Il cinema queer nella regione è vivace e prolifico e interseca la rappresentazione della comunità Lgbtqia+ a tradizioni locali. Tratto dall’ebook “Cinema e politica” di China Files
Articolo di Agnese Ranaldi
“Oggi chiedo al capo villaggio o all’autorità di riconoscermi. Anche se sono lesbica, ho anche un cuore. Amo tutto il popolo khmer. Rivendico i miei diritti di non essere discriminata e questo vale anche per le prossime generazioni”. A parlare è Soth Yun, una delle protagoniste di Two girls against the rain, cortometraggio del 2012 diretto da Sopheak Sao.
Due donne si conoscono sin dai tempi degli Khmer Rossi, negli anni Settanta. Stanno insieme da allora. Molti anni dopo, le ultracinquantenni Soth Yun e Sem Eang raccontano il loro vissuto in una società che ha fatto difficoltà ad accoglierle. Hanno sfidato le convenzioni etero-patriarcali e ogni pregiudizio rispetto alla loro capacità di mantenersi da sole e di sfamare le loro famiglie. Ma raccontano la frustrazione di dover attendere ancora il riconoscimento ufficiale da parte delle autorità del villaggio. La loro storia, raccontata in un corto di 10 minuti e ambientata in Cambogia, parla per tante altre. Il cinema Lgbtqia+ nel Sud-Est asiatico mette in luce le ingiustizie che discendono dal mancato riconoscimento delle coppie queer in tutta la regione.
Dagli anni Cinquanta ad oggi
L’esperienza della comunità Lgbtqia+ è una storia di lotte per la visibilità. Tra regimi autoritari, censure, e stigmi sociali radicati in alcune culture, il cinema ha rappresentato una delle espressioni più efficaci per la battaglia queer nella regione. Dove le parole non bastano, arrivano le immagini. Cinema, documentari, serie, cortometraggi sono diventati lo strumento per mettere in questione la normatività legata al sesso e al genere, a partire dalle prime, timide aperture avvenute nella seconda metà del XX secolo, fino agli ultimi decenni, quando i film hanno iniziato a fare luce sul legame tra la queerness e la storia della regione.
Sono quattro i fattori che spiegano il recente aumento delle pellicole sul tema, secondo Atit Pongpanit e Ben Murtagh. Gli autori dell’articolo Emergent queer identities in 20th century films from Southeast Asia sostengono che negli ultimi anni si sia creato un ambiente in cui le rivendicazioni dal basso delle comunità queer hanno trovato spazio anche nei Paesi più restrittivi. Il diffuso accesso alle tecnologie digitali, la crescita di piattaforme come Youtube e Vimeo, un incremento del discorso pubblico sul tema attraverso festival come “&Proud” Yangon Lgbt Film Festival del Myanmar (non più attivo dal colpo di Stato del 2021), o l’Indonesia Q! Film Festival; e infine una diffusa tendenza a decostruire i discorsi sulla sessualità e i generi normativi in tutta l’Asia, nonostante le resistenze di alcuni governi.
Il caso delle Filippine
Le Filippine, ad esempio, nonostante una cultura politica autoritaria e rigide tradizioni religiose, hanno una lunga storia di film che affrontano queste tematiche, anche perché si innestano bene in una società a cui la fluidità sessuale e di genere non sono estranee. A partire dal film filippino Tubog sa Ginto (“Gold Plated”) diretto da Lino Brocka e considerato uno dei capisaldi del cinema queer in tutto il Sud-est asiatico.
Nelle Filippine “esiste una sorta di sistema in quattro parti, che combina le idee di sesso, espressione di genere e identità”, scrive Griselda Gabriele su Kontinentalist, “babae (donne eterosessuali cisgender), lalaki (uomini eterosessuali cisgender), tomboy (usato indifferentemente per uomini trans, donne mascoline o lesbiche) e bakla (usato indifferentemente per donne trans, uomini effeminati o gay). Il bakla, in particolare, è descritto con vari termini in altri Paesi, come kathoey in Thailandia, waria in Indonesia e mak nyah in Malesia. In alcune lingue, come il malese e il birmano, i pronomi binari non sono affatto predefiniti”.
Quella dei bakla è anche una storia di potere e autodeterminazione. Nella lingua tagalog, parlata nelle filippine, bakla indica la pratica del cross-dressing maschile. “Si tratta di un’identità costruita sulla pratica culturale performativa più che sulla sessualità”, ha detto il regista australiano di origini filippine Vonne Patiag in un articolo apparso sul Guardian. In uno dei suoi cortometraggi, Tomgirl, racconta la vita di un giovane filippino di Western Sydney che riceve un corso intensivo sulla cultura di origine, in occasione del quale suo zio gli rivela di osservare la tradizione bakla.
“Erano rinomati come leader della comunità, visti come i governanti tradizionali che trascendevano la dualità tra uomo e donna”, spiega Patiag, “molti dei primi resoconti dei colonizzatori spagnoli facevano riferimento a entità mistiche che erano ‘più uomo dell’uomo e più donna della donna’. Più tardi ho scoperto che molte persone, in modo problematico, traducono bakla con ‘gay’ in inglese. Essendo un’identità non legata al sesso, la parola non corrisponde direttamente alla nomenclatura occidentale delle identità Lgbtqia+, collocandosi a metà strada tra gay, trans e queer. Quando i filippini si sono trasferiti in Paesi come l’Australia e gli Stati Uniti, i bakla sono stati erroneamente etichettati come parte della cultura gay occidentale e rapidamente sessualizzati”. Patiag spera che, attraverso Tomgirl, si possa far conoscere questa cultura e possa essere d’ispirazione per un’interpretazione dei confini di genere che sia più fluida.
La diasporaUn altro segno della vivace proliferazione di film sul tema nel Sud-Est asiatico, è il Queer East film festival di Londra. Si tratta della rassegna di film provenienti dall’Asia orientale e sudorientale e dalle comunità della sua diaspora. Presenta opere cinematografiche, ma anche arti dal vivo e icone del movimento Lgbtqia+. Per i suoi organizzatori, lo scopo è esplorare “cosa significhi essere queer e asiatici oggi”. “Gli eventi globali degli ultimi anni ci hanno ricordato ancora una volta che una rappresentazione razziale e sessuale equa e autentica è fondamentale per la nostra società – si legge sul sito del Queer Festival. – La ricchezza del patrimonio asiatico e queer costituisce una parte vitale dell’identità di questo Paese”. Attraverso un programma diversificato, il festival mira ad amplificare le voci delle comunità asiatiche e a sfidare le normatività eteropatriarcale. L’obiettivo? Eliminare le etichette e gli stereotipi associati alle rappresentazioni asiatiche queer.