Vietnam

Vietnam, quanto è difficile mollare il carbone

Hanoi sta affrontando uno dei periodi più critici per la fornitura di energia elettrica nelle zone colpite dalle ondate di calore. Le fonti fossili tornano a essere la prima scelta in un paese considerato tra i più promettenti per la produzione di energia pulita nel Sud-Est asiatico

In Vietnam non è ancora tempo per dire addio al carbone. Il dato è emerso lo scorso 31 maggio in occasione di un incontro tra società e istituzioni del mondo Esg (Environment, Society, Governance) a Ho Chi Minh City ed è stato riportato da diverse testate asiatiche. Ma il problema esiste da tempo, ed è sintomatico di un processo di sviluppo rapido e disordinato. Da pochi anni il paese è al centro di un significativo processo di conversione alle rinnovabili mai visto prima nel Sud-Est asiatico, ma la corsa all’energia verde non è ancora sufficiente a sostenere una domanda energetica che è raddoppiata in meno di dieci anni.

Come accade oggi per la Cina – stretta tra le promesse di sviluppo sostenibile e un sistema energetico ancora da stabilizzare – anche per Hanoi il problema di equilibrare domanda e offerta energetica è già realtà. E il cambiamento climatico aggiunge un ulteriore difficoltà nella tenuta della rete elettrica e nella gestione dei picchi energetici. A partire da maggio diverse aree industriali nel nord del paese hanno iniziato a registrare una serie di interruzioni della corrente elettrica senza precedenti: “È la prima volta che accade in dieci anni”, racconta a VnExpress un lavoratore della provincia di Bac Ninh. Il manager dell’impianto, che si occupa dell’assemblaggio di alcune componenti telefoniche, ha avvertito i dipendenti che il giorno dopo non sarebbe stato possibile lavorare a causa di un’interruzione della corrente di dodici ore consecutive.

Crisi energetica e transizione

A giustificare la crisi energetica di queste settimane è senz’altro un aumento record delle temperature, fattore che causa a sua volta un picco della domanda energetica legata a impianti di raffreddamento industriali e utilizzo di condizionatori negli edifici. Ma anche il lato dell’offerta manca di continuità. Secondo quanto riferito dal ministero dell’Economia e del Commercio ben undici centrali idroelettriche sono state chiuse a causa della carenza di acqua, mentre sarebbe necessario almeno un milione di tonnellate di carbone per far funzionare le centrali termiche del nord.

Lo scorso 7 giugno il direttore dell’Autorità di regolamentazione dell’elettricità del ministero dell’Industria Tran Viet Hoa aveva parlato di “gravi carenze” nella fornitura energetica, affermando che – importazioni comprese – la disponibilità effettiva era di soli 18 mila megawatt, contro una previsione di domanda energetica capace di toccare punte di 24 mila megawatt. A fine maggio l’output delle dighe era capace di sostenere solo altri quattro giorni di picco energetico, pochi giorni dopo – il 3 giugno – i principali impianti idroelettrici non erano in grado di produrre energia per l’intera giornata. 

La dipendenza dal carbone

La crisi idrica è senz’altro un fattore che rallenta l’avanzamento vietnamita nel mondo dell’energia rinnovabile, e riporta inevitabilmente il paese verso una fonte considerata – almeno in teoria – più sicura e disponibile. Se da un lato il crollo della produzione di energia idroelettrica ha fatto emergere un deficit nello stock di carbone per la produzione di corrente elettrica, dall’altro le fonti fossili non hanno mai lasciato un vuoto nel mix energetico nazionale. Anzi, sono semplicemente aumentate per sopperire al boom economico. Come riferisce l’International Energy Agency (IEA) il Vietnam è uno di quei paesi che, pur essendo uno dei più grandi investitori ASEAN nelle rinnovabili, prevede di raddoppiare la produzione delle centrali termoelettriche a carbone. 

Inoltre, “il problema del Vietnam è che le centrali a carbone sono molto giovani, alcune hanno meno di 10 anni”, ha spiegato a Nikkei Asia Tung Ho, responsabile nazionale della consulenza energetica Allotrope. Tant’è che i legislatori stanno valutando non tanto l’abbandono di questa fonte energetica, bensì la conversione degli impianti a tecnologie che cadono sotto l’ombrello semantico del “carbone pulito (clean coal technologies)”. Tra queste, l’utilizzo dell’ammoniaca come co-combustibile per ridurre le emissioni nocive, una tecnologia ancora molto dibattuta perché non esistono ancora prove certe della sua efficacia.

Quale futuro per la transizione energetica vietnamita?

Il carbone in Vietnam occupa oltre il 50% del mix energetico, superando tutti gli altri paesi del gruppo ASEAN. Il secondo consumatore di carbone nella regione è il Laos, paese chiave per le forniture di questo combustibile ad Hanoi. Mentre le prospettive del Power Development Plan 8 (PDP8) parlano di transizione verde come opportunità per attrarre capitale straniero e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, la leadership vietnamita continua a valutare una serie di ambiziosi progetti infrastrutturali legati al carbone. È il caso di un’autostrada di 160 km che collegherebbe le province laotiane di Sekong e Salavan al distretto vietnamita di Hai Lang.

Lo stesso PDP8 prevede la costruzione di nuove centrali a carbone fino al 2030, anno che dovrebbe segnare l’inizio effettivo di una transizione esclusiva – almeno a livello infrastrutturale – verso gli impianti di produzione energetica sostenibile. Si tratta dunque di scadenze che non prevedono la chiusura delle centrali a carbone, ma del solo divieto a nuovi appalti. Sebbene le previsioni mostrino un graduale calo della produzione legata al carbone (una riduzione del 10% nei prossimi dieci anni), è importante ricordare che le prospettive di produzione totale sono ambiziosamente al rialzo. Secondo il piano di sviluppo, infatti, Hanoi punta a produrre più energia di paesi come Francia e Italia.

I piani del Vietnam dovranno fare i conti anche con le promesse internazionali. Dal 2022 il paese è entrato a far parte della Just Energy Transition Partnership. Lo schema, adottato insieme a partner quali Usa, Giappone, Regno Unito e Unione Europea, prevede di sbloccare oltre 15 miliardi di dollari per sostenere la transizione energetica dei paesi membri. Alla COP26 di Glasgow, inoltre, Hanoi ha dichiarato che smetterà di utilizzare il carbone come fonte energetica entro il 2040. Nel 2022 l’Economist aveva definito il Vietnam come “un punto luminoso in una mappa altrimenti nera come la notte” per il suo rapido sviluppo nel campo dell’energia solare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.

Il versatile sistema politico vietnamita

Hanoi sta crescendo a livello commerciale e diplomatico, ma si trova al centro degli interessi delle potenze globali. Continuare ad approfittarne in modo positivo non sarà semplice, ma il Vietnam vuole continuare il processo che ha tirato fuori dalla povertà milioni di persone dopo la guerra

Quasi due anni prima il XX Congresso del Partito comunista cinese, si è svolto il XIII Congresso del Partito comunista vietnamita. Quasi due anni prima che Xi Jinping ottenesse uno storico terzo mandato da segretario generale, aveva fatto lo stesso Nguyen Phu Trong. In quella sede sono stati nominati i 19 membri del Politburo e soprattutto le quattro cariche cruciali del sistema vietnamita: segretario generale del partito, presidente della Repubblica, primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale (il corpo legislativo unicamerale). Sono le figure su cui si basa il cosiddetto principio dei “quattro pilastri”, che reggono il sistema politico vietnamita.

Eppure, il numero 4 è stato nel recente passato parzialmente eroso. Dopo la morte di Tran Dai Quang avvenuta nel 2018, Trong è stato presidente proprio fino al Congresso del gennaio 2021. In quella sede ha ottenuto una conferma a segretario generale di portata storica. Trong, 76 anni e condizioni di salute da più fonti definite “precarie”, è oggi il leader più longevo del Vietnam dai tempi di Le Duan, successore di Ho Chi Minh, e dal Doi Moi, il programma di riforme e aperture lanciato nel 1986. Accantonato il limite dei due mandati, visto che Trong è segretario generale dal 2011. Segnale che non è stato trovato un accordo sul possibile erede, ma anche completamento di un processo di accentramento di poteri iniziato già all’alba del suo primo mandato, quando la direzione del comitato centrale anticorruzione è passata dal primo ministro al segretario. Trong, in modo simile a Xi Jinping, ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al 12esimo congresso del 2016. Strumento utilizzato da Trong, subito dopo il congresso del 2016, per lanciare la campagna della “fornace ardente”, con la quale ha accresciuto la propria popolarità e si è sbarazzato di alcuni rivali politici.

Il percorso è proseguito anche negli scorsi mesi, quando sono arrivate le dimissioni “guidate” di Nguyen Xuan Phuc, l’ex presidente lambito da un’inchiesta anticorruzione nell’ambito del nuovo impulso alla campagna anticorruzione. Phuc era il grande deluso del XIII Congresso, visto che si aspettava la promozione da premier a segretario del Partito. Al suo posto è stato nominato Vo Van Thuong, che con “solo” 52 anni è il membro più giovane del Politburo. Thuong significa continuità, visto che come Trong il neo presidente si pone su una linea ideologica piuttosto ortodossa, ammantata di una forte retorica anticorruzione ma anche di una spinta verso gli affari. Nato nella provincia meridionale di Vinh Long, interrompe una parentesi nella quale tutti e 4 i pilastri venivano espressi dalle province settentrionali. La sua nomina riporta dunque una sorta di bilanciamento regionale che aveva sempre caratterizzato la politica vietnamita. C’è anche chi vede la nomina di un politico in età ancora relativamente giovane come il primo segnale di una futura successione a Trong, magari al prossimo Congresso del 2026.

Nel frattempo, Hanoi cercherà di continuare ad attrarre investimenti stranieri. Diversi colossi internazionali, a partire da quelli dell’elettronica, stanno scegliendo il Vietnam per posizionarsi in Asia o diversificare le proprie catene di produzione rispetto alla Cina. Fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione Europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Cina e Stati Uniti,che ha portato della rilocalizzazione di linee produttive in un paese meno esposto politicamente e con un costo del lavoro più basso rispetto a quello della Repubblica Popolare. L’economia vietnamita è cresciuta dell’8,02% nel 2022, il ritmo annuale più veloce dal 1997. Si tratta di un dato superiore anche all’ambizioso +6,%-6,5% che era stato fissato dal governo. A stabilirsi in Vietnam non solo linee produttive di bassa qualità, ma anche produzioni di colossi tecnologici e dell’elettronica. Un elenco lunghissimo in cui figurano, tra gli altri, anche diversi fornitori di Apple.

Ma la geopolitica bussa alla porta. Il Vietnam è sempre più al centro delle attenzioni degli Stati Uniti, che stanno cercando di migliorare i rapporti con un attore importante sullo scenario a cui tengono di più, quello dell’Asia-Pacifico. Non a caso ad aprile si è svolta un’importante visita di Antony Blinken ad Hanoi. Non solo. Il 29 marzo, Joe Biden ha avuto un colloquio telefonico con Trong. Mossa non così usuale, visto che di solito il presidente americano parla con l’omologo vietnamita. Interessante anche il tempismo, visto che il colloquio è avvenuto in concomitanza del summit per la democrazia organizzato dalla Casa Bianca. I più maligni hanno sottolineato che un sistema politico non certo democratico possa alla fine andare bene a Biden qualora questo rientri in una sua strategia o calcolo. Come già accade peraltro con l’India. La visita di Blinken è servita a porre le basi per l’elevazione dei rapporti, che dovrebbe avvenire a luglio. Ma il Vietnam non ha intenzione di lasciarsi “arruolare”, da una parte e dell’altra. Per continuare un processo storico che ha portato fuori dalla povertà milioni di persone, dopo le devastazioni della guerra.

Laos e Vietnam puntano sull’energia eolica

I Paesi dell’ASEAN stanno facendo progressi nel loro impegno verso le energie rinnovabili. In questa strategia l’energia eolica sta diventando sempre più importante.

Secondo un rapporto del Southeast Asia Energy Outlook 2022, negli ultimi vent’anni la domanda di energia nel Sud-Est asiatico è aumentata in media del 3% all’anno. Si prevede che questa tendenza continui fino al 2030. Sebbene la pandemia di Covid-19 abbia rallentato lo sviluppo economico della regione, il rapporto prevede che il PIL della regione crescerà in media del 5% all’anno fino al 2030, per poi scendere a una media del 3% fino al 2050. L’energia svolge un ruolo fondamentale in questa crescita economica. Dalla metà degli anni Novanta, la regione ha fatto grande affidamento sulle importazioni di petrolio dal Medio Oriente e dall’Africa. Se le politiche attuali rimarranno invariate, le importazioni di petrolio aumenteranno. Tuttavia, le recenti impennate dei prezzi e la crisi ucraina potrebbero avere un impatto a lungo termine sull’utilizzo del gas naturale nella regione, influenzando la percezione pubblica dell’accessibilità economica e l’atteggiamento dei governi nei confronti degli investimenti in infrastrutture per l’importazione di gas.

In questo contesto, i Paesi dell’ASEAN stanno facendo progressi verso il loro impegno per le energie rinnovabili. Infatti, nel 2020/2021, hanno aggiornato i loro obiettivi NDC e hanno piani per raggiungerli entro anni specifici. Ad esempio, la Thailandia mira a ridurre le emissioni di gas serra del 20-25%, mentre l’Indonesia punta a una riduzione del 29-41% entro il 2030. Altri Paesi hanno fissato i loro obiettivi e attuato strategie per raggiungerli. Durante la COP26, 8 dei 10 Paesi dell’ASEAN hanno annunciato la loro volontà di raggiungere obiettivi netti zero, il primo entro il 2050 e il secondo entro il 2065. Per raggiungere questi obiettivi, i governi dell’ASEAN stanno diversificando le risorse energetiche rinnovabili. Tra queste, l’energia eolica sta diventando sempre più importante.

Prima del COVID-19, si prevedeva che la domanda di elettricità in Vietnam sarebbe aumentata del 10% all’anno. Secondo le previsioni, entro il 2050 la domanda dovrebbe quintuplicare il livello attuale. Pertanto, è essenziale diversificare le tecnologie per le energie rinnovabili e impegnarsi con i partner e i governi locali. Al momento, in Vietnam, il governo sta dando priorità all’energia eolica rispetto a quella solare. Con una linea costiera di oltre 3.000 km, l’energia eolica offshore offre eccellenti opportunità. Il Vietnam ha un potenziale tecnico di 599 GW, superiore a quello di altri Paesi del Sud-Est asiatico. Il governo ha intrapreso azioni tempestive per stimolare la crescita dell’energia eolica, aggiornando i meccanismi di sostegno e introducendo un modello di partnership pubblico-privato. L’impegno del Vietnam per la decarbonizzazione è promettente e l’energia eolica ha un immenso potenziale di crescita. 

Tuttavia, per il momento la capacità di generazione del Vietnam non è in grado di soddisfare il suo fabbisogno energetico e l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050. Vietnam e Thailandia hanno infatti fissato l’obiettivo di raggiungere l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050. Il Laos sta cercando di capitalizzare questa domanda. La crescente domanda di energia rinnovabile nei Paesi limitrofi ha spinto il Laos ad adottare una strategia di investimento nell’energia eolica. Il Laos esporta circa l’80% dell’elettricità verso i vicini Thailandia e Vietnam, contribuendo al 30% del valore delle esportazioni. Inoltre, il Paese sta costruendo infrastrutture di trasmissione per fornire energia anche alla Cambogia. 

Il Laos, un importante esportatore di energia idroelettrica in Asia, sta infatti diversificando il proprio portafoglio energetico con l’ingresso nell’energia eolica per ridurre la propria dipendenza dalle risorse idriche. In questo contesto, il Laos sta compiendo uno sforzo significativo per ridurre la sua dipendenza dall’energia idroelettrica per la produzione di elettricità. Sebbene l’energia idroelettrica rappresenti attualmente il 70% della produzione totale di elettricità del Paese, le preoccupazioni per questa dipendenza hanno spinto il Laos a passare alla produzione di energia eolica. Questo spostamento è dovuto a un paio di ragioni. In primo luogo, la produzione di energia idroelettrica del Laos di solito diminuisce durante la stagione secca. In secondo luogo, il controllo della Cina sui fiumi a monte comporta il rischio di improvvisi cambiamenti nei livelli dell’acqua, che rappresentano una minaccia per l’agricoltura e la pesca. Inoltre, nel 2018 è scoppiata una diga idroelettrica costruita da società sudcoreane e thailandesi nella provincia di Attapeu, nel Laos sudorientale, causando almeno 71 morti e oltre 6.000 senzatetto. Oggi la generazione di energia eolica è diventata un’opzione promettente per il Laos. I parchi eolici sono più efficienti dei pannelli solari, poiché le turbine possono funzionare quasi giorno e notte. 

Il Paese sta attualmente costruendo un parco eolico nella regione montuosa poco popolata del Laos sud-orientale, che dovrebbe entrare in funzione nel 2025. Il progetto coinvolge diverse società, tra cui Mitsubishi Group (Giappone) e BCPG Renewable Energy Company (Bangchak, Thai Energy Group). Fornirà elettricità al Vietnam per un periodo di 25 anni. Il parco eolico Monsoon occuperà un’area estesa di 70000 ettari e comprenderà 133 turbine eoliche, diventando così uno dei più grandi parchi eolici onshore del sud-est asiatico, con una capacità di generazione di 600 megawatt. La politica energetica del Laos è orientata all’esportazione e il Paese ha già pianificato progetti eolici simili.

I colossi tech asiatici puntano sul Vietnam

I giganti delle auto elettriche cinesi guardano al Vietnam come hub produttivo. E anche i fornitori taiwanesi di Apple fanno lo stesso

Di Tommaso Magrini

I produttori cinesi di auto elettriche puntano senza mistero alla leadership globale. E per raggiungere l’obiettivo si stabiliscono sempre di più nel Sud-Est asiatico. Nei giorni scorsi, la casa automobilistica BYD Co. ha fatto sapere che intende espandersi nella produzione e nell’assemblaggio di veicoli elettrici in Vietnam. Il produttore di veicoli elettrici con sede a Xi’an ha intenzione di aprire uno stabilimento in Vietnam per la produzione di parti di automobili, con l’obiettivo di esportare i componenti verso un impianto di assemblaggio previsto nella vicina Thailandia. In una dichiarazione governativa rilasciata dopo un incontro tra il fondatore e presidente di BYD, Wang Chuanfu, e il Vice Primo Ministro Tran Hong Ha, Wang ha affermato di aspettarsi che il Vietnam crei condizioni favorevoli affinché BYD completi le procedure di investimento. L’azienda cinese, che attualmente gestisce una fabbrica per l’assemblaggio di dispositivi e parti elettroniche nella provincia settentrionale vietnamita di Phu Tho, ha anche proposto di formare una catena di fornitura locale. La presenza di BYD rappresenterebbe una sfida diretta a VinFast, un produttore vietnamita di veicoli elettrici che ha iniziato a vendere auto nel 2019 e ha in programma di espandersi negli Stati Uniti e in Europa. L’interesse per il Sud-Est asiatico di BYD va oltre il Vietnam. Lo scorso settembre l’azienda, sostenuta dalla Berkshire Hathaway di Warren Buffett, ha annunciato la costruzione di un impianto di assemblaggio di veicoli elettrici in Thailandia con una capacità annua di 150 mila auto a partire dal 2024. L’azienda ha venduto 210.295 veicoli nel mese di aprile, circa il doppio rispetto all’anno precedente, con un dato leggermente superiore al mese precedente. Sebbene la maggior parte delle vendite provenga dalla Cina continentale, BYD si sta espandendo all’estero: soprattutto in Asia, Europa e America Latina. Le esportazioni rappresentano circa il 6% delle vendite di veicoli elettrici.

Anche i produttori taiwanesi a contratto per colossi americani come Apple guardano con sempre maggiore interesse al Sud-Est asiatico e in particolare al Vietnam. Il produttore di elettronica Quanta Computer, il principale produttore a contratto dei MacBook di Apple, ha siglato questo mese un accordo per costruire il suo primo stabilimento vietnamita nella provincia settentrionale di Nam Dinh. Iniziative come questa, volte a diversificare la produzione dalla Cina, sono in corso da anni per i produttori che hanno assistito all’aumento dei salari. Ulteriore impulso viene dalle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino. Quanta aveva sfruttato la sua base produttiva cinese per una rapida crescita, registrando vendite per oltre 41 miliardi di dollari nel 2022. Ma nel 2022, a causa delle restrizioni anti Covid, non è stata in grado di produrre il suo MacBook Pro principale, ritardando le consegne per più di due mesi e sconvolgendo i piani di Apple. Secondo le stime di TrendForce, nei tre anni fino al 2025 l’azienda dovrebbe aumentare la produzione al di fuori del Paese fino a raggiungere circa il 30% del totale. Nel primo trimestre del 2023, il numero di progetti di IDE taiwanesi in Vietnam è cresciuto dell’87% rispetto all’anno precedente. Il principale assemblatore di iPhone, Foxconn, sta investendo molto nella provincia settentrionale di Bac Giang. L’estate scorsa Foxconn ha comunicato ai media locali l’intenzione di spendere altri 300 milioni di dollari e di assumere 30.000 persone, e a febbraio ha firmato un contratto di affitto di un sito di 45 ettari fino al 2057. Secondo le stime, entro il 2025 circa il 30% della produzione dovrebbe avvenire fuori dalla Cina. Pegatron, che è al secondo posto nella produzione di iPhone, ha fatto grandi investimenti nella città costiera di Haiphong, mentre il numero 4 Wistron intende avviare una fabbrica di personal computer l’anno prossimo.

Gli USA corteggiano il Vietnam, ma Hanoi resta neutrale

La visita di Antony Blinken conferma l’intenzione di Washington di elevare i rapporti bilaterali. Hanoi è disponibile, ma non vuole farsi coinvolgere in logiche di confronto

Di Tommaso Magrini

Gli Stati Uniti sono iperattivi sul Vietnam. Lo dimostra il viaggio ad Hanoi di qualche giorno fa del Segretario di Stato Antony Blinken, ma anche e soprattutto l’intenzione di elevare i rapporti bilaterali. Il Primo Ministro vietnamita Pham Minh Chinh e Blinken hanno espresso il desiderio di approfondire i loro legami. Nella sua prima visita nel Paese del Sud-Est asiatico come alto diplomatico statunitense, Blinken ha incontrato alti funzionari, tra cui il segretario generale vietnamita Nguyen Phu Trong e il primo ministro Pham Minh Chinh. L’argomento principale è stata la possibilità di rafforzare in tutti i settori le relazioni bilaterali. 

“Per il Presidente Biden e per Washington, questa è una delle relazioni più dinamiche e più importanti che abbiamo mai avuto”, ha dichiarato Blinken durante la conferenza stampa che ha concluso i suoi incontri ad Hanoi. “Ha avuto una traiettoria notevole negli ultimi due decenni. La nostra convinzione è che può crescere e crescerà ancora di più”. 

Prima dell’incontro con Blinken, Chinh ha dichiarato che entrambe le parti stanno cercando di elevare i legami “a una nuova altezza”, dopo la telefonata del mese scorso tra il Presidente Joe Biden e il capo del Partito Comunista al governo del Vietnam, Nguyen Phu Trong, una conversazione che, secondo Chinh, ha avuto un “grande successo”.

Secondo gli analisti, l’anniversario diplomatico e la telefonata Biden-Trong potrebbero portare a un incontro tra i due a luglio o ad altri incontri ad alto livello. 

Blinken ha detto ai giornalisti che la sicurezza è una delle componenti chiave delle relazioni tra i due Paesi. Washington e le aziende statunitensi del settore della difesa hanno dichiarato apertamente di voler rafforzare le loro forniture militari al Vietnam – finora in gran parte limitate alle navi della guardia costiera e agli aerei da addestramento – in quanto il Paese cerca di diversificarsi dalla Russia, che attualmente è il suo principale fornitore.

Dalla fine degli anni Novanta, i tentativi di modernizzazione militare hanno visto Hanoi importare dalla Russia altri 36 aerei multiruolo, sei sottomarini, una serie di sistemi missilistici di difesa costiera e quattro fregate. Ma la consegna dell’ultima fregata è stata ritardata in seguito all’annessione della Crimea da parte di Mosca nel 2014, poiché i motori erano stati costruiti in Ucraina, il che ha indotto Hanoi a ripensare, e infine a cancellare, il previsto acquisto di altre due navi da guerra russe.

“L’esercito vietnamita si è reso conto che non possiamo più accedere all’enorme capacità industriale della Russia”, ha dichiarato Nguyen The Phuong, docente di relazioni internazionali presso l’Università di Economia e Finanza di Ho Chi Minh City, al South China Morning Post. “Abbiamo riutilizzato molte armi di origine sovietica per così tanto tempo… È necessario cambiare, dobbiamo trovare nuovi modi per modernizzarci”.

La politica vietnamita non permette basi straniere, truppe straniere o alleanze contro altri Paesi. Hanoi è stata anche scoraggiata dal prezzo relativamente alto delle armi statunitensi e dal timore che le forniture possano essere bloccate dai deputati americani per perplessità sui diritti umani. Sebbene sia improbabile che vengano stipulati accordi diretti con gli Stati Uniti nel breve termine, qualsiasi miglioramento ufficiale delle relazioni faciliterà il commercio con gli alleati occidentali, compreso l’acquisto di armi americane di seconda mano dalla Corea del Sud.

Attenzione anche al significato dell’elevazione dei rapporti, che sarebbe certo rilevante ma non significherebbe che il Vietnam è pronto a farsi “arruolare” in logiche di confronto.

 

Italia-Vietnam, 50 anni di relazioni

Roma e Hanoi hanno festeggiato il cinquantesimo anniversario dei rapporti diplomatici, mentre si prepara un avvicendamento in Ambasciata

Il 23 marzo 2023 si è celebrato il 50esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Vietnam. Come comunica l’Ambasciata italiana, ad Hanoi si è svolto un ricevimento in Residenza, alla presenza della Vice Ministro degli Esteri Le Thi Thu Hang e di rappresentanti delle autorità vietnamite e della comunità italiana e internazionale. Ad Ho Chi Minh City si è svolta invece una cerimonia organizzata dalle autorità municipali presso il Teatro dell’Opera e a cui è intervenuto il Presidente del Comitato del Popolo Phan Van Mai. Ma il programma degli eventi è ben più ampio e si snoda sia in Italia sia in Vietnam. “Sono anche i dieci anni del partenariato strategico che l’Italia ha stipulato con il Vietnam nel 2013 e grazie al quale i rapporti tra i nostri due Paesi si sono estesi ai settori del commercio, degli investimenti ma anche della cultura, del turismo e della scienza”, ha sottolineato l’Ambasciatore Antonio Alessandro intervendo a “Casa Italia” sulla Rai. Alessandro ha precisato che il volume d’affari tra i due Paesi ha raggiunto i 6,2 miliardi di euro nel 2022 e che oggi i settori trainanti sono ovviamente quelli legati alla tecnologia e all’industria creativa. L’Italia conta circa 150 aziende attive in Vietnam. Tra le iniziative più interessanti, sono stati ricordati: la Giornata del Design, quest’anno dedicata all’illuminazione urbana, e un evento dedicato all’industria manifatturiera; per le arti sceniche, invece, c’è l’annuale Festival del Cinema mentre in programma per la musica classica c’è la Cavalleria Rusticana che sarà messa in scena al Teatro dell’Opera di Hanoi. Il Vietnam è ormai un Paese diverso dalle immagini giunte fino a noi nei libri”, ha spiegato Alessandro ricordando che il Vietnam è passato dall’essere uno dei Paesi più poveri al mondo, come lo era negli anni ’70, ad un Paese a medio reddito che ambisce ad essere ad alto reddito. “Oggi è un Paese vibrante: ha 100 milioni di abitanti, giovane e aperto verso il resto del mondo”, ha aggiunto l’Ambasciatore rilevando come il Paese in questione si trovi al centro di un’area, il Sud-Est asiatico, anch’essa luogo di espansione socio-economica. La scorsa settimana, tra l’altro, il Consiglio dei Ministri ha nominato un nuovo Ambasciatore che prenderà il posto di Alessandro al termine del suo incarico. Si tratta di Marco della Seta, ex Ambasciatore a Seoul.

Vo Van Thuong, chi è il nuovo Presidente del Vietnam

Vicino al Segretario Trong e membro più giovane del Politburo, la sua parabola politica si inserisce nel più ampio rimpasto politico degli ultimi tempi

“Sono carne e sangue con il mio popolo / lo stesso sudore, la stessa goccia di sangue bollente”. È citando il più noto poeta vietnamita del XX secolo che Vo Van Thuong assume ufficialmente la carica di presidente della Repubblica socialista del Vietnam il 2 marzo 2023. Dopo le inaspettate dimissioni di Nguyen Xuan Phuc (le prime nella storia della Repubblica socialista) lo scorso 17 gennaio, l’élite politica sembra pronta a lasciarsi alle spalle un periodo di scandali e arresti. 

Prima di Phuc, sempre a gennaio, anche i due vice ministri Pham Binh Minh e Vu Duc Dam hanno consegnato le proprie dimissioni. Per tutto il corso del 2022 la campagna anticorruzione del Partito comunista vietnamita (PCV) si è intrecciata con lo scandalo delle tangenti per i rimpatri durante la pandemia e quello della truffa intorno ai test per il Covid-19.  A voler segnalare la necessità di ripulire l’immagine della leadership politica rientra anche la tempestività nell’eleggere un nuovo presidente senza attendere l’Assemblea nazionale di maggio. Il nuovo presidente si chiama Vo Van Thuong e la sua elezione è stata approvata con un voto del 98,8%.

Chi è Vo Van Thuong

Vo Van Thuong è originario della provincia meridionale di Vinh Long. È nato nel 1970 ed è il membro più giovane dell’attuale Politburo. Non è un caso che il PCV e l’Assemblea nazionale abbiano scelto un sudvietnamita per ricoprire la carica di presidente. Tradizionalmente i “quattro pilastri” della politica vietnamita – ovvero il segretario generale PCV, il capo di stato, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale – rappresentano equamente i due poli del paese. Dal 2021, però, nessun vietnamita aveva ancora assunto una delle quattro cariche principali. Nel caso di Thuong è però importante ricordare che la famiglia si era trasferita nel Vietnam del nord e vi rimase fino alla fine della guerra.

Diversamente dal suo predecessore, laureato in Economia, Thuong si è laureato in Filosofia marxista-leninista presso l’Università di Ho Chi Minh. Ma come Phuc ha presto scalato le gerarchie di Partito dopo anni di militanza attiva nel mondo dell’associazionismo giovanile che ruota intorno al PCV. È entrato nel Partito nel 1993, a 23 anni, ed è stato eletto membro del Politburo durante il 12° Congresso, nel 2016. Gli analisti lo identificano come un fedelissimo dell’attuale Segretario Nguyen Phu Trong, che al 13° Congresso gli ha affidato la Segreteria esecutiva del PVC. Con questo curriculum Thuong era da tempo considerato uno dei possibili eredi di Trong e oggi si conferma una scelta rassicurante in tempi agitati. Non solo: l’economia vietnamita sta vivendo uno dei periodi più floridi degli ultimi anni e la fiducia non è più solo una questione di politica interna.

Cosa significa l’elezione di Thuong per l’economia vietnamita

Oggi il Vietnam è uno dei paesi più promettenti dal punto di vista economico: la crescita del Pil ha superato l’8% nel corso del 2022 e il Fondo monetario internazionale (Fmi) vede la continuazione di questa parabola ascendente con un saldo +6,2% per il 2023 (rispetto ai dati dell’Istituto nazionale di statistica – citati sopra – il Fmi aveva stimato la crescita del 2022 al +7%). Dopo la riconferma di Trong alla dirigenza del Partito, inoltre, sembrano consolidati quelli che la leadership interpreta come segnali di stabilità nei confronti dei cittadini e degli investitori esteri. 

Coerentemente con quello che sembra un percorso prettamente politico avviato con il 13° Congresso (2021), nel suo discorso inaugurale Thuong ha preferito dare spazio alla lotta alla corruzione e alla costruzione di “un apparato statale pulito [dalla corruzione, ndr.] e forte”. Ha poi citato gli obiettivi di sviluppo interno quali il raggiungimento del reddito medio entro il 2030 e il coronamento della costruzione di un paese socialista ad alto reddito entro il centenario della fondazione della repubblica, il 2045.

Il moloch burocratico vietnamita rimane un ostacolo all’innovazione ma, sottolineano gli analisti, i recenti sommovimenti anche ai piani più alti dell’élite politica di Hanoi potrebbero influire positivamente sull’attrattività economica del paese. Come evidenzia Le Hong Hiep, senior fellow di ISEAS – Yusof Ishak Institute, il repentino passaggio di consegne degli ultimi due anni sarebbe da interpretare come un’accelerazione nella transizione politica del paese. Il terzo (eccezionale) mandato di Trong sarebbe, quindi, funzionale alla costruzione di una discendenza solida e rassicurante. Sebbene sia ancora da mettere alla prova la competenza dei funzionari prescelti.

Per il Vietnam si sta aprendo un periodo di opportunità, sostenute da spinte interne ed esterne a Hanoi: l’allontanamento delle catene globali del valore dalla Cina, gli incentivi governativi in materia di sviluppo high-tech e l’apertura agli investimenti per la costruzione di un apparato energetico resiliente. Ma il Partito dovrà saper bilanciare l’entusiasmo degli investitori con le problematiche strutturali del paese, dalle infrastrutture alla burocrazia. Per fare questo non basterà un uomo (o meglio, non ne basteranno quattro) alla guida della nazione. Intanto, la presidenza potrebbe essere solo una prima piattaforma di lancio per Thuong che – come sostiene una dichiarazione rilasciata da un diplomatico di Hanoi all’agenzia stampa Reuters – potrebbe poi diventare il successore di Trong alla dirigenza del Partito e quindi passare al ruolo più importante nella gerarchia politica.




Lego punta sul Vietnam come nuovo hub di produzione a emissioni zero

La Lego ha scelto il Vietnam per la costruzione della sua prima fabbrica a emissioni zero. Nel tentativo di minimizzare l’impatto della competizione commerciale tra Cina e Stati Uniti, diverse multinazionali stanno puntando a diversificare le catene di approvvigionamento prendendo le distanze da quella che per decenni è stata considerata la fabbrica del mondo.

Lego, prima produttrice di giocattoli al mondo per fatturato, ha dato avvio alla costruzione di un nuovo impianto nella provincia vietnamita di Binh Duong, circa 50 chilometri a nord di Ho Chi Minh. Sarà la sesta base produttiva dell’azienda danese e la seconda in Asia, dopo quella di Jiaxing in Cina, attiva dal 2015.

Lo stabilimento, la cui apertura è prevista per l’anno prossimo, avrà un’estensione di 44 ettari, sarà alimentato principalmente da energia solare e potrà contare su tecnologie all’avanguardia per la produzione degli iconici mattoncini in plastica. La decisione comporterà la creazione di 4.000 posti di lavoro nei prossimi 15 anni, nonché l’iniezione di oltre un miliardo di dollari di investimenti nella zona, che già ospita i più grandi complessi industriali e vanta il titolo di regione più ricca del Paese. Si tratta del più grande investimento da parte di un’azienda danese in Vietnam.

La vicenda riflette una tendenza più ampia che negli ultimi cinque anni ha visto il Vietnam spiccare tra le destinazioni preferite dagli investitori stranieri in fuga dall’ex fabbrica del mondo, nel tentativo di eludere i dazi statunitensi sulle merci importate dalla Cina.

Anche su spinta della corsa alla delocalizzazione innescata dallo scoppio della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, le autorità vietnamite hanno elaborato un piano per attirare proattivamente gli investimenti stranieri, dando priorità ai progetti ad alto valore aggiunto e promotori di tecnologie avanzate e pulite. 

Secondo Bruno Jaspaert, amministratore delegato di Deep C Industrial Zones, uno dei maggiori sviluppatori di zone industriali del Vietnam, concentrando i propri sforzi sui temi pressanti per gli investitori internazionali, come la sostenibilità così come declinata dagli obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite, il Paese “potrebbe avere la ricetta per il successo”.

Con l’emanazione della Risoluzione 50 nel 2019, il Partito Comunista del Vietnam ha rimarcato la centralità del ruolo che gli attori economici stranieri e gli investimenti esteri giocano nel perseguimento di una strategia di sviluppo di lungo periodo, sottolineando la necessità di attrarre tecnologie verdi e hi-tech che aggiungano al processo produttivo.

In effetti, già nel 2018 gli IDE erano aumentati del 9,1% rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 19,1 miliardi di dollari, e registrando successivamente un ulteriore aumento del 6,7% a 20,38 miliardi di dollari nel 2019. Dopo una prima fase di stallo nel 2020 a causa dello scoppio della pandemia, sono tornati a crescere significativamente nel 2021, anche sulla scia delle massicce chiusure degli impianti industriali causate dalla strategia “zero Covid” portata avanti da Pechino, fino a raggiungere i 38,85 miliardi.

Lo stesso Carsten Rasmussen, direttore operativo di Lego, ha dichiarato a dicembre 2021 che l’impegno del governo vietnamita per espandere le infrastrutture per la produzione di energia rinnovabile e l’approccio collaborativo con le aziende straniere hanno contribuito alla decisione del Gruppo di aprire una nuova base produttiva nel paese.

Tuttavia, secondo gli esperti esistono dei fattori strutturali che rendono pressoché impossibile che queste nuove attraenti destinazioni per gli investitori stranieri, come il Vietnam e la più ampia regione del Sud-Est asiatico, si trasformino in vere alternative al completo ecosistema di produzione cinese e mettano realmente in discussione lo status di Pechino come hub manifatturiero globale, nel breve periodo.

Zhang Monan, vicedirettore dell’Istituto di Studi Americani ed Europei presso il Centro Cinese per gli Scambi Economici Internazionali di Pechino, ha affermato che la mancanza di un sistema industriale completo e di un grande mercato interno rappresenta un importante svantaggio per il Vietnam. Finchè i semilavorati continueranno ad essere forniti principalmente dalla Cina e i prodotti finiti esportati principalmente negli Stati Uniti, lo sviluppo industriale del paese non potrà mai emanciparsi dalla sua dipendenza esterna.

Inoltre, il Vietnam soffre ancora la carenza di manodopera qualificata, oltre che l’enorme disparità di scala demografica se paragonata all’enorme vicino. Secondo i dati ufficiali vietnamiti, solo l’11% dei 51,4 milioni di lavoratori del Paese è considerato altamente qualificato, contro gli oltre 200 milioni dichiarati dalle autorità cinesi (circa il 26% della forza lavoro totale).”Con il 7% della popolazione cinese, [il Vietnam] non sarà in grado di spostare più di una piccola frazione delle esportazioni cinesi”, ha dichiarato David Dapice, economista senior dei programmi Vietnam e Myanmar presso l’Ash Centre for Democratic Governance and Innovation dell’Università di Harvard.

La corsa di Hanoi alle rinnovabili è (anche) una strategia di sviluppo economico

Oggi il Vietnam non è solo una delle economie più promettenti del blocco ASEAN, ma offre uno sguardo sulle opportunità di sviluppo grazie alle rinnovabili. Una panoramica di cosa significa l’allontanamento dalle fossili per Hanoi

Transizione energetica cercasi: a dicembre 2022 il Vietnam ha finalizzato una Just Energy Transition Partnership (JETP) con l’International Partners Group (IPG) composto da Unione Europea, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Italia, Canada, Danimarca e Norvegia. Si tratta di un programma di finanziamenti dedicato ai paesi in via di sviluppo per facilitarne la crescita sostenibile in campo energetico, che nel caso di Hanoi prevede 15,5 miliardi di dollari per ridurre la dipendenza del paese dalle fonti fossili. Con la firma della JETP, per usare le parole del presidente statunitense Joe Biden, “il Vietnam ha dimostrato di essere un paese leader nel tracciare un’ambiziosa transizione energetica pulita che contribuirà alla sicurezza energetica nel lungo termine”.

Con un comparto idroelettrico che già copriva il 40% del mix energetico nel 2013 e una capacità di produzione energetica dal fotovoltaico aumentata di 25 volte in un anno, oggi il Vietnam è già uno dei paesi più promettenti della regione nel campo delle energie rinnovabili. Dal 2010 Hanoi ha iniziato a formulare il suo primo piano per lo sviluppo di nuove infrastrutture energetiche “pulite”, una roadmap che ha fornito le basi per la più ambiziosa Strategia nazionale per lo sviluppo energetico rinnovabile 2016-2030. Il piano punta, inoltre, alla riduzione delle fonti fossili del 25% entro il 2030 e del 45% entro il 2050.

Più crescita, più domanda

A trainare le ambizioni energetiche del Vietnam è la rapida crescita economica, una delle più promettenti nell’area. Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio di statistica nazionale il 2022 è stato l’anno dei record, con un aumento del Pil pari all’8,02%, il più alto dal 1997 – anno della crisi finanziaria asiatica. Il cambio di passo economico sottintende un’evoluzione significativa del mercato domestico, accompagnato da importanti investimenti nei compartimenti produttivi che contribuiscono a fare del Vietnam un importante hub manifatturiero.

L’Agenzia per gli investimenti diretti esteri (IDE) del ministero degli Esteri vietnamita prevede tra i 36 e i 38 miliardi di dollari di IDE entro la fine del 2023, buona parte dei quali indirizzati verso progetti high tech e sostenibilità. Ciò non arriva senza la collaborazione di Hanoi, che dagli anni delle prime riforme di mercato ha cercato di attirare più capitali e talenti stranieri in settori ancora poco esplorati e sviluppati. A rafforzare questa visione, anche la ratificazione dell’accordo sulla protezione degli investimenti nel quadro dello EU-Vietnam Free Trade Agreement (EVFTA) del 2020 e l’entrata in vigore della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) del 2022. Nel frattempo, l’aumento della qualità della vita sta accelerando anche la domanda energetica dei cittadini vietnamiti, che insieme alla spinta industriale continuerà a crescere del 10% su base annuale fino al 2030.

Boom solare

Il governo vietnamita ha avanzato diverse strategie per incentivare aziende e cittadini a scegliere la via delle fonti energetiche “pulite”. Il cambio di passo nella produzione di energia solare, per esempio, è stato ottenuto attraverso un generoso tasso di vendita per l’energia immessa nella rete dai pannelli installati sulla propria abitazione: circa 0,09 euro per Kilowattora, poi fissato a 0,08 fino al 2030. Diverso il discorso per impianti finalizzati alla produzione e alla vendita totale dell’energia prodotta, dove la cosiddetta feed-in-tariff (FiT) è inferiore ma comunque più conveniente rispetto a quella dedicata alle centrali a carbone e idroelettriche. 

I risultati non si sono fatti attendere: lo schema ha portato il Vietnam in cima alla classifica dei Paesi ASEAN che investono nel fotovoltaico, raggiungendo una capacità produttiva di 17,6 Gigawatt. Non ancora ai livelli dei 92 Gigawatt prodotti dagli impianti statunitensi, ma che segnala la velocità con cui il processo di transizione energetica vietnamita sta recuperando sui partner occidentali. Un percorso iniziato solo nel 2014 con la prima centrale a energia solare nella provincia di Ninh Thuan.

Dal 2018 sono iniziate anche nuove forme di sperimentazione per portare i parchi eolici laddove non mancano i terreni. Il fotovoltaico galleggiante, per esempio, è oggi visto come un’opzione interessante per sfruttare il potenziale delle dighe vietnamite: ce ne sono oltre 7 mila di varie dimensioni e potenza in tutto il paese, e ciascuna di loro può ospitare dei pannelli galleggianti facilmente agganciabili alla rete preesistente. 

I primi passi con l’eolico

Tra tutte le tecnologie rinnovabili adottate da Hanoi, l’eolico rimane uno dei settori meno esplorati. Secondo gli esperti del Global Wind Energy Council il Vietnam è uno dei paesi con il più alto potenziale eolico del Sud-Est asiatico e, con una corretta pianificazione, potrebbe presto passare dagli attuali 3,5 Gigawatt a oltre 30 Gigawatt di elettricità prodotta. 

Tra le aree strategiche rientrano le coste, dove è possibile tentare la strada dell’eolico galleggiante. Ma anche nelle province settentrionali e nel centro sono in costruzione alcune delle centrali più grandi della regione. Tra queste, per esempio, la centrale eolica galleggiante nella provincia di Bac Lieu, la prima del suo genere costruita nel delta del Mekong.

Le sfide della transizione

Come accade per altri paesi dell’area, la crescita economica non basta per dare inizio a una transizione energetica efficace e coerente. Le proposte di nuovi progetti continuano ad aumentare, ma manca una solida rete elettrica capace di sostenere eventuali picchi della domanda e dell’offerta. Gli investimenti sono ancora insufficienti: per Vietnam Electricity (VE), la maggiore azienda energetica del paese, i capitali investiti nel settore dovrebbero toccare i 150 miliardi per raggiungere i target fissati dalla leadership vietnamita. Sempre VE detiene ancora il monopolio del mercato energetico, e solo dal 2022 è stato avviato un progetto-pilota biennale per testare dei contratti di vendita e acquisto di energia elettrica direttamente dai produttori delle centrali. L’obiettivo? Snellire le procedure e incentivare gli investitori con la prospettiva di agire più liberamente sul mercato.

Alle sfide amministrative e finanziarie si aggiungono quelle strutturali, che vanno dal dilemma dello stoccaggio dell’energia prodotta dalle rinnovabili all’impatto ambientale dei nuovi progetti. Se gli impianti galleggianti offrono un’alternativa all’occupazione di terreni da destinare ad altri scopi, dall’altro lato ostacolano l’accesso alle risorse idriche e ittiche da parte della popolazione locale. Così come in passato non si è prestata troppa attenzione ai danni ambientali causati dall’eccessiva costruzione di dighe e centrali idroelettriche, ora diventa problematico testare le criticità degli investimenti nei nuovi parchi solari o eolici laddove potrebbero impattare gravemente sull’ecosistema.

Non meno importante rischia di risultare il debito – finanziario o “politico” – contratto con i Paesi che investono in Vietnam. Gli incentivi per investire nelle rinnovabili sono solo una delle numerose strategie adottate da Hanoi per aumentare l’ingresso di capitali stranieri nel paese e spingere la crescita economica alleggerendo il debito pubblico. Una scommessa necessaria e con diverse ricadute positive sull’economia, ma con un futuro ancora incerto. Tra le perplessità dei partner europei durante la firma dell’accordo di libero scambio rimane la situazione dei diritti umani in Vietnam – elemento che potrebbe rivoltarsi contro Hanoi come accaduto con il congelamento dell’accordo sugli investimenti tra UE e Cina. Il Memorandum of understanding con gli Usa, invece, promette importanti aiuti per la transizione energetica vietnamita, ma allo stesso tempo vincola il Paese alle importazioni di gas liquefatto naturale. Cina, Corea del Sud, Singapore e Giappone corrono a loro volta per massimizzare i benefici promessi da Hanoi in questo settore: ci saranno risorse sufficienti per monitorare la situazione?

Una startup vietnamita sul palcoscenico globale

La VNG corporation, prima startup unicorno del Vietnam, sta guardando oltre i confini nazionali dopo aver difeso con successo il suo mercato interno di 100 milioni di persone contro giganti globali come Facebook

La tendenza di vedere il Vietnam come un Paese noto soprattutto per il tessile e per l’agricoltura potrebbe presto cambiare grazie al successo riscosso da una startup vietnamita: la VNG corporation. Questa startup, specializzata in social network, e-commerce, contenuti digitali e intrattenimento online è la prima startup unicorno del Vietnam, ossia la prima startup vietnamita a superare il valore di oltre 1 miliardo di dollari.

Un excursus sulla storia della compagnia è necessario per valutare la sua evoluzione negli anni. La compagnia è stata fondata in un periodo in cui solo una piccola frazione della popolazione vietnamita aveva accesso a Internet. Nata nel 2004 sotto il nome di Vinagame, la VNG corp, ha iniziato la sua attività nel settore del gaming. Nonostante l’inizio molto di nicchia, la compagnia è riuscita ad espandersi gradualmente in un’ampia gamma di servizi come condivisione di musica, streaming video, messaggistica, portali di notizie e pagamenti online. La sua app di messaggistica Zalo è ormai profondamente radicata nella vita vietnamita, soprattutto dei giovani. Già dal 2020 l’app aveva superato all’interno del Vietnam Messenger, la piattaforma di messaggi di Facebook. Secondo gli ultimi dati del Ministero Vietnamita dell’Informazione e delle Comunicazioni, a febbraio 2022 l’applicazione contava 74,7 milioni di utenti attivi mensili, mentre Messenger ne contava 67,8 milioni. Alcuni dei punti di forza dell’applicazione sono la possibilità di inviare immagini di qualità superiore e di incorporare caratteristiche culturalmente rilevanti come gli emoji che riflettono il Capodanno lunare Tet. Come sottolineato da Le Hong Minh, co-fondatore della VNG, sembra che il maggior punto di forza della compagnia sia quello di capire le preferenze e la necessità dei suoi utenti. 

Le Hong Minh vede infatti la startup come un catalizzatore della nascente cultura delle startup tecnologiche In Vietnam. In un’intervista presso la sede centrale della compagnia a Ho Chi Minh City, Le Hong Minh ha reso ben chiaro una delle aspirazioni della VNG corp. “In futuro, il Vietnam non sarà conosciuto solo per il caffè e l’industria manifatturiera”, ha detto Le Hong Minh facendo riferimento all’obiettivo della VNG di espandersi a livello globale nell’industria tecnologica globale.  Infatti, la VNG corp dopo aver difeso con successo il suo mercato interno di 100 milioni di persone contro giganti globali come Facebook sta guardando oltre i confini del Vietnam.  Come riportato dal co-fondatore Le Hong Minh i giochi saranno la punta di diamante dell’espansione a livello internazionale della società. Infatti, la branca gaming della VNG corp, ha utenti in più di 130 Paesi e prevede di avere 320 milioni di clienti in tutto il mondo nel 2023. Nonostante questo, Le Hong Minh, ha precisato che la VNG sta anche cercando di aumentare le vendite globali dei suoi prodotti di intelligenza artificiale e cloud computing.La domanda principale è: data la significativa espansione all’interno del Vietnam, riuscirà la VMG corp ad ottenere la fiducia degli investitori esteri? Alec Tseung, partner del KT Capital Group, è convinto che nonostante in teoria la VNG attirerà l’attenzione degli investitori grazie alla somiglianza in molte aree di attività con la Tencent, società multimediale già molto nota a livello globale, in pratica la compagnia non dispone di un contesto normativo favorevole come quello si cui gode la Tencent in Cina. Dall’altra parte, bisogna però tenere in conto che secondo una ricerca del National Innovation Center Vietnamita, lo scorso anno il Vietnam ha attirato investimenti di venture capital da record, raccogliendo oltre 1,4 miliardi di dollari in 165 accordi. Inoltre, secondo alcune fonti la società sta valutando un’offerta pubblica iniziale (IPO) negli Stati Uniti, ma Le Hong Minh ha rifiutato di confermare direttamente. In sostanza, bisogna attendere gli sviluppi di questa società a livello globale, ma sicuramente la VNG corp è una startup da tenere sotto osservazione da parte degli investitori.

Le auto elettriche vietnamite sui mercati UE

Non solo Stati Uniti. Il colosso vietnamita VinFast punta a espandersi anche nel mercato europeo. Con una strategia che appare vincente

Il marchio vietnamita di veicoli elettrici VinFast punta ad espandersi nel mercato europeo. Dopo l’apertura del flagship store a Colonia prevista per novembre 2022, l’azienda ha in programma di aprire nuovi uffici a Francoforte, Parigi, Nizza, Amsterdam, Berlino, Monaco e Amburgo entro la fine dell’anno. L’espansione dell’azienda di EV (electric vehicles) nei paesi dell’Unione Europea prevede una rete di vendita al dettaglio che intende rispondere alle esigenze specifiche del mercato locale, ha dichiarato lunedì la casa automobilistica. Come economia di punta dei paesi del Sud-Est asiatico, il Vietnam continua a trainare la crescita della regione. Al Salone dell’auto di Parigi, che si è tenuto dal 17 al 23 ottobre scorso, la CEO di VinFast Le Thi Thu Thuy ha dichiarato che la sua azienda è orgogliosa di tornare a Salone “per dimostrare che il Vietnam non solo è in grado di produrre automobili, ma sta anche facendo un grande salto verso la rivoluzione elettrificata”. VinFast è il marchio principale del conglomerato vietnamita VinGroup, che si occupa di tecnologia, industria, sviluppo immobiliare, vendita al dettaglio e servizi, e sembra intenzionata ad espandersi il più possibile sui mercati globali. Ha anche annunciato all’inizio dell’anno che lancerà un impianto di assemblaggio da 4 miliardi di dollari sul suolo statunitense. Si tratta di una strategia coerente con il grande successo che VinFast sta acquisendo anche nel mercato interno: tra automobili più economiche e vetture di lusso, la casa automobilistica sta vivendo appieno il “momento d’oro” del settore elettrico vietnamita trainato dalle istanze di sostenibilità. L’impennata nelle vendite registrata nel luglio 2022 è stata limitata solo dalla scarsità di componenti subita nell’agosto successivo. Ma secondo un rapporto del Vietnam Petroleum Institute, se il governo agirà tempestivamente con politiche mirate al sostegno del settore, Hanoi potrà assumere un ruolo di punta per il mercato degli EV nel Sud-Est asiatico e all’estero.

Il Vietnam leader della delocalizzazione

Ma sviluppare un’industria high-tech autoctona non è così semplice

Il futuro della Apple potrebbe essere in Vietnam. Da più di dieci anni il Paese del Sud-Est Asiatico è un leader assoluto nell’attrarre i più grandi brand della tecnologia: da Samsung, a Xiaomi, a Intel. E anche la compagnia di Steve Jobs sta producendo qui i componenti per gli AirPods, oltre a testare la produzione di smartwatch e laptop. Riuscire a inserirsi nella filiera di questi dispositivi più complessi sarebbe un grande successo per l’industria manifatturiera di Hanoi.

Il Vietnam ha infatti registrato una crescita dell’esportazione di beni tecnologici ineguagliata da qualunque altro Paese asiatico. Dal 13% del 2010, in appena dieci anni i componenti high-tech sono diventati il 42% dell’export. Del resto, negli ultimi anni il crescente costo dell’inflazione nei centri manifatturieri cinesi ha spinto molti produttori a spostare le loro fabbriche in Vietnam, dove i salari dei lavoratori sono più bassi. Prima la guerra commerciale tra Washington e Pechino e poi i continui e serrati lockdown in Cina, hanno incentivato le aziende, inclusa Apple, a trasferirsi nel Paese. Ma la capacità di Hanoi di attrarre imprese estere per lavorare i componenti dei dispositivi tecnologici in loco va di pari passo con la difficoltà a far emergere un’industria propria. Secondo i report pubblicati dal Ministero dell’Industria e del Commercio nel 2019, il Vietnam è rimasto indietro rispetto alla maggior parte dei suoi vicini nel settore tecnologico. 

Negli anni precedenti le cosiddette “tigri asiatiche” hanno dimostrato che il salto di qualità, da pezzo della catena di montaggio a produttore vero e proprio, è possibile. Un esempio sono le economie di Cina, Taiwan e Corea del Sud, che partendo da una base di prodotti a basso costo, hanno virato le loro industrie verso l’automobilistica e la robotica. Il Vietnam presenta caratteristiche simili a questi Paesi: bassi costi di produzione, forza lavoro a disposizione e una politica industriale coordinata dallo Stato. Tuttavia, incombono due grandi criticità: la mancanza di infrastrutture adeguate e di manodopera altamente qualificata. Manager e lavoratori qualificati costituiscono, infatti, solo il 10,7% dell’intera forza lavoro del Vietnam, la percentuale più bassa di tutte le grandi economie del Sud-Est Asiatico. Inoltre, in Cina ad esempio, intere zone sono dedicate alla creazione di un solo prodotto; il Vietnam, invece, non dispone di questi agglomerati. Le sue industrie sono sparse nel Paese e poco integrate.

Resta, poi, da chiarire se il successo raggiunto dalle “tigri asiatiche” decenni fa sia replicabile ancora oggi, con un’economia globalizzata trasformata dal dominio del settore manifatturiero cinese. Il ruolo di Hanoi rimane quindi ancora incerto: in bilico tra continuare a essere una parte affidabile della filiera produttiva e, allo stesso tempo, pronto a elaborare una strategia per entrare nel mercato internazionale. Certo, il successo nell’high-tech significherebbe diventare competitivi con i grandi brand asiatici, come la cinese Oppo o la malese Silterra. Ma un eventuale fallimento, fa notare il direttore del Mekong Development Research Institute Phung Tung, condannerebbe il Paese a essere “per sempre una componente della catena di approvvigionamento”, con le disastrose conseguenze della stagnazione, la disuguaglianza sociale e le crisi di debito.

La soluzione per continuare ad attrarre aziende estere sul territorio e, al contempo elaborare una strategia di crescita autonoma, pone il Vietnam di fronte a un dilemma: la formazione della manodopera aumenterà le possibilità del Paese di lanciarsi nell’industria dell’high-tech, ma porterà anche a un incremento dei salari, incoraggiando i produttori esteri a delocalizzare altrove, come nella vicina Cambogia.