’opposizione la pianificazione delle loro attività, dato che i loro candidati non sanno che confini avrà il loro collegio o in che giorni assentarsi da lavoro per fare campagna elettorale. Il PAP invece, grazie al proprio monopolio degli incarichi pubblici, può schierare politici a tempo pieno che arrivano pronti all’inizio della breve campagna elettorale.

Queste difficoltà, unite al sistema elettorale fortemente maggioritario, ha permesso al PAP di mantenere una super maggioranza parlamentare fin dall’indipendenza. Nel 2020, il PAP ha ottenuto 83 seggi su 93 con il 61% dei consensi. I due principali partiti d’opposizione, il Partito dei Lavoratori e il Partito del Progresso pesavano circa il 10% ciascuno. Le prossime elezioni potrebbero fornire all’opposizione la possibilità di erodere il dominio del PAP, affaticato da una serie di scandali e dalla transizione da Lee a Wong. Quest’ultimo sta puntando al rinnovamento generazionale per cambiare l’immagine del Partito, troppo legata al potere e alle élite economiche del Paese. C’è insofferenza anche verso gli stipendi altissimi dei membri del Governo: Wong è infatti il premier più pagato al mondo (2,2 milioni di dollari all’anno, contro il reddito medio singaporiano di 47 mila dollari all’anno). A sentire queste cifre, il dibattito italiano sugli stipendi dei politici assume un peso un po’ diverso. Il PAP si difende spiegando che gli stipendi alti servono per attirare talenti dal settore privato al pubblico, ed effettivamente la pubblica amministrazione singaporiana è considerata tra le più efficienti al mondo

Come abbiamo visto in molti Paesi, la retorica antiestablishment può condurre a risultati elettorali sorprendenti e gli analisti suggeriscono che il PAP non dovrebbe sottovalutare tale rischio. Wong può però fissarsi un calendario elettorale molto favorevole. L’isola festeggia il prossimo 9 agosto i 60 anni di indipendenza, ottenuta dopo essere stata espulsa dalla Federazione malese a causa di profonde divergenze politiche. La festa nazionale è seguita ogni anno, a pochi giorni di distanza, da un National Rally Day, in occasione del quale il Primo Ministro tiene un discorso alla nazione per indicare le sue priorità. Le elezioni si terranno probabilmente verso inizio settembre, quindi subito dopo questo periodo di celebrazioni patriottiche guidate dal Governo. Wong avrà inoltre vari mesi di tempo per adottare provvedimenti popolari e una postura più attenta ai problemi sociali, rispondendo così ai malumori dei ceti meno abbienti.È difficile immaginare delle sorprese per le elezioni del prossimo anno. In questi tempi di sommovimenti elettorali, Singapore potrebbe essere uno dei pochi Paesi a non uscire dalle urne con un assetto politico imprevisto (e imprevedibile). Gli elettori saranno chiamati a scegliere tra la stabilità e la continuità del PAP e il cambiamento promesso dall’opposizione, esclusa da sempre dal potere. Come sarà possibile convincerli? Da un lato, le piccole dimensioni del Paese, con due milioni e mezzo di elettori, potrebbero rendere efficaci iniziative di mobilitazione dal basso. Dall’altro, il PAP conta sul supporto dell’apparato statale e della stampa mainstream. E non esita a marginalizzare voci potenzialmente critiche. Alcuni anni fa, il sito internet indipendente The Online Citizen fu costretto a sospendere temporaneamente le sue attività per presunte irregolarità nella pubblicazione delle sue entrate e nel 2021 è stata adottata una legge contro le “interferenze straniere” duramente criticata da Amnesty International. Secondo il Democracy Index 2023 dell’Economist Intelligence Unit, Singapore rientra (insieme all’Italia) nella lista delle “democrazie imperfette”. In una democrazia “perfetta”, forse, le sorprese elettorali sono frequenti.

L’IA per prevedere e gestire i disastri naturali

Le nuove applicazioni possono perfezionare i sistemi oggi in uso nel Sud-Est asiatico nelle varie fasi della gestione dei disastri naturali, a partire dalle strategie di mitigazione

Di Emanuele Ballestracci

60.000 morti, 150.000 feriti e altrettanti sfollati all’anno. Non si tratta delle atrocità dovute a conflitti internazionali, guerre civili o attacchi terroristici ma delle conseguenze di ricorrenti fenomeni la cui forza distruttrice viene troppo spesso sottovalutata: i disastri naturali. Tra il 1998 e il 2017 i disastri climatici e geofisici hanno causato la morte di oltre 1,3 milioni di persone e 4,4 miliardi feriti, spesso tra le fasce più deboli della popolazione mondiale. Tuttalpiù, il riscaldamento globale non farà altro che aumentare in numero e intensità questi fenomeni, come stiamo già sperimentando negli ultimi anni. Certe regioni ne soffriranno più di altre e il Sud-Est asiatico è tra quelle più a rischio. Il 99% della sua popolazione è già esposta al pericolo di inondazioni e tra il 2004 e il 2014 ha registrato il 50% dei decessi globali dovuti ad eventi climatici estremi. La situazione non potrà che deteriorare a meno di una rivoluzione nell’impegno mondiale alla lotta al riscaldamento globale, che oggi sembra sempre meno probabile.

Un faro di speranza arriva però dalle innovazioni tecnologiche nel campo dell’intelligenza artificiale (IA). Il suo utilizzo la creazione di modelli predittivi permette infatti di analizzare ampie serie di dati, identificare andamenti e così prevedere potenziali disastri. Le sue applicazioni andrebbero così a perfezionare i sistemi oggi in uso nelle varie fasi della gestione dei disastri naturali: la previsione e il rilevamento dei cataclismi; i sistemi di allarme rapido; la valutazione della vulnerabilità e del rischio; la modellazione spaziale; le strategie di mitigazione. Non solo, sono in via di sviluppo nuovi sistemi di rilevazione che beneficeranno in particolar modo le aree meno resilienti del pianeta, come lo “AI-SocialDisaster”. Si tratta di un sistema di supporto alle decisioni per l’identificazione e l’analisi di disastri naturali come terremoti, inondazioni e incendi utilizzando dati tratti i feed dei social media. Così, utilizzando informazioni prodotte in tempo reale da ogni individuo senza dover far affidamento ad avanzate – e costose – strumentazioni di rilevazione, le capacità governative di gestione delle crisi in aree rurali incrementeranno esponenzialmente. Per esempio, l’azienda giapponese Spectee sta sviluppando un sistema di rilevazione dei disastri naturali adattato alle Filippine, utilizzando proprio le informazioni provenienti dai social media. Il ruolo dei privati è in generale fondamentale per il progresso di queste nuove tecnologie. Microsoft Azure può essere utilizzato per migliorare gli allarmi sui terremoti e le rappresentazioni virtuali degli spazi fisici nella risposta ai disastri, mentre Amazon Augmented AI può prestarsi alla costruzione di modelli integrati per il riconoscimento di scene di disastri da immagini di disastri a bassa quota. Cina e Stati Uniti stanno già collaborando con i rispettivi campioni nell’high-tech, come Xiaomi e Google, mentre in Corea del Sud il governo metropolitano di Seoul ha annunciato lo sviluppo di una “piattaforma digitale di risposta ai disastri” in cui l’IA sarà strumentale. Inoltre, Giappone, Singapore e Cina hanno fatto passi da gigante nello sviluppo di sistemi di allarme rapido, sfruttando tecnologie avanzate come i sensori IoT, i modelli IA e i sistemi informativi geografici.

Oltre a multinazionali e governi anche le organizzazioni internazionali e regionali stanno dando il loro contributo. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno adottato il “Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri”, che delinea obiettivi e priorità d’azione per prevenire nuovi rischi di disastri e ridurre quelli esistenti. Invece, tra le organizzazioni regionali l’ASEAN è una delle più attive in materia di disastri naturali, riflesso dell’elevata esposizione a tali fenomeni. Nel 2009 è stato firmato l’Accordo ASEAN sulla gestione dei disastri e la risposta alle emergenze, due anni dopo è stato istituito il Centro AHA per rilanciare il coordinamento regionale e in occasione del 28° vertice ASEAN in Laos nel 2016 venne firmata la Dichiarazione congiunta “Un ASEAN, Una Risposta”. Infine, lo scorso 19 agosto è stata istituita l’Alleanza Civile ASEAN per le contromisure regionali e dal 2022 il tema dell’utilizzo dell’IA è stato sempre più discusso tra i vertici dei Paesi membri, soprattutto in occasione dell’annuale dialogo politico strategico sulla gestione dei disastri naturali. Anche l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (UIT), l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha lanciato un nuovo gruppo di lavoro a tema IA: il Focus Group sull’intelligenza artificiale per la gestione dei disastri naturali (FG-AI4NDM). 

Tuttavia, nonostante il potenziale dell’IA, non mancano certo le problematiche. Prima fra tutte l’incapacità dei modelli IA di fornire “accountability” ed “explainability”. Detto in parole povere, i modelli di intelligenza artificiale funzionano come scatole nere: date determinate previsioni e input, forniscono degli output senza però spiegare la relazioni tra le variabili. Ciò è una seria mancanza quando questi vengono utilizzati per la gestione delle crisi, in cui la massima trasparenza è fondamentale. Tuttavia, se i recenti tentativi di sviluppare modelli di “Intelligenza Artificiale Spiegabile” dovessero riuscire, l’IA diventerebbe senza ombra di dubbio una risorsa ancor più preziosa per controbilanciare gli effetti dei disastri naturali.

Pasti gratuiti nelle scuole: l’ambizioso piano di Prabowo

Fornire pasti gratuiti e nutrienti per gli studenti sarà la priorità per il nuovo Presidente indonesiano, che ha annunciato un programma che può arrivare a 45 miliardi di dollari

Di Anna Affranio

L’Indonesia ha lanciato un’ ambiziosa iniziativa per fornire pasti nutritivi a quasi 83 milioni di persone entro il 2029, concentrandosi inizialmente sui bambini in età scolastica, donne in gravidanza e madri che allattano. Promosso dal nuovo presidente Prabowo Subianto, il programma, che verrà implementato su scala nazionale, è stato un pilastro della sua campagna elettorale, e ha sicuramente contribuito alla sua vittoria nelle elezioni del febbraio 2024, esattamente un anno fa. A differenza del suo predecessore Joko Widodo (Jokowi) che ha dato priorità allo sviluppo delle infrastrutture, Prabowo ha invece spostato l’attenzione del governo sullo sviluppo del capitale umano. Al centro di questo cambiamento dunque, vi è proprio il programma dei pasti gratuiti, progettato per essere il programma distintivo nonché l’eredità politica di Prabowo. L’iniziativa mira ad affrontare due problemi cruciali: combattere la malnutrizione, che colpisce il 21,5% dei bambini indonesiani sotto i cinque anni, e aumentare le entrate degli agricoltori. Integrando quasi 2.000 cooperative e collaborando con produttori locali per la fornitura di uova, verdure, riso, pesce e carne, il programma dovrebbe creare circa 2,5 milioni di posti di lavoro e stimolare la domanda di prodotti locali. Il governo ha promesso di dare priorità alle aree più povere e remote dell’arcipelago, dove la malnutrizione rimane una preoccupazione seria. Si pensi che, secondo l’UNICEF, sotto i 5 anni di età, un bambino su 12 in Indonesia è sottopeso, e uno su 5 è più basso della media. Le cause sono da ritrovarsi nella malnutrizione, che nella maggior parte dei casi non solo ostacola la crescita fisica, ma influisce anche sullo sviluppo cognitivo. Infatti, secondo recenti studi del rapporto PISA, gli studenti indonesiani sono rimasti indietro scolasticamente rispetto ai loro coetanei a livello internazionale.

Il programma di distribuzione di pasti gratuiti è stato ufficialmente lanciato in Indonesia il 6 gennaio 2025, e prevede la fornitura di un pasto gratuito al giorno per gli studenti a partire dall’istruzione prescolare e si estende fino alla scuola superiore. Questi alimenti dovrebbero coprire circa un terzo del fabbisogno calorico giornaliero dei bambini e vengono serviti in contenitori di acciaio riutilizzabili. Per garantire sia il valore nutrizionale che la rilevanza culturale, il contenuto dei pasti varia in base alle regioni e agli ingredienti locali disponibili. Ad esempio, nelle isole Maluku e Papua, dove il riso non è un alimento base né facilmente reperibile, potrebbero essere utilizzate alternative come il sago, un amido estratto dalle palme locali.  Ogni pasto, per essere gratuito per gli alunni, viene sovvenzionato dal governo ed ha un costo di circa 10.000 rupie (circa 60 centesimi di euro) per porzione.

Come è naturale per ogni politica di questa portata, non mancano le critiche. Prima di tutto, i critici avvertono che il costo previsto potrebbe raggiungere i 45 miliardi di dollari nell’arco della durata del piano, cifra che potrebbe mettere a dura prova la stabilità fiscale dell’Indonesia e peggiorare il saldo della bilancia dei pagamenti, considerando la già forte dipendenza del Paese dalle importazioni di alimenti di base come riso, grano, soia, carne bovina e latticini. Altri sostengono che politiche alternative come il miglioramento della qualità dell’alimentazione per i bambini più piccoli sarebbero state una priorità più strategica, poiché l’arresto della crescita si verifica spesso prima che un bambino inizi la scuola. Infine, ci sono evidenti ostacoli logistici comportati dall’implementazione di un progetto così ambizioso in un vasto arcipelago.

Sebbene la fattibilità a lungo termine del programma rimanga incerta, sia dal punto di vista politico che economico, sembra che il programma si sia già rivelato una mossa popolare. Molti genitori accolgono con favore il sollievo finanziario derivante dal non dover sopportare i costi per il pranzo dei figli a scuola. Per il momento, l’iniziativa rappresenta una vittoria politica per Prabowo, a testimonianza del suo impegno per il benessere sociale e della sua risolutezza nel mantenere le promesse elettorali.

Membri attivi di recente
Foto del profilo di Alessio
Foto del profilo di Monika
Foto del profilo di Gabriel
Foto del profilo di Elena
Foto del profilo di Lorenzo
Foto del profilo di Alessandro
Foto del profilo di Cristina
Foto del profilo di Rocco
Foto del profilo di Clara Lomonaco
Foto del profilo di Redazione
Foto del profilo di Davide Gugliuzza
Foto del profilo di Anna Affranio
Foto del profilo di Ilaria Canali
Foto del profilo di Nicolò
Foto del profilo di Angelo Cangero
Chi è Online
Al momento non ci sono utenti online
Membri
  • Foto del profilo di Alessio
    Attivo 1 giorno, 7 ore fa
  • Foto del profilo di Monika
    Attivo 4 giorni, 6 ore fa
  • Foto del profilo di Gabriel
    Attivo 5 giorni, 10 ore fa
  • Foto del profilo di Elena
    Attivo 10 mesi fa
  • Foto del profilo di Lorenzo
    Attivo 1 anno, 11 mesi fa
stats-arrow little-delete trophy-icon block-from-chat weather-refresh-icon popup-left-arrow popup-right-arrow register-icon login-icon three-dots-icon small-pin-icon small-calendar-icon services-manage-icon share-post-icon like-post-icon dropdown-arrow-icon accordion-open-icon comments-post-icon accordion-close-icon play-icon remove-playlist-icon save-playlist-icon share-icon heart-icon magnifying-glass-icon cupcake-icon weather-icon star-icon headphones-icon block-from-chat-icon add-to-conversation-icon speech-balloon-icon add-a-place-icon Chat Messages check-icon plus-icon albums-icon photos-icon day-calendar-icon week-calendar-icon month-calendar-icon checked-calendar-icon multimedia-icon settings-v2-icon close-icon logout-icon settings-icon blog-icon status-icon happy-sticker-icon happy-face-icon computer-icon manage-widgets-icon badge-icon newsfeed-icon camera-icon stats-icon calendar-icon happy-faces-icon thunder-icon menu-icon Groups-Icon User-Icon Read-Icon Unread-Icon Friendships-Requests-Icon Invitations---Send-Invites-Icon Edit-Icon Pin-Icon Project-Icon Account-Icon Addresses-Icon Billing-Details-Icon Checkout-Icon Downloads-Icon Orders-Icon Payment-Methods-Icon Track-Icon Shop-Bag-Icon Sound-Icon 217 bytes - 53.73% saving