A chiedere l’istituzione della sharia sono solo dei gruppi minoritari, che alle ultime elezioni del 14 febbraio hanno contato molto meno che in passato. Questo è probabilmente dovuto alla fluidità con la quale la fede islamica si è imposta in Indonesia e all’impostazione costituzionale contenuta nella Pancasila – Dall’ebook “Indonesia” pubblicato con China Files
Articolo di Francesco Mattogno
Essere islamici, in Indonesia, è da sempre una scelta strategica. O almeno lo è secondo le teorie di alcuni storici. C’è chi sostiene che l’Islam si sia diffuso nel paese a partire dal tredicesimo secolo come conseguenza dei rapporti commerciali con i mercanti dell’Asia Meridionale e della penisola araba, provenienti in particolare dal Gujarat indiano e dallo Yemen. Altri che abbia contribuito alla sua espansione anche l’ammiraglio cinese musulmano Cheng Ho, approdato a Giava nel quindicesimo secolo. Ma, al di là del proselitismo, buona parte del successo dell’islam in Indonesia potrebbe essere dovuto alla geografia.
Quello indonesiano è un territorio distribuito su 17 mila isole, totalmente circondato dall’acqua, non particolarmente famoso per la qualità dei suoi terreni e dunque costretto al commercio. «Stanchi di pagare i tributi ai grandi e prosperi imperi indù e buddhisti della regione», ha detto a TRT World lo storico Carool Kersten, molti sovrani indonesiani videro come un’opportunità quella di convertirsi all’islam e di «cercare alleati in Africa e Medio Oriente» in un’epoca nella quale i musulmani, dopo la caduta di Costantinopoli nel quindicesimo secolo, controllavano le rotte marittime mondiali.
Non fu la conseguenza di una conquista straniera, né frutto dell’opera di ondate di predicatori. L’Islam in Indonesia si diffuse attraverso un processo fluido, lento, diversificato e probabilmente pacifico. Oggi quasi il 90% degli oltre 275 milioni di indonesiani è musulmano, statistica che rende il paese lo Stato a maggioranza islamica più grande del mondo. Un paese non pienamente laico, ma comunque democratico e tollerante.
Nel preambolo della costituzione è ancora presente la Pancasila, ovvero i cinque principi fondamentali sui quali si fonda lo Stato indonesiano, stipulati nel 1945. Il primo afferma la “fede in un unico Dio”, ed è un concetto volutamente vago. Nelle prime bozze del testo si parlava esplicitamente di introdurre nella costituzione la sharia, cioè la legge islamica, possibilità poi accantonata in favore di una maggiore apertura religiosa. Di fatto, in Indonesia non si può dichiarare di essere atei, ma la costituzione riconosce altre sei grandi religioni (tra cui il cattolicesimo) e le minoranze religiose sono integrate nelle discussioni di interesse nazionale.
La grande maggioranza degli indonesiani, figlia di questa impostazione culturale e costituzionale, è prima di tutto nazionalista e rifiuta le correnti estremiste che disconoscono il concetto di appartenenza allo Stato-nazione indonesiano. Il radicalismo islamico è presente, ma minoritario, e le ultime elezioni del 14 febbraio hanno certificato la marginalità del mondo musulmano in quanto tale all’interno del sistema democratico di Giacarta.
Raramente i gruppi islamici estremisti hanno contato davvero a livello politico, ma nel 2014 e nel 2019 il duplice scontro tra Joko Widodo e Prabowo Subianto si era giocato anche sul piano della polarizzazione religiosa. Se Jokowi poteva contare sul sostegno dell’Islam moderato, nella seconda corsa alla presidenza Prabowo aveva portato dalla sua parte le organizzazioni islamiste che si erano sviluppate a partire dal movimento “212”, nato tra il 2016 e il 2017 durante la campagna elettorale per il posto di governatore di Giacarta tra Anies Baswedan e Basuki Tjahaja Purnama (“Ahok”). Ahok, cristiano di etnia cinese e favorito per la rielezione, venne accusato di blasfemia da Anies, che aizzò i suoi sostenitori più radicali contro di lui e di fatto diede il via al processo che portò il suo avversario alla condanna a due anni di carcere.
Sull’onda di una maggiore rilevanza politica, i gruppi nati dal movimento “212” avevano scelto Prabowo come portavoce della proprie istanze per le presidenziali del 2019. Questo nonostante la storia dell’ex generale e del Gerindra, il suo partito di destra nazionalista, fosse totalmente estranea all’estremismo religioso. Si trattava di reciproco opportunismo politico. Prabowo cercava elettori, gli islamisti un appoggio per entrare nelle istituzioni statali. La vittoria di Jokowi spense le loro speranze.
Dopo il caso Ahok, il presidente indonesiano aveva già sciolto il gruppo radicale Hizbut Tahrir Indonesia, nel 2017, facendo poi lo stesso con il Fronte dei Difensori Islamici (FDI) nel 2020. Durante il secondo mandato di Jokowi l’ascesa delle organizzazioni estremiste ha progressivamente perso slancio, a causa della repressione governativa e del ridotto sostegno popolare, mentre le associazioni moderate hanno finito con il legarsi ancora di più alle istituzioni.
Le due più importanti organizzazioni moderate islamiche non politiche sono il Nahdlatul Ulama (NU) e il Muhammadiyah, alle quali aderiscono decine di milioni di persone. A loro sono connessi vari esponenti della società civile e della classe politica indonesiana, distribuiti abbastanza uniformemente nelle varie forze politiche, non solo in quelle prettamente islamiche, anzi. Fin dalle prime elezioni del 1955 i partiti musulmani non sono mai stati abbastanza forti per governare da soli, e anche i risultati preliminari del voto parlamentare del 14 febbraio hanno confermato la loro secondarietà. Per poter entrare nelle istituzioni, dunque, l’Islam moderato è sempre stato costretto a distribuire il proprio sostegno tra vari leader politici, soprattutto dopo le riforme democratiche del 1998 e la fine dell’era Suharto.
Pur mantenendo una facciata di neutralità, il supporto ai giusti candidati garantisce a NU e Muhammadiyah l’accesso agli incarichi pubblici. Ad esempio, nell’ultimo governo Jokowi il NU ha espresso il vicepresidente Ma’Ruf Amin e quattro ministri, tra cui quello degli Affari religiosi. Di fronte alla sempre minore rilevanza dell’aspetto ideologico, il pragmatismo e l’opportunismo politico hanno portato i due maggiori gruppi islamici moderati indonesiani a sostenere con diversi esponenti di spicco tutti e tre i candidati alle ultime elezioni: il vincitore Prabowo Subianto, Anies Baswedan e Ganjar Pranowo.
Il processo di depolarizzazione ha dunque ridotto il valore di un appoggio politico da parte delle associazioni religiose, rendendo marginale il ruolo dell’Islam nel determinare l’esito delle elezioni del 2024. Per Anies, che visto il precedente con Ahok era ritenuto il candidato più radicale, il supporto pubblico da parte di Abu Bakar Bashir – leader spirituale del Jemaah Islamiyah, il gruppo terroristico affiliato ad Al-Qaeda che ha organizzato gli attentati di Bali del 2002, dove sono morte 202 persone – stava anzi rischiando di minare la sua immagine ripulita di politico moderato.
Più che il fine ultimo, con l’istituzione della sharia, l’Islam in Indonesia conta sempre di più come mezzo per il raggiungimento di obiettivi politici e come strumento di posizionamento, interno e internazionale. Per quanto ormai esteso a quasi tutte le forze politiche, il sostegno di almeno una parte dell’Islam moderato è una condizione di legittimità essenziale per qualunque candidato che punti a governare il paese, ed è per questo che a NU e Muhammadiyah (ultimamente più in difficoltà) vengono riservati ruoli di spicco nell’esecutivo. In politica estera, inoltre, la fede islamica è utilizzata come leva diplomatica per elevare l’Indonesia a uno dei paesi leader del mondo musulmano, e generalmente il governo è più incline a tollerare la mobilitazione islamica della propria società civile quando al centro del discorso pubblico ci sono questioni internazionali.
Il sostegno universale alla Palestina in questi mesi di escalation del conflitto con Israele, sia da parte della classe politica che dell’opinione pubblica, mostra come l’Islam rimanga una componente identitaria molto importante per la gran parte degli indonesiani. Alcuni osservatori ritengono che nei prossimi anni si potrebbe assistere a un ritorno dei gruppi conservatori, che durante il secondo mandato di Jokowi avrebbero solo abbassato i toni in attesa di condizioni politiche più favorevoli. Ma resta un’ipotesi remota. L’Islam indonesiano non è mai stato monolitico e, dopo aver superato una fase di polarizzazione, sembra essere tornato a quello stato fluido e opportunista che gli ha permesso di penetrare nel paese tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo.