Entro maggio la Thailandia andrà a elezioni generali, le seconde dopo il colpo di stato del 2014. L’ex generale Prayut cerca un terzo mandato, ma si è separato dal principale partito legato ai militari e dovrà vedersela con i vecchi alleati e il terzo esponente della famiglia Shinawatra, oltre che con i giovani eredi delle proteste del 2020
Articolo di Francesco Mattogno
C’è una data che in Thailandia aspettano un po’ tutti, ma che a conti fatti è solo una formalità: il giorno in cui il primo ministro Prayut Chan-o-cha scioglierà il parlamento. Da quel momento inizierà ufficialmente la campagna elettorale e si andrà a elezioni generali entro 45 giorni. Si tratta di una formalità per due ragioni. La prima è che la campagna elettorale è già iniziata, come dimostrano i comizi per il paese dei candidati premier. La seconda è che il termine naturale della legislatura è previsto per il prossimo 23 marzo.
Che Prayut sciolga anticipatamente le camere o meno, i thailandesi saranno comunque chiamati alle urne entro maggio. Dietro la possibilità di accelerare il processo c’è un mero calcolo politico del primo ministro. Secondo la costituzione, emanata dalla giunta militare nel 2017, in caso di scioglimento anticipato del parlamento i partiti potranno candidare alle elezioni anche gli iscritti con soli 30 giorni di militanza, invece dei 90 giorni minimi che sarebbero normalmente richiesti. Una clausola molto utile proprio a Prayut, che avrebbe così più tempo per reclutare nuovi membri nel partito in cui lui stesso è entrato a gennaio, il Ruam Thai Sang Chart (o United Thai Nation, UTN).
Gli ultimi mesi di Prayut sono stati movimentati. L’ex generale dell’esercito, leader del colpo di stato del 2014, governa (quasi) ininterrottamente da 9 anni. Prima da premier della giunta militare, fino alle elezioni del 2019, e poi come primo ministro eletto dal Palang Pracharat Party (PPRP), il partito dei militari. L’unico periodo lontano dal potere è stato quello della sua sospensione dal 24 agosto al 30 settembre 2022. Ovvero i giorni in cui la Corte costituzionale thailandese ha dovuto decidere se l’ex generale avesse violato o meno limite di 8 anni di mandato consecutivi per un primo ministro. Il limite è previsto da una norma della costituzione del 2017 che però la corte ha stabilito non essere retroattiva, dando la possibilità a Prayut di restare premier teoricamente fino al 2025.
Di fatto, con le elezioni previste per il 2023, in caso di vittoria Prayut potrà servire come capo del governo al massimo per la metà di un naturale mandato di 4 anni. Per questo il PPRP era pronto a scaricarlo e a candidare al suo posto Prawit Wongsuwan: leader del partito, vice primo ministro e uno dei generali dietro il golpe del 2014. È stato Prawit a rivestire il ruolo di primo ministro ad interim durante la sospensione di Prayut e i rapporti tra i due, un tempo molto stretti, sembrano essersi incrinati.
Non volendo rinunciare alla nomina, Prayut è entrato nell’UTN, un altro partito filo-militare, diventandone il candidato premier e portando con sé diversi parlamentari del PPRP. Alle elezioni affronterà proprio Prawit che, a 77 anni, sta cercando nel frattempo di ripulire la propria immagine di grigio e violento generale indossando abiti firmati, dispensando sorrisi e mostrandosi sui social. In un post su Facebook ha dichiarato di aver capito l’importanza di vivere in un sistema democratico, prendendo le distanze dal colpo di stato al quale ha contribuito. C’è però chi ritiene che la spaccatura tra i due generali – d’altronde smentita dai diretti interessati – sia un bluff, e che una coalizione post-elettorale tra i rispettivi partiti sia molto probabile.
Nonostante siano apparentemente divisi, il fatto che i militari possano unire le forze è legato a un vantaggio strutturale. Dal 2017 il parlamento thailandese è formato da una camera bassa composta da 500 deputati, eletti dal popolo, e da un senato di 250 membri nominati dai militari. Il primo ministro viene scelto a maggioranza dai parlamentari, compresi i 250 senatori filo-militari e filo-monarchici, tra quelli proposti dai partiti (ogni partito ne può candidare 3). Realisticamente, l’opposizione avrebbe quindi bisogno di 376 seggi dei 500 della camera per eleggere un proprio esponente a capo del governo.
La partecipazione del senato all’elezione del premier è però temporanea. La norma scadrà nel maggio 2024 e queste dovrebbero essere le ultime elezioni in cui verrà applicata. Nel frattempo, la strada per i partiti di opposizione sembra poter essere solo una: stravincere. Chi ha più chance di farlo è il Pheu Thai Party della famiglia Shinawatra. La candidata del partito è Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’imprenditore miliardario Thaksin e nipote di Yingluck, eletti primi ministri con valanghe di voti rispettivamente nel 2001 e 2011. Sia suo padre che sua zia sono stati poi rimossi da colpi di stato (nel 2006 e 2014) con una serie di accuse a loro carico. Da allora vivono in esilio.
Per molti, dietro alle incriminazioni si nascondevano le paure dell’establishment monarchico-militare per la popolarità dei due premier populisti. Paetongtarn, che ha 36 anni ed è incinta di 7 mesi, oggi promette la fine della povertà e una nuova era di uguaglianza sociale, parlando di raddoppiare il salario minimo e di estendere l’assistenza sanitaria. I sondaggi la danno saldamente in testa, specialmente nel nord-est del paese (roccaforte di famiglia), ma Prayut e l’UTN sembrano in recupero.
Nonostante le “operazioni simpatia”, Prawit risulta invece molto più indietro. Ugualmente in crisi è lo storico Democratic Party, il più antico partito thailandese (monarchico-conservatore), la cui leadership in vista delle elezioni ancora non è chiara. I democratici fanno parte della coalizione di governo insieme al PPRP e al Bhumjaithai (BJT), che si trova però in una condizione opposta rispetto ai due alleati. Guidato dall’attuale ministro della Sanità e vice primo ministro, Anutin Charnvirakul, la popolarità del BJT è in crescita. Negli ultimi mesi ha raccolto decine di parlamentari provenienti da altri partiti, e si prevede che possa diventare una sorpresa alle elezioni grazie al supporto di cui gode nel nord della Thailandia.
C’è poi il Move Forward Party, la cui base di sostegno non è regionale, ma generazionale. Erede di fatto del Future Forward – partito sciolto nel 2020 con una sentenza della Corte costituzionale, poi trasformatosi nell’extraparlamentare Movimento progressista -, il Move Forward raccoglie buona parte dei giovani appartenenti ai movimenti democratici delle proteste del 2020. Il suo leader, Pita Limjaroenrat (42 anni), si dice pronto a collaborare con il Pheu Thai in un eventuale governo di coalizione che estrometta i partiti filo-militari dal potere. L’obiettivo sarebbe poi quello di scrivere una nuova costituzione e tenere un referendum per approvarla entro centro giorni. Difficile capire se è anche quello che vuole il Pheu Thai, che finora non ha mai smentito ufficialmente la possibilità di allearsi invece con il PPRP di Prawit a urne chiuse. Una voce che ha preso piede nelle ultime settimane.
Nel 2019 la vittoria sulla carta del Pheu Thai (con il terzo posto del Future Forward) era stata rovesciata dai meccanismi parlamentari di nomina del primo ministro. Tra squalifiche di partiti e candidati, secondo Asian Network for Free Elections “tutte le fasi del processo elettorale [del 2019] sono state influenzate per garantire un risultato non troppo duro per l’establishment al potere”. Ci si chiede quanto le cose potranno cambiare nel 2023.
Il nuovo sistema elettorale, approvato nel 2021, ha aumentato i seggi da assegnare con il metodo maggioritario (da 350 a 400), lasciandone solo 100 al proporzionale. Una condizione che sfavorisce i piccoli partiti nella fase di redistribuzione dei voti. La commissione elettorale, oltre ad annunciare una collaborazione “anti-disinformazione” con TikTok, ha deciso che non pubblicherà il conteggio dei voti in tempo reale. Così i primi risultati ufficiali arriveranno la notte delle elezioni. “È un metodo incline a essere truccato”, ha dichiarato un ex commissario elettorale. Anche per questo il giorno delle elezioni si dovrebbero mobilitare 100 mila volontari per registrare i voti in maniera autonoma.
Intanto, le regolari sedute parlamentari sono sospese. Nell’ultimo dibattito alla camera l’opposizione ha contestato a Prayut di aver lasciato la Thailandia in uno “stato pietoso” a causa della sua pessima gestione dell’economia (cresciuta solo del 2,6% nel 2022). Il primo ministro è stato poi accusato di corruzione, clientelismo, e di aver usato la legge di lesa maestà e le misure anti-Covid per sopprimere le proteste democratiche del 2020-21. Pesano su di lui anche gli sbandamenti nello schieramento internazionale del paese, ambiguo nei suoi legami col governo della giunta militare in Myanmar e sulla condanna alla guerra della Russia in Ucraina, oltre che sempre più vicino alla Cina.
Considerazioni dalle quali Prayut si è difeso menzionando tutte le buone cose che avrebbe fatto la sua amministrazione, impegnandosi a citare dati e percentuali su progetti infrastrutturali, contagi Covid, welfare. “Devo garantire continuità, rimodellerò il paese in meglio entro due anni” aveva dichiarato a gennaio. Anche questo, al di là delle formalità, significa essere già in campagna elettorale.