Mentre la tensione tra le due grandi potenze del Pacifico – USA e Cina – aumenta, le catene del valore dell’economia globalizzata sembrano sempre più fragili e i rapporti di interdipendenza economica tra i due rivali più scomodi. Washington ha bisogno dei suoi alleati asiatici per creare supply chain più resilienti e “democratiche”. Ma con quali effetti sulla regione?
Gli osservatori più preoccupati la chiamano già “nuova guerra fredda”. E, in effetti, la guerra commerciale combattuta tra Stati Uniti e Cina si sta ingarbugliando sempre di più. Se le tensioni tra i due Paesi, qualche anno fa, apparivano collegate quasi esclusivamente all’impatto dell’export di Pechino sull’economia americana, la narrazione di questo confronto ha assunto di recente toni più accesi. La competizione non sembra più solo tra due modelli economici, ma tra due modelli politici. Siamo davvero di fronte a una seconda guerra fredda? Anche accettando questa lettura, non la si sta combattendo con le armi della prima. Nel mondo globalizzato, il terreno di scontro per le superpotenze sono le catene di approvvigionamento e di valore globali. L’influenza sui Paesi terzi si esercita con gli investimenti nelle infrastrutture e con lo sviluppo di nuove partnership commerciali. Lo scontro ideologico, in fondo, rimane innanzitutto uno scontro economico, anche se raccontato in modo diverso.
In questi ultimi anni, i consumatori – e i loro governi – si sono accorti di quanto fragili siano le catene di approvvigionamento globali per certi beni. Il caso più emblematico è la crisi dei superconduttori, componenti essenziali per molti settori e asset strategico nell’epoca digitale, la cui produzione avviene in larghissima parte in Asia. La questione è tanto seria da diventare politica. Stati Uniti e Unione Europea non si vogliono limitare a rafforzare le supply chain: intendono affermare la propria sovranità digitale, spostando parte della produzione di chip nel proprio territorio. Mentre Bruxelles mantiene una posizione conciliante con Pechino, Washington è decisa a promuovere catene di approvvigionamento “democratiche”. Nel concreto, dipendere meno dalla Cina e fare più affidamento sui partner che condividono lo stesso modello politico. Per l’amministrazione Biden, una rinnovata “alleanza delle democrazie” è essenziale per realizzare i propri obiettivi di politica estera.
Ma quali sono i partner “democratici” con cui collaborare? A inizio anno, il premier britannico Boris Johnson aveva proposto di trasformare il G7 che stava presiedendo in un D10, un summit delle dieci principali democrazie mondiali, coinvolgendo India, Corea del Sud e Australia – tre paesi dell’Asia-Pacifico. La lista degli invitati era ben più lunga per il Summit for Democracy organizzato dalla Casa Bianca tra l’8 e il 10 dicembre. Questi esercizi presentano sempre lo stesso problema a chi li organizza: non sempre un Paese formalmente libero e democratico lo è anche nella sostanza. La scelta di chi ammettere o meno nel club potrebbe sollevare qualche perplessità. Inoltre, come già ricordato, i Paesi UE cercano di distendere i rapporti con Pechino e vogliono evitare iniziative che potrebbero essere percepite come “alleanze anticinesi”.
Tornando all’esempio dei semiconduttori, Washington intende riorganizzare le proprie catene di approvvigionamento facendo maggiore affidamento sui suoi alleati in Asia orientale. Alcuni già giocano un ruolo importante nel settore – come Corea, Giappone e Taiwan, partner fondamentali per raggiungere gli obiettivi dell’ordine esecutivo del presidente Biden sulle supply chain –, altri sono attori emergenti, come i Paesi ASEAN – gli States intendono investire ingenti risorse per rafforzare la cooperazione con il blocco. La Malesia è un produttore importante di chip ed è stata invitata al summit globale delle democrazie. L’Indonesia è riconosciuta dai suoi partner come una delle più grandi democrazie ed economie al mondo e ha il potenziale per inserirsi maggiormente nelle catene del valore mondiali. Occorre però stare attenti ai rischi della creazione di un “club delle democrazie”. Qualche Paese ASEAN potrebbe non apprezzare il fatto di essere lasciato fuori. È il caso di Singapore, escluso dal summit organizzato a Washington ed entrepôt strategico nel mercato mondiale dei chip.
Gli Stati Uniti vogliono collaborare con i propri alleati per ridurre la dipendenza dai prodotti cinesi non soltanto con riferimento ai semiconduttori. Terre rare, batterie ad alta capacità, forniture mediche e militari. Sono molti i settori che verranno gradualmente influenzati dalla nuova dottrina americana. Un altro terreno di confronto con Pechino sono gli investimenti infrastrutturali nei Paesi terzi. La Belt and Road Initiative è una delle bandiere della politica estera cinese e uno strumento formidabile di influenza. USA e UE hanno proposto le loro alternative, rispettivamente la Build Back Better World (B3W) Initiative e il piano strategico Global Gateway. I due nuovi piani di investimento avranno sicuramente tra i propri beneficiari i Paesi dell’Asia più bisognosi di infrastrutture, la cui mancanza rappresenta uno dei principali colli di bottiglia per il loro sviluppo economico. Per Washington, la presenza cinese nelle reti infrastrutturali va tenuta sotto controllo non solo all’estero, ma anche dentro i propri confini, come abbiamo visto con l’esclusione di Huawei dallo sviluppo della rete 5G.
Riuscirà Washington a riforgiare le catene di approvvigionamento globali con una tempra più resiliente e “democratica”? Senza dubbio la politica degli Stati Uniti favorirà le aziende dei loro partner asiatici, che esporteranno nel mercato statunitense una maggiore quantità di beni sostituendo i loro concorrenti cinesi. Allo stesso tempo, rimane incerto valutare le conseguenze di questa strategia negli altri mercati. Le altre democrazie ridurranno effettivamente la loro dipendenza dalle merci cinesi? Non tutti gli alleati di Washington condividono la linea dura rispetto Pechino – Europa in primis – e per i Paesi asiatici potrebbe essere difficile e dannoso ridurre i propri legami commerciali con il vicino. In questo caso, potrebbero non essere così entusiasti di seguire la leadership americana.