La partita (politica) dei semiconduttori diventa gioco di squadra. Almeno da un lato del campo. L’alleanza a quattro voluta dagli USA mira contenere la Cina. Da che lato giocheranno i Paesi ASEAN?
I semiconduttori sono essenziali per la vita e la crescita della società digitale. L’approvvigionamento “sicuro” di questi prodotti rappresenta ormai una priorità – e un grattacapo – per i governi di tutto il mondo. È tuttora in corso una crisi globale delle supply chain del settore – una crisi che si inserisce in un più ampio contesto di “globalizzazione in affanno” – che rende difficile per le altre industrie procacciarsi i componenti necessari. Il problema è reso ancora più complesso dalle sue ricadute politiche. Stati Uniti e Cina infatti gareggiano anche nello sfruttamento dei dati e nello sviluppo di nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Questo porta i due giganti a richiedere un enorme quantità di chip e provare a limitare la presa del rivale sul mercato. Nei mesi scorsi, Washington ha mosso i primi passi verso la formazione di un’alleanza a quattro sui semiconduttori con i suoi partner storici affacciati sul Mar cinese – Giappone, Corea del Sud e Taiwan – per poter sviluppare catene di approvvigionamento “democratiche”, dalla fabbrica al consumatore, senza dover coinvolgere necessariamente la Cina. Pechino guarda con sospetto all’iniziativa americana, temendo di finire “esclusa” dalle value chain più importanti del mondo globalizzato.
La fragilità e l’importanza strategica delle supply chain dei semiconduttori hanno spinto i governi ad attivarsi per mettere in sicurezza la propria sovranità tecnologica. Molti Paesi si sono attivati per rafforzare la produzione di chip nel proprio territorio, in collaborazione con i colossi del settore: solo per menzionare due iniziative, la taiwanese TSMC sta costruendo un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona con il supporto dello Stato e del Governo federale; Intel e il Governo italiano stanno chiudendo le trattative per la creazione di un sito produttivo in Veneto. Ciononostante, la value chain dei semiconduttori non può essere rinchiusa nei confini di un singolo Paese, né riorganizzata così facilmente. Ogni fase della filiera produttiva richiede una forte specializzazione di interi distretti industriali e attrezzature ad altissima tecnologia. Al momento, non sembra possibile fare a meno dei Paesi dell’Asia orientale. Pertanto, i governi cercano anche di rafforzare le proprie partnership internazionali, in modo da rendere più sicuri gli approvvigionamenti e superare certi colli di bottiglia nella produzione. Ciascuna economia del Chip4 è particolarmente forte in uno degli “anelli” della catena e l’alleanza riuscirebbe ad organizzare gli approvvigionamenti tra partner in modo quasi autonomo da attori esterni. Non ci sono solo considerazione economiche dietro l’iniziativa di Washington, però. I quattro Paesi sono democrazie like-minded che guardano con una certa attenzione alla influenza cinese crescente non solo nella regione, ma anche nell’economia digitale e in alcuni suoi settori d’avanguardia. In uno scenario di crescenti tensioni con Pechino, i Paesi Chip4 potrebbero avere interesse a non dipendere dall’industria dei semiconduttori cinese.
Eppure, non è così facile estromettere la Cina dalla value chain, soprattutto per la Corea del Sud. Il 60% dell’export dei chip di Seul infatti va verso il vicino. Partecipare a un’alleanza che potrebbe essere percepita come anticinese esporrebbe i produttori coreani alla rappresaglia commerciale, quindi all’esclusione da un mercato di notevoli dimensioni. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe non essere in grado di rinunciare ai semiconduttori Made in Korea, dato che certe tecnologie avanzate sono sviluppate solo lì o negli Stati Uniti – e Washington ha imposto sanzioni e misure di export control contro le aziende cinesi ancora nel 2020. In altre parole, provare a escludere un Paese dalla supply chain e, più in generale, intervenire nel settore con obiettivi politici comporterà sempre dei pesanti costi e potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi degli approvvigionamenti. La sovranità tecnologica potrebbe rivelarsi un obiettivo irraggiungibile e, appunto, costoso – non ci sono solo i dazi imposti dai governi, ma anche la spesa in sussidi per attirare le aziende private sul proprio territorio – dato che il ritardo anche in una fornitura di secondaria importanza potrebbe paralizzare l’intero settore a livello mondiale.L’iniziativa statunitense potrebbe coinvolgere a un certo punto anche alcuni Paesi ASEAN. L’industria dei semiconduttori si sta sviluppando velocemente nella regione e alcuni Paesi giocano già una parte fondamentale – soprattutto Malesia e Singapore. In alcuni casi, si tratta di partner riconosciuti da Washington anche sul piano politico. Prima o poi, gli USA potrebbero provare a coinvolgerli in iniziative come Chip4. Tutte le principali economie ASEAN hanno un rapporto ambivalente con la Cina: da un lato, partner economico fondamentale; dall’altro, vicino sempre più assertivo. Pertanto, per i loro governi potrebbe porsi lo stesso dilemma affrontato oggi da Seul. In ogni caso, occorre ricordare che l’industria mondiale dei semiconduttori non può prosperare senza un sistema commerciale liberalizzato e schermato, quanto più possibile, dalle tensioni politiche, a causa della fitta rete di interdipendenze tra Paesi. L’acuirsi delle tensioni tra Washington e Pechino in questo campo avrebbe, in ogni caso, effetti profondamente negativi sul settore e ne renderebbe ancora più complicata la crisi.