Dopo la crisi dei rifiuti innescata dalla Cina l’attenzione degli esportatori si è spostata sui Paesi del Sud-Est asiatico. Dati e soluzioni.
Tutto (o quasi) è iniziato con la messa al bando dei rifiuti importati dall’estero verso la Cina. Era il 2018, Pechino aveva già raggiunto lo status economico e politico che la rendono oggi una delle nazioni più potenti al mondo. Ed era ora di dire “basta” alla sporca pratica di occuparsi dei rifiuti altrui. Oggi siamo nel 2021, ed il traffico illegale o meno dei rifiuti ha iniziato a spostarsi laddove esistano dei gruppi di potere che lo ritengano ancora un business vantaggioso. L’operazione cinese “National Sword” ha improvvisamente riversato nel resto della regione miliardi di tonnellate di scarti in arrivo da ogni parte del mondo, inceppando un meccanismo attivo da decenni.
La crisi dei rifiuti innescata dalla Cina ha risvegliato negli esperti nuove speranze affinché i Paesi sviluppati iniziassero a ideare forme più virtuose di gestione dei rifiuti, speranze che si sono presto ridimensionate. L’attenzione degli esportatori si è infatti spostata sui Paesi del Sud-Est asiatico, dove ora vengono accumulati o riciclati i rifiuti di Europa, Stati Uniti e Australia che non possono più entrare in Cina. Tra i rifiuti più esportati figurano le plastiche monouso (più o meno adatte al riciclo), ma anche i rifiuti elettronici, pericolosissimi se trattati impropriamente.
• I dati
Questa vicenda viene approfondita in un report pubblicato ad agosto 2021 e redatto gruppo per la salute e la giustizia ambientale EcoWaste Coalition in collaborazione con l’International Pollutants Elimination Network (IPEN). Secondo le ultime stime la regione dell’Asia Pacifico accoglierà fino a 714 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno entro il 2050: un problema imminente, che sta già travolgendo quei paesi dove mancano le strutture adeguate alla gestione dei rifiuti solidi. Il documento sottolinea come la crisi pandemica abbia da un lato contribuito ad aumentare esponenzialmente la quantità di rifiuti in arrivo nei paesi Asean, mentre la crisi economica legata all’emergenza sanitaria ha aggravato la situazione economica dei paesi dipendenti dalle esportazioni, disposti a tutto pur di non aggravare i bilanci.
Insieme all’allarme di EcoWaste Coalition si unisce l’annoso problema della gestione dei rifiuti domestici. In Indonesia, per esempio, solo le grandi città possiedono un sistema di raccolta e gestione dei rifiuti, mentre nelle aree rurali ci si arrangia riutilizzando quello che può tornare utile, mentre gli scarti finiscono per essere depositati in luoghi in appropriati o bruciati in fuochi improvvisati. In alcuni casi i rifiuti diventano il combustibile più utilizzato in cucina. Altre volte, gli elementi chimici presenti nella spazzatura penetrano nella catena alimentare degli abitanti locali attraverso il terreno e le falde acquifere vicini a coltivazioni e falde acquifere.
Secondo quanto rilevato dall’analisi delle politiche ambientali, i dieci paesi asiatici hanno sufficiente leadership per rispondere alla crisi dei rifiuti. Un esempio che ha fatto molto rumore era stato quello delle Filippine nel 2019, quando il presidente Rodrigo Duterte iniziò la sua battaglia (non certo scevra di toni populisti) contro i rifiuti in arrivo dal Canada. Durante lo stesso anno anche l’Indonesia aveva risposto all’invasione di rifiuti esteri “rispedendo indietro” una parte dei 58 container arrivati dagli Usa. La situazione è però molto più complessa: dove Jakarta ha detto “no”, ecco che 38 di quei container sono finiti in Corea del Sud, Thailandia, Vietnam, Messico, Paesi Bassi e Canada.
• Le soluzioni
Tra i tanti compiti dell’ASEAN, quello della gestione dei rifiuti rappresenta una sfida complessa da affrontare. Secondo l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), pubblicato nel 2020, le dieci nazioni del Sud-Est asiatico hanno già una propria strategia nazionale per gestire il problema dei rifiuti. Quello che manca, sottolinea il documento, sarebbe un passaggio concettuale: non più “dove” depositare o eliminare i rifiuti, ma “come” trasformarli in risorse.
L’invito per tutte le nazioni al mondo, ovviamente, rimane quello di ridimensionare il problema alla radice, eliminando dove possibile la plastica monouso e lo spreco. Ma la creazione di una politica comune, una gestione armonica e cooperativa dei rifiuti tra i diversi attori coinvolti potrebbe trasformare i problemi in opportunità.
Questo non dovrà escludere un’azione unitaria sul piano internazionale, punto di forza di qualsiasi unione tra paesi. “L’ASEAN ha bisogno di una dichiarazione unanime che chieda una posizione chiara e concreta sul commercio dei rifiuti. Tra le altre cose dovrà chiedere agli stessi Stati membri di ratificare immediatamente l’emendamento sul divieto alle esportazioni all’interno della Convenzione di Basilea, adottare misure per vietare tutte le importazioni di rifiuti nei loro paesi e migliorare l’implementazione di tali leggi, insieme ad altre che vadano nella direzione rifiuti zero”, ha affermato l’esperto in diritto ambientale Gregorio Rafael P. Bueta in merito al rapporto EcoWaste Coalition/Ipen del 2021.
La Convenzione di Basilea costituisce l’accordo globale più importante sulla gestione dei rifiuti ed è stata firmata da tutti i paesi ASEAN, tranne il Laos. L’emendamento che vieta i movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e di altro tipo del 1994, al contrario, è stato ratificato solo da tre dei Paesi membri. Un segnale che, nonostante le posizioni più determinate dei Governi contro il traffico di rifiuti, siano ancora molto complessi gli interessi in gioco.