India e Cina: rivoluzione (e competizione) solare

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Nuova Delhi e Pechino non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo

Articolo a cura di Marco Dell’Aguzzo

Mukesh Ambani è il decimo uomo più ricco al mondo e primo nella classifica dei miliardari d’Asia. Il suo patrimonio è legato alle fortune di Reliance Industries, il conglomerato indiano famoso soprattutto per la petrolchimica: gas e greggio, quindi. Ma anche Reliance, come quasi tutti i grandi nomi del settore degli idrocarburi, ha sposato la transizione energetica e annunciato di voler arrivare all’azzeramento netto delle sue emissioni di carbonio entro il 2035. Le frasi parlano da sole, non serve aggiungere molto altro: è evidente che dietro ai progetti climatici delle grandi industrie e dei grandi paperoni non ci sia soltanto la volontà di partecipare al “salvataggio della Terra”, ma soprattutto quella di riaffermare la propria presenza economica in un mondo che cambia. E che, nel corso di questo cambiamento, brucerà sempre meno combustibili fossili e utilizzerà sempre più fonti rinnovabili. Siamo noi a dare un abito politico all’energia. Ma nella mente di un imprenditore che pensa a vendere, al netto della profittabilità, un barile di petrolio non è troppo diverso da un pannello solare.

Il 10 ottobre Reliance ha fatto sapere di aver acquistato, dalla compagnia chimica cinese Bluestar, un’azienda norvegese che realizza pannelli solari al prezzo di 771 milioni di dollari. Un paio di giorni dopo, con 28 milioni ha acquisito le tecnologie di una società tedesca che produce wafer (semiconduttori) per le celle fotovoltaiche. Entro tre anni – questi sono i piani – Reliance avrà investito 10,1 miliardi in energie pulite; al 2030 disporrà di una capacità solare di almeno 100 gigawatt, pari all’intero installato rinnovabile dell’India oggi.

Il governo di Nuova Delhi vuole che, per la fine del decennio, le rinnovabili tutte arrivino a 450 GW. Il potenziale solare, in particolare, è alto, ma attualmente da questa fonte si genera solo il 4 per cento dell’elettricità utilizzata sul territorio nazionale. La quota del carbone, di contro, è enorme, superiore al 70 per cento. Non sarà così per sempre, però. A dirlo non è un giovane attivista dei Fridays for Future ma il presidente della compagnia mineraria statale Coal India, quella che in assoluto estrae più carbone al mondo. È un settore che andrà a rimpicciolirsi nel giro di venti-trent’anni, afferma Pramod Agrawal, per fare spazio al solare: Coal India pensa appunto di entrare nel business dei wafer per il fotovoltaico, facendo leva sul fatto che dalle fabbriche indiane escono sì celle e moduli, ma non questi semiconduttori essenziali.

La competizione è appena iniziata. Perché lo scopo di Coal India è anche quello di Reliance, che mira a fare del paese un grande polo manifatturiero di pannelli solari economici ma efficienti, capaci di conquistare la fetta di mercato della Cina (ora la più grande, nettamente): si comincia con una “gigafactory fotovoltaica integrata” da 4 GW all’anno, che diventeranno 10. L’appetito di Ambani è condiviso pure da Gautam Adani, il miliardario presidente del Gruppo Adani, società che si occupa di commercio di carbone ma che passerà ad aggiungere milioni di watt rinnovabili anno dopo anno. Il governo partecipa a questo sforzo industriale alzando barriere all’ingresso di moduli e celle solari dall’estero, con dazi rispettivamente del 40 e del 25 per cento a partire dal prossimo aprile.

La maggior parte degli apparecchi per il fotovoltaico arrivano in India dalla Cina. Che, seppur forte del suo vantaggio, non si limita a guardare le mosse della rivale regionale, ma cerca anche lei di cavalcare la rivoluzione globale della sostenibilità. Il mese scorso il presidente Xi Jinping ha annunciato che nel paese è iniziata la costruzione, in un deserto non meglio definito, di un mega-progetto rinnovabile, la cui prima fase (100 GW) supera l’intera capacità a vento e sole dell’India. Per arrivare però alla neutralità carbonica entro il 2060, come dice di volere, il più grande emettitore di gas serra al mondo dovrà riuscire ad allentare la dipendenza dal carbone. Similmente al caso indiano, il solare può essere un sostituto efficace. Anche perché – secondo uno studio delle università di Tsinghua, Nankai, Renmin e Harvard – al 2023 i prezzi delle due fonti saranno simili in tutto il paese: nelle zone settentrionali e orientali il pareggio verrà raggiunto già nel 2021; mentre nel centro, nel sud e nel nord-ovest nel 2023. Se abbinato a sistemi di stoccaggio, poi, il solare potrebbe consentire di soddisfare oltre il 40 per cento del fabbisogno elettrico del paese entro il 2060, senza compromettere la stabilità della rete e a un costo di nemmeno 2,5 centesimi di dollaro al kilowattora.

Le tariffe dell’energia solare in India sono già molto economiche: nello stato centro-occidentale del Gujarat, ad esempio, sono scese sotto le due rupie al kilowattora (circa 2,6 centesimi di dollaro) e potrebbero dimezzarsi entro il 2030. Per quella data, la società di consulenza Wood Mackenzie stima che lo spicchio del carbone nel mix sarà del 50 per cento e che costruire nuove centrali alimentate con questo combustibile sarà più caro del 25 per cento rispetto agli impianti solari. L’Agenzia internazionale dell’energia dice che nel 2040 – tra soli diciannove anni – le quote di carbone e sole saranno uguali e che la nazione potrà fare affidamento su una nuova capacità di batterie da 140-200 GW.

Tempi stretti ma numeri enormi, come le ambizioni. India e Cina non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo, capaci di generare ed esportare grandi quantità di elettricità pulita ed economica in Asia. Nuova Delhi sta già costruendo infrastrutture di rete con il Bangladesh e il Nepal; nel 2016 Pechino ha istituito la GEIDCO per arrivare fino all’Africa e all’America del sud. Non è detto che questi desideri si realizzeranno; siamo ancora nello spazio del possibile: per affermarsi all’estero, le due potenze vicine dovranno innanzitutto riuscire a soddisfare le necessità interne. Ma l’energia, rinnovabile o fossile che sia, si conferma una questione di potenza geopolitica.

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