Il mare è il luogo naturale della globalizzazione. La maggioranza delle merci si sposta via mare. L’efficienza nel muovere i container, unita a una posizione strategica e ai rapporti economico-politici, fa la fortuna dei porti dell’Asia orientale. Tra i 50 porti più attivi al mondo, nove sono nell’ASEAN e 18 in Cina.
Per chi non sa in quale porto dirigersi, nessun vento va bene. Anche se questa massima di Seneca proviene da una “epistola morale”, potremmo restituire la metafora al suo contesto di partenza – la navigazione – e trarne un nuovo, attuale, insegnamento. Il commercio marittimo globale risponde oggi a logiche in parte diverse da quelle dei tempi del Mare Nostrum romano. Se, da un lato, le condizioni ambientali (vento, correnti, distanza del viaggio in mare) influenzano meno le colossali navi portacontainer, la scelta del porto di approdo rimane essenziale per chi deve disegnare le rotte commerciali. Il mare è ancora la principale via di scambio delle merci: secondo i dati dell’UE, più del 50% del suo commercio esterno si è spostato via nave nel 2021. Un altro dato interessante è che, nella classifica dei primi 50 porti del mondo, 18 sono cinesi (il primo è Shanghai e altri sei porti cinesi occupano la top ten), nove sono nei Paesi ASEAN (il secondo a livello mondiale è Singapore) e sette sono europei.
Non è una sorpresa che i porti asiatici siano così numerosi nella classifica. Il titolo di ‘fabbrica del mondo’ può essere riconosciuto ormai non solo alla Cina, ma a buona parte del continente. Il dragone è affiancato da un sempre più numeroso gruppo di tigri. Secondo l’UNCTAD, nel 2021 i porti asiatici hanno scaricato e caricato, rispettivamente, il 64% e il 42% di tutte le merci mondiali per tonnellata. È interessante osservare che in Asia, così come in Europa (Russia inclusa), le merci scaricate (quindi importate) sono più di quelle caricate. Tale dato va accompagnato a un’altra recente tendenza del commercio via nave. Nel 2015, i paesi in via di sviluppo asiatici esportavano più tonnellate di merci di quante ne importavano, mentre il contrario avveniva nei paesi sviluppati. I dati del 2021 dimostrano che tale rapporto si è invertito. Sempre secondo l’UNCTAD, tale cambiamento può spiegarsi alla luce del fatto che i mercantili traportano sempre più dry cargo (ossia colli ‘secchi’ nei container) al posto di tanker cargo (ossia merci ‘in cisterna’, come prodotti petroliferi raffinati, chimici e gas). Se, negli anni Settanta, più della metà delle stive era occupata da tanker cargo, quindi in buona parte da materie prime e prodotti a bassa elaborazione, oggi tre quarti dei carichi è occupata da dry cargo, una categoria molto più vasta che include, tra le altre cose: minerali, componentistica, macchinari avanzati, prodotti di consumo…
Le economie asiatiche ed europee, dunque, sono affamate di prodotti per il proprio consumo interno e, soprattutto, per trasformarli in altri, più avanzati, beni da rivendere in altri mercati. Nell’ASEAN, Singapore spicca come grande porto mondiale, seguendo un destino già tracciato durante la dominazione coloniale britannica. Nel 1819, Sir Thomas Stamford Raffles acquistò l’isola dal Sultano di Johore per fondare un insediamento e competere, da una posizione strategica, con il vicino porto di Malacca, sotto il controllo neerlandese, per i traffici degli Stretti. Poco dopo l’acquisto, Raffles scrisse: “Singapore è un porto libero, aperto alle navi e ai vascelli di ogni nazione, senza distinzioni”. Raffles è ricordato positivamente nella Città del Leone ed è considerato il fondatore della moderna Singapore più che un colonizzatore. Oltre a determinare la vocazione commerciale della futura città-stato, a lui si deve il primo piano urbanistico e infrastrutturale per aprire l’isola al commercio internazionale. L’intuizione di Raffles e dei britannici, sul cui solco si è mosso anche Lee Kuan Yew, primo leader della Singapore indipendente, e la posizione strategica dell’isola rappresentano le radici del successo di questo porto. Sono però le scelte industriali più recenti ad aver consolidato la sua fortuna: l’infrastruttura portuale continua ad essere ingrandita e modernizzata. Nei prossimi due decenni, proseguiranno i lavori per l’espansione del ‘megaporto’ Tuas, seguendo un progetto in quattro fasi. Solo la prima fase, conclusasi nel 2021, è costata 1.76 miliardi di dollari. Il porto può anche contare su una efficace governance basata sulla collaborazione tra Governo e privati e sulla fitta rete di accordi di libero scambio conclusi da Singapore, tra cui uno con l’UE.
Nella classifica dei 50 principali porti mondiali figurano poi i malesi Port Klang (12° posto) e Tanjung Pelepas (19°), entrambi sullo Stretto di Malacca. Seguono il porto thailandese di Laem Chabang (20°) e quello di Giacarta, Tanjung Priok (23°). In Vietnam, la regione di Ho Chi Minh è servita dal porto della città sulla foce del Mekong (26°) e da quello di Cai Mep (50°), mentre il distretto industriale di Hanoi si appoggia al porto di Hai Phong (33°). La capitale filippina Manila è invece al 31° posto. La principale ragione del successo dei porti dell’ASEAN e del resto dell’Asia orientale è da ricercarsi nell’efficienza con cui le infrastrutture portuali riescono a caricare e scaricare i container dalle navi per trasferirli su un’altra imbarcazione o su un altro mezzo di trasporto, come emerge dal Global Container Port Performance Index (CPPI) curato dalla Banca Mondiale. L’efficienza logistica può rendere un porto un grande hub dei flussi commerciali anche se l’economia del suo ‘entroterra’ ricopre un ruolo relativamente piccolo nell’economia o nella manifattura (si pensi a Singapore) globali. Viceversa, le aziende potrebbero far circolare le proprie merci attraverso i porti di un altro Paese se quelli più vicini geograficamente non sono altrettanto puntuali e affidabili per tempistiche. In conclusione, sembra quasi che “sapere in quale porto dirigersi” sia più importante di avere il “vento a favore”, ossia raggiungere il porto più vicino. Alla luce di questa riflessione, possiamo leggere anche i dati sui porti UE. Nella classifica mondiale, spiccano i tre porti di Rotterdam (10° posto), Anversa (14°) e Amburgo (18°), tutti e tre sul Mare del Nord e collocati su un fiume. Queste tre città rappresentano la principale via di scambio tra la “banana blu” europea e il resto del mondo. Oltre all’efficienza, un fattore che influisce sempre più nella scelta del porto da parte delle aziende è la sostenibilità: ridurre le emissioni prodotte dal trasporto è un passo necessario per raggiungere la neutralità carbonica della catena di approvvigionamento. Anversa, ad esempio, è un “porto sostenibile” riconosciuto a livello internazionale. E nel Mediterraneo? Nella classifica compaiono dei casi interessanti come il Pireo di Atene (28° posto) e le città spagnole di Valencia (30°) e Algeciras (34°). Il Pireo deve la sua importanza agli scambi con l’Asia ed è al centro di una delicata questione politica dato che, nei piani della Cina, dovrebbe diventare il punto di attracco in Europa per la sua Belt and Road Initiative. Algeciras invece, oltre alla posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, può vantare di essere il primo porto europeo per efficienza nella già menzionata classifica CPPI della Banca Mondiale. I porti italiani e francesi sono invece assenti dalla top 50. Nonostante il Mediterraneo sia ancora al centro dei traffici marittimi globali, i porti italiani dovrebbero modernizzare le loro infrastrutture e rafforzarsi sul piano logistico per poter competere con gli altri porti mondiali.