Global Lens

L’India in cerca di nuove opportunità nella filiera produttiva dei semiconduttori

Articolo di Aishwarya Nautiyal

L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni

L’economia indiana ha quasi raggiunto i 5 bilioni di dollari, e il Paese adesso punta a diventare un centro nevralgico per la produzione di semiconduttori per rendersi autosufficiente. Il governo prevede una spesa di 10 miliardi di dollari per la produzione di semiconduttori nei prossimi cinque anni, dato che l’India è un Paese per lo più importatore e questi componenti hanno un’importanza fondamentale nel 21 secolo. Su proposta del Ministero dell’Elettronica e della Tecnologia dell’Informazione, i principali concorrenti Vedanta Foxconn JV, IGSS Ventures e ISMC hanno avviato dei progetti per la costruzione di impianti per produrre chip elettronici nell’ambito del Semicon India Program. Taiwan, in testa ai produttori, ha individuato delle opportunità con TSMC e UMC, che stanno costruendo impianti in India, attraverso una negoziazione bilaterale con un accordo di libero scambio.

Le crescenti pressioni della Cina nei confronti di Taiwan, che intende ampliare l’ottica della sua strategia, possono essere un’ulteriore opportunità per la produzione di semiconduttori nel Maharashtra e nel Gujarat. Una nota positiva viene dal governo: l’India dovrebbe diventare uno dei poli produttivi entro il 2025 e il valore del mercato aumenterebbe da 2 a 100 miliardi di dollari, compresa l’ecosistema produttivo degli schermi. Si stima che il gruppo TATA, ad esempio, gestisca l’assemblaggio delocalizzato di semiconduttori nel Telangana, nel Karnataka e nel Tamil Nadu per un totale di 300 milioni di dollari, e le sue forniture di chip semiconduttori e wafer di silicio provengono da TSMC & Fitch Solutions. Al contrario, aziende come l’americana Intel hanno espresso interesse nella realizzazione di nuovi impianti. Soffermandosi su quest’industria, si apre uno scenario che è cambiato dal 1987, quando l’India era a soli due anni dal diventare leader nella produzione dei chip, ad oggi, rimasto indietro di 12 anni a causa di carenza di infrastrutture, lungaggini burocratiche, un alto tasso di corruzione e scarsa lungimiranza. Tutto questo ha portato a una fortissima dipendenza nell’era delle nuove dinamiche delle infrastrutture nella robotica.

In seguito all’aumento della domanda nel mercato elettronico e a un’ulteriore diversificazione in quello delle tecnologie smart, la Cina, spinta anche da relazioni bilaterali altalenanti, ha modificato la sua strategia, spostando la produzione di tali componenti sul proprio territorio; ciò avrà un ruolo cruciale negli sviluppi futuri dell’economia moderna. Un altro aspetto importante nella fase produttiva è l’introduzione di politiche adeguate, coadiuvate da un ambiente competitivo a livello internazionale che garantisca il rispetto dei diritti umani. Durante la pandemia di Covid-19, ci sono state diverse interruzioni delle catene di approvvigionamento, e tale situazione è stata resa ancora più complessa dell’imprevedibilità. L’India dovrebbe stabilire un ICT layer, cosa che finora è stata trascurata. Dal 5G alla robotica alle nuove piattaforme di realtà virtuale,  l’India è considerata un ottimo partner sostenibile grazie alla sua accessibilità e alle sue capacità per quanto riguarda le soluzioni tecnologiche. Saper affrontare le crisi di approvvigionamento è diventato un imperativo nel periodo post-pandemico.

Analizzando i dati odierni, possiamo osservare che Taiwan produce il 92% dei chip di dimensioni inferiori ai 10 nanometri (nm), mentre la Cina rappresenta il 54% del mercato globale dei semiconduttori e svolge un ruolo di primo piano nella fase di test dei circuiti integrati. Il potere economico della Cina, unito ai suoi prezzi competitivi che costituiscono un certo vantaggio nelle complesse relazioni commerciali tra USA e Cina, può lanciare una sfida ai policy maker indiani; l’India deve assolutamente potenziare la sua produzione interna, concentrandosi su design sviluppati autonomamente nell’ottica dell’autosufficienza, invece di immischiarsi troppo nelle questioni dei propri concorrenti, ossia USA e Cina. La rivoluzione dei semiconduttori sembra avvenire con il giusto tempismo per l’India, aumentando inoltre il numero di talenti a disposizione. Il vento del cambiamento ha fatto emergere Taiwan come leader della produzione, e lo stesso potrebbe avvenire per l’India, con la dovuta disponibilità di risorse e manodopera competitiva.

Superare gli ostacoli e creare nuove opportunità nell’economia ha aperto nuovi orizzonti per il settore privato, pronto a collaborare e ad “ammorbidire” le relazioni con i policy maker e i produttori internazionali. Si lavora dunque per costruire la fiducia, migliorando la cooperazione diplomatica e mirando ad un approccio più coordinato nel futuro. L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni. Grazie alla presenza, seppur piccola, di SCL a Mohali, GAETEC a Hyderabad e SITAR a Bengaluru, non è da escludere la possibilità che si sviluppi un mercato competitivo che punti seriamente ad attrarre nuovi talenti e investimenti internazionali. La prossima fase di trasformazione del mercato tecnologico e del capitale sarà un fattore chiave nel definire nuove relazioni bilaterali e multilaterali tra i produttori del Sud Est asiatico e dell’Occidente.

Rafforzare gli attuali legami commerciali e diversificare l’affidabilità dei singoli partner può offrire all’India una nuova serie di opportunità, in base alle capacità apprese nel periodo post-pandemico a causa delle interruzioni delle catene di approvvigionamento. Avere la forza di superare le nuove sfide che ci attendono può far scaturire opportunità inaspettate per le nazioni che riescono, sviluppando le proprie idee, ad affermarsi come leader internazionali nel settore tecnologico, migliorando l’impatto socio-economico attraverso la crescita sostenibile.

La cooperazione Corea-UE: commercio, sicurezza, standard globali

La Corea è uno dei partner strategici dell’Unione. Gli intensi scambi commerciali hanno aperto la strada per una cooperazione intensa in campo regolamentare e politico. Esaminare questo rapporto permette di capire in che direzione potrebbero evolversi i legami di Bruxelles con i suoi altri partner asiatici.

La storia dei rapporti tra Corea ed Europa è molto recente. A differenza di Cina e Giappone, che sono sempre stati al centro dell’immaginario europeo quando si pensava all’Estremo Oriente, la Corea è stata per secoli meno nota (e accessibile) agli europei, proprio a causa dell’influenza dei primi due Paesi su quest’ultima. Fino al XVII secolo, gli studiosi europei parlavano della Corea quasi solo all’interno di opere dedicate alla Cina: la prima descrizione significativa della Corea è forse contenuta nel Novus Atlas Sinensis (1655) del gesuita trentino Martino Martini. Il primo europeo a visitare il Paese è stato l’olandese Hendrick Hamel: il suo resoconto dei 13 anni trascorsi tra l’isola di Jeju e Seoul (1653-1666) costituiscono la prima fonte diretta sulla Corea a disposizione dei lettori europei. La figura di Hamel è poco nota nei Paesi Bassi, mentre è famosa in Corea, tanto da essere onorata con monumenti e musei. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, gli occidentali avevano iniziato a definire la Corea un “regno eremita” per via dei suoi pochi contatti con l’esterno – un’espressione tornata recentemente in voga per riferirsi alla Corea del Nord. Le relazioni tra Seoul e i Paesi europei iniziano a svilupparsi con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine della dominazione giapponese. Molti Paesi europei supportano la Corea del Sud nella Guerra 1950-1953. Eppure, l’impulso maggiore a questo rapporto arriva forse nei decenni successivi, come conseguenza degli intensi scambi commerciali tra l’Europa e l’emergente tigre asiatica.

Tra la fine della Guerra di Corea e i primi anni Duemila, il “Miracolo sul fiume Han” rende Seoul una delle economie più competitive al mondo. Il successo economico le garantisce un ruolo importante sulla scena globale, che non si riduce però alla sola economia. Il Paese ospita le Olimpiadi estive nel 1988 e i Mondiali di calcio nel 2002. Alla fine degli anni Novanta parte” l’onda coreana”, nota globalmente come Hallyu (한류), l’esplosione di popolarità dei media coreani prima negli altri Paesi asiatici e poi nel resto del mondo. Tutte queste forme di soft power, innestandosi sul suo dinamismo commerciale, hanno accompagnato l’emergere della Corea come attore globale. Nel maggio 2004, l’allora Ministro degli Affari esteri e del Commercio sudcoreano Ban Ki-moon lancia un’ambiziosa politica di liberalizzazione degli scambi internazionali attraverso la conclusione di nuovi accordi con Unione Europea, Stati Uniti e India. Un indizio del prestigio internazionale del Paese è l’elezione dello stesso Ban Ki-moon a Segretario Generale delle Nazioni Unite (2007-2016). Tra gli accordi commerciali progettati nel 2004, la Corea conclude per primo quello con l’UE (2011). L’accordo rappresenta una novità per entrambe le parti: per Seoul, è il primo trattato commerciale con un’economia avanzata ad entrare in vigore, per Bruxelles è il primo accordo di libero scambio “di seconda generazione”. Questa nuova generazione di Free Trade Agreement (FTA) europei si distingue dalla precedente per l’inclusione di materie mai coperte in passato: lo scambio dei servizi, la protezione della proprietà intellettuale e la promozione dello sviluppo sostenibile attraverso i rapporti commerciali (Trade and Sustainable Development, TSD). Il FTA UE-Corea ha quindi costituito il modello per gli accordi commerciali tra l’Europa e gli altri Paesi asiatici.

La solida posizione internazionale coreana ha portato l’UE a individuare in Seoul uno dei suoi dieci “partner strategici” sullo scenario globale. Anche in questo caso, i rapporti commerciali hanno costituito il primo impulso ad approfondire questa collaborazione. Per la Corea, l’UE è attualmente il terzo mercato di esportazione e il primo investitore straniero diretto. Se esaminiamo il periodo 2010-2018, il FTA del 2011 ha avuto effetti notevoli sui flussi dall’UE verso la Corea di merci (+77%), servizi (+82%) e investimenti (+39%). Le automobili costituiscono una fetta consistente per l’export dall’UE verso la Corea e viceversa. Il settore dei semiconduttori – un mercato strategico e dominato dai Paesi asiatici – è molto rilevante e caratterizzato da uno scambio “circolare”: la Corea esporta i chip, ma importa dall’UE l’attrezzattura per produrli. La sinergia in questo campo diventerà probabilmente ancora più importante in futuro, dato che gli Stati Uniti stanno incoraggiando i loro alleati – anche europei – a privilegiare le catene di approvvigionamento “democratiche” per i beni di importanza strategica come i semiconduttori. Tale dottrina potrebbe portare Bruxelles a comprare più semiconduttori in Corea, Giappone e Taiwan, a discapito dei fornitori cinesi, ma anche a rendersi più autonoma dalle importazioni dall’estero, seguendo il principio della “sovranità digitale”. Altro settore rilevante dell’export europeo verso la Corea è quello farmaceutico.

I negoziati sul FTA erano collegati alla revisione di un altro accordo, il Framework Agreement, che predispone le forme di cooperazione politica tra i due partner. A questi accordi se ne aggiunge un’ulteriore, il Crisis Management Participation Agreement. La Corea è l’unico partner ad avere ben tre accordi in vigore con l’UE, un indizio dell’importanza che Bruxelles riconosce a tale rapporto. Tali accordi hanno permesso una sempre maggiore cooperazione nel campo della sicurezza, sia regionale sia globale. A livello regionale, durante l’amministrazione Trump, Seoul ha iniziato a fare più affidamento su Bruxelles per mantenere la stabilità della penisola coreana ed evitare la proliferazione di armi nucleari. A livello globale, la marina coreana partecipa all’operazione Atalanta, a guida UE, per contrastare la pirateria al largo del Corno d’Africa. La partnership UE-Corea produce un ulteriore risultato: dove la cooperazione economica si interseca con quella politica, nasce la cooperazione regolamentare. I due partner riescono ad essere standard setter globali e, grazie alla robusta architettura istituzionale degli Accordi di cooperazione, sono in costante contatto per mantenere “al passo” la disciplina di molti settori economici. In primis quello digitale: lo scorso dicembre la Commissione ha dato il via con una adequacy decision alla libera circolazione dei dati tra UE e Corea. Questa forma di governance “attraverso network regolamentari transnazionali”, di cui la collaborazione UE-Corea è uno degli esempi più avanzati, potrebbe essere lo strumento più efficace per governare l’economia globalizzata, in assenza di un unico regolatore globale.

Gli investimenti asiatici in Africa

Non solo Cina. Diversi Paesi asiatici puntano forte sul continente africano tra investimenti e cooperazione commerciale e diplomatica. Una panoramica

L’interesse cinese per la regione africana è aumentato esponenzialmente nell’ultimo ventennio ma affonda le sue radici nel lontano 1955. 

Per poter capire al meglio le vicende attuali, è necessario fare un breve viaggio nel passato. Gli studiosi sono soliti scandire la relazione sino-africana in diverse fasi. Il primo approccio risale ai primi anni ’50, periodo in cui la RPC ha finanziato vari progetti di costruzione edilizia e supportato vari percorsi indipendentisti. Gli anni ’80 hanno dato il via ad una seconda fase della relazione, perlopiù negativa, in quanto si assiste ad un deterioramento del rapporto causato dalla chiusura verso l’interno da parte cinese. Ci troviamo nel periodo in cui il governo cinese inizia a prendere le distanze dalla linea maoista (improntata alla collettivizzazione delle risorse) per passare ad approcci capitalistici (promossi come temporanei e necessari a raggiungere l’ideale regime comunista), che risulteranno determinanti nei successivi rapporti sino-africani. La volontà cinese di supportare il “Terzo mondo” schiacciato dal colonialismo e il modello occidentale, si lega all’intenzionalità di promuovere un modello alternativo.

Gli anni ’90 hanno visto un intensificarsi delle relazioni e un approccio “aggiornato” della controparte asiatica rispetto a quello di mezzo secolo prima: lo spettro d’azione cinese ha incluso settori come il commercio, investimenti, assistenza di vario genere, trasferimento di competenze e formazione, ampliando il suo raggio d’azione e insinuandosi non solo nel settore privato ma anche in quello pubblico. 

Il nuovo millennio ha aperto ad un’ultima fase di crescita, continua e rapida. Il 2013 in particolare è stato un anno rappresentativo poiché ha segnato il sorpasso cinese sugli USA per gli investimenti in Africa. 

Tutto ciò si può tradurre in cifre: negli ultimi 20 anni il volume totale degli scambi tra Cina e Africa è aumentato del 24.7% e i prestiti dalla Cina hanno raggiunto la cifra di 153 miliardi. 

La domanda sorge spontanea: in cosa la RPC ha focalizzato i suoi investimenti?

  1. Materie prime: l’Africa dispone di quelle materie prime che mancano alla RPC, in particolare quelle del settore manifatturiero. È bene ricordare che la Cina, negli ultimi trent’anni, è passata da essere un’estesa economia agricola al maggior importatore agricolo globale. Questo le è costato il titolo di paese “low-cost” per il costo del lavoro.
  2. Mercato: il mercato africano è stato visto come particolarmente attraente dagli investitori cinesi sia per la sua estensione che per la recente liberalizzazione, due fattori importanti limitano la forza e il consolidamento dei player stranieri, affievolendo la competizione e facilitando l’inserimento nel mercato. 

Il modus operandi degli investimenti cinesi è stato caratterizzato dalla reciprocità, e in questo differisce da quello occidentale. Il Nord del mondo ha rivolto i propri investimenti il cui fine era l’agevolazione dei propri interessi personali, senza guardare al miglioramento delle condizioni locali. L’approccio cinese è stato, invece, onnicomprensivo e win-win: mettendo a disposizione dei partner lo stesso pacchetto di conoscenze che ha condotto la Cina al proprio sviluppo. 

La Repubblica Popolare Cinese è l’unico attore asiatico economicamente presente in Africa? 

È il Paese del Sol Levante a rispondere a questo quesito. Il capolavoro della diplomazia giapponese in Africa ha un nome: Ticad. Questo acronimo, che significa Tokyo International Conference on African Development, indica una serie di summit organizzati dal governo nipponico e dall’Onu sin dal 1993. Agli eventi, che ad eccezione del 2016 si sono sempre tenuti in Giappone, partecipano più di 40 capi di Stato africani. Ticad ha gettato le basi per progetti “degli africani”, nei quali il Giappone svolge il ruolo di agevolatore attraverso investimenti e know-how: molti degli accordi tecnici e commerciali con Tokyo sono stati firmati proprio durante queste conferenze, le quali sono state, e sono tutt’ora, un ottimo strumento di propaganda per la politica estera nipponica. 

I numeri parlano chiaro: tra il 2007 e il 2017 l’investimento diretto estero del Giappone in Africa è passato da 3,9 a 10 miliardi di dollari. Secondo il Direttore degli Affari Africani presso il Ministero degli Esteri giapponese, Shigeru Ushio, l’accesso ai mercati africani è di vitale importanza per le imprese nipponiche e per le start-up africane, le quali potranno svilupparsi approfittando di legislazioni agevoli in termini burocratici. 

Il Giappone è partito dalle infrastrutture. Il governo giapponese ha iniziato la sua corsa in Africa sviluppando ambiziosi progetti su scala sovra-regionale: un esempio tra tutti è costituito dal porto di Mombasa, considerato di importanza capitale poiché capolinea dell’autostrada transcontinentale – l’Inter-African Highway 8 – che collegherà Lagos, in Nigeria, alla città keniana. L’intero progetto è nelle mani della Toyo Construction Co., che non è certo la sola compagnia giapponese impegnata nella regione. Secondo l’Overseas Construction Association of Japan, ben 16 aziende di costruttori del Sol Levante sono attive in 22 Paesi africani. 

Ma il Giappone non si è limitato al settore delle infrastrutture. I suoi orizzonti sono ben più ampi e hanno raggiunto, in poco tempo, i mercati import-export e le nuove tecnologie, con 796 aziende nipponiche attive in Africa nel 2017. Alcune di queste, come la start-up Nippon Biodiesel Fuel in Mozambico, hanno creato un solido network di fornitori e agricoltori legati direttamente alle proprie attività. 

Il settore che ha visto un successo clamoroso del Sol levante è certamente quello energetico e minerario, come dimostra la presenza di uffici delle principali Corporation nipponiche: la Japan Oil, Gas and Metals National Corp., che si occupa dei rilievi per l’individuazione del petrolio in Kenya e dello sviluppo del gas naturale in Mozambico. 

Non c’è due senza tre”: a far compagnia alle potenze cinese e giapponese ci pensa l’India.

Le crescenti necessità commerciali dell’India hanno portato a un suo orientamento verso l’Africa in quanto partner economico sempre più rilevante e a un rinvigorimento della propria presenza navale nell’Oceano indiano occidentale per garantire la sicurezza degli scambi.

Nello specifico, la zona del Corno d’Africa è di cruciale importanza per New Delhi in quanto estremità nord-occidentale della regione dell’Oceano Indiano, di primaria importanza per la propria sicurezza. Storicamente, il porto di Adulis vicino a Massawa era un importante snodo del commercio marittimo tra Europa e Asia su cui si riversavano i mercanti indiani. La stabilità del Corno era già una delle priorità della madrepatria britannica per garantire la sicurezza e la prosperità economica della sua colonia indiana. Ottenuta l’indipendenza nel 1947, l’India adottò un isolazionismo militare che limitò la diffusione della propria influenza regionale. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, in concomitanza con il boom economico indiano, la domanda interna di materie prime necessarie a sostenere la crescita è aumentata esponenzialmente. Tutto ciò ha contribuito alla creazione di un ambiente dinamico e alla necessità di diversificare le forniture energetiche. Da quel momento, gli investitori indiani hanno iniziato a guardare alle opportunità offerte dal continente africano.

L’approccio indiano in Africa si basa sul mutuo rispetto e sulla non interferenza nel quadro di una cooperazione sud-sud. Nel Corno, l’India sostiene i paesi più bisognosi con aiuti allo sviluppo mirati e destinati soprattutto al settore agricolo, sanitario e dell’istruzione. Tutti i paesi della regione sono partner del progetto indiano Pan African e-Network, un’iniziativa lanciata nel 2009 dal governo di New Delhi e che punta a condividere con i paesi africani l’expertise indiana nei campi della sanità e dell’istruzione.

L’azione indiana in Africa non si esaurisce all’aiuto umanitario: il governo mira a soddisfare i propri bisogni di sicurezza energetica e alimentare, fondamentali per sostenere la crescita economica e demografica del paese, oltre che a sfruttare le opportunità imprenditoriali e di investimento emergenti. New Delhi è accompagnata dal mondo dell’imprenditoria e dai giganti del settore privato. Tra il 2000 e il 2014 il commercio bilaterale è cresciuto da 10,5 a 78 miliardi di dollari: l’India esporta attrezzature elettriche e altri macchinari, prodotti farmaceutici, alimentari, manifattura. 

In sintesi, il ruolo cinese di primo della classe all’interno dello scenario degli investimenti in Africa è costantemente sfidato dalla presenza giapponese e indiana. Il peso dell’India nel continente è in crescita: da un lato aiuta il governo indiano a uscire da una storia di scarso peso nei rapporti internazionali e scarsa attenzione alle relazioni internazionali, e dall’altro soddisfa le necessità di materie prime di un’economia in forte crescita. Il governo giapponese è, invece, consapevole dell’importanza del mantenimento della sua presenza in Africa per tutelare le vie di comunicazioni marittime, in quanto lungo le coste africane passa il petrolio che Tokyo importa dal Medio Oriente. A riprova del fatto che, sebbene vi sia una rivalità, ci sono anche delle convergenze: assicurare la presenza economica nel continente africano è interesse prioritario tanto per la Cina, quanto per il Giappone e l’India.

Asia ed energia: quanto è verde l’Est?

La transizione energetica è un dovere di tutti, ma forse per il continente asiatico lo è un po’ di più. Perché lo sviluppo dei paesi asiatici interessa così tanto gli osservatori?

Il mondo di domani è già in Asia. Ma anche la crisi climatica, le disuguaglianze economiche e sociali, lo sfruttamento delle risorse. La ricerca di soluzioni immediate e concrete per contrastare la crisi ambientale è un imperativo assodato, e nessun luogo al mondo ha gli occhi puntati addosso più dell’Asia. Sebbene i grandi inquinatori risiedano nel nord del mondo e in Cina, anche il resto di quell’Est più arretrato preoccupa gli osservatori. In questa parte di mondo la popolazione aumenta, crescono gli standard di benessere individuale e piovono i finanziamenti nell’edilizia civile e nelle infrastrutture: tutti elementi che rischiano di riproporre i modelli di inquinamento degli ultimi decenni.

L’energia è presto diventata la chiave di volta sul tavolo di quelle “risposte concrete” che i governi devono sviluppare entro i prossimi decenni, pena l’aumento delle emissioni che stanno alla base del riscaldamento globale. Le cosiddette emissioni climalteranti sono responsabili dell’effetto serra e sono riconducibili solo in minima parte alle normali funzioni dell’ecosistema terrestre. Escludendo la curiosità per cui il vapore acqueo è classificato come il gas serra più presente in atmosfera (effetto generato a sua volta dall’innalzamento delle temperature), si parla soprattutto di anidride carbonica (CO2) e metano (CH4). Queste emissioni sono in larga parte riconducibili ai sistemi produttivi e agli standard di vita dei paesi avanzati, che dipendono a loro volta dalle fonti energetiche.

Fonte: International Energy Agency (Iea)

Per quanto semplice possa suonare, affrontare una rivoluzione dei sistemi energetici è un’operazione molto complessa e che si snoda oltre il puro campo dell’innovazione tecnologica. Si tratta di cambiare paradigma in nome dell’efficienza e di spingere “artificialmente” diplomazia, mercati e comunità verso un unico obiettivo: lo sviluppo senza emissioni. O quasi. L’obbiettivo di oggi, consolidato dai tavoli internazionali sul clima, è quello di riuscire a compensare l’output di gas climalteranti compensandone l’impatto (con soluzioni naturali o tecnologiche), e abbassandone la quantità nei settori più inquinanti. Nella regione asiatica il processo di transizione verso forme di energia più sostenibili e pulite diventa un discorso ancora più sfaccettato, dove la (quasi) tabula rasa della rete elettrica in Myanmar condivide lo stesso continente della Cina dei reattori nucleari di quarta generazione. 

La domanda energetica in Asia è destinata a raddoppiare entro il 2030, e già oggi rappresenta circa la metà (53%) della domanda globale. Se nel 1966 il Pil pro capite dell’Asia in via di sviluppo era di 330 dollari, oggi si è arrivati a sfiorare i 5 mila dollari. Sono solo due dei dati che spostano l’attenzione degli osservatori sul continente asiatico, dove alla leva produttiva rispondono nuove esigenze di consumo. Ma solleva anche le preoccupazioni degli esperti, che temono possa ospitare gli escamotages delle grandi multinazionali per ridurre la propria impronta carbonica nel paese d’origine. L’Asia oggi continua a puntare sulla crescita economica trainata da esportazioni e modelli di sviluppo tradizionali, e con lentezza sta cercando di uscire dalla stagnazione della crisi Covid: presupposti che per gli scettici convalidano un futuro ancora incerto per il passaggio allo sviluppo “veramente” sostenibile.

Fonte: International Energy Agency (Iea)

Nonostante la battuta d’arresto della pandemia le emissioni continueranno a salire, e oggi sono circa quattro volte maggiori rispetto al 1960. Per tornare a livelli accettabili, secondo gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), tutti i paesi dovrebbero subire lo stop del 2020 ogni anno, per i prossimi decenni. Questo fa entrare sul piatto della bilancia i grandi inquinatori, come Cina e Stati Uniti, ma anche i paesi che più velocemente stanno crescendo secondo gli stessi paradigmi: il Sudest asiatico, l’Asia centrale interessata dai progetti della Belt and Road Initiative (Bri) e ovviamente l’Asia orientale che traina il successo economico del “Far East” da trent’anni. La storia delle Quattro tigri asiatiche è emblematica di questa parabola crescente, che insieme ai profitti ha ospitato e rilanciato i grandi centri di produzione globali. Oggi in questa parte di mondo cresce anche la richiesta di alzare gli standard di vita dei cittadini, che agli occhi dei governi si traduce spesso in ambiziose prospettive di crescita dei consumi interni. Per produrre, e per vivere la vita del “consumatore ideale” serve energia.

Fonte: Fondo Monetario Internazionale (Fmi)

In questo grande mosaico composto da 4,4 miliardi di persone e 58 paesi la sola presenza della Cina deforma i dati sull’impatto ambientale dei sistemi energetici in Asia. Dall’altro lato dello spettro abbiamo invece 1/10 della popolazione che non ha ancora accesso all’energia elettrica, e che si affida alla combustione di biomasse per cucinare e riscaldare gli ambienti. E lo step successivo viene concesso dall’accesso alle fonti fossili: dal 2010, per esempio, oltre 450 milioni di persone in India e Cina sono passate al Gpl. 

Infine, rimane il miraggio dell’efficienza energetica da fonti rinnovabili, già da tempo considerata una delle soluzioni necessarie dalle grandi agenzie come l’International Renewable Energy Agency (Irena) e l’international Energy Agency (Iea). In un rapporto congiunto le due istituzioni hanno denunciato come la maggior parte dei paesi stia ancora sottovalutando l’aspetto dell’efficienza applicato a sistemi di riscaldamento e raffreddamento civili e industriali, che rappresentano il 40% delle emissioni globali. È una delle tante sfaccettature della transizione energetica che potrebbe vedere in vantaggio quelle nazioni asiatiche che non hanno ancora sistemi energetici consolidati e una rete elettrica più da estendere che da rifare. Ma pone anche nuove sfide: i cambiamenti climatici metteranno sempre più alla prova la resilienza delle nuove infrastrutture, in una parte di mondo dove l’innalzamento del mare minaccia milioni di persone e interi stati (soprattutto nelle isole). I picchi di calore e siccità sempre più frequenti mandano in tilt la rete elettrica laddove viene a mancare la capacità idroelettrica o il network non riesce a sostenere la domanda di energia per il raffreddamento.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali e multilaterali per implementare nuovi sistemi energetici più sostenibili, mentre i paesi promettono di raggiungere le emissioni nette entro i prossimi 30-40 anni. Ecco, quindi, che sono nate legislazioni sempre più definite per abbassare le emissioni, efficientare l’accesso a tecnologie più sostenibili e proporre misure di mercato in grado di deviare gli investimenti verso la transizione energetica. L’Asia rimane la regione dove il carbone continua a espandersi, anziché ridursi, ma presto l’abbassamento dei prezzi dell’energia rinnovabile, la spinta degli investitori e la pressione legislativa potrebbe invertire questa tendenza. Non mancano, e non mancheranno, casi di scompenso sulle reti energetiche e sui mercati (compreso quello del lavoro): la transizione energetica non è un pranzo di gala.

La transizione energetica passa per i sistemi smart

L’intenzione per l’integrazione di soluzioni rinnovabili e più sostenibili c’è, ma potrebbe non essere abbastanza: per far fronte alla complessità nella gestione della rete energetica del futuro, l’APAC non potrà fare a meno di sistemi di controllo smart che operino tra fornitura, rete, domanda e stoccaggio, rendendo il processo più efficiente, affidabile e sicuro attraverso l’interconnessione.

Articolo a cura di Fabrizia Candido

Nella regione dell’Asia-Pacifico, anche nota come APAC, risiede il 60% della popolazione mondiale (circa 4,3 miliardi di persone) e viene prodotta circa la metà delle emissioni mondiali di anidride carbonica. La regione, oltre a Cina, India e Giappone (tre dei sei Paesi maggiormente responsabili per le emissioni di CO2) ospita alcune delle economie in più rapida crescita al mondo. Entro il 2040 si prevede infatti che la domanda di energia da combustibili dell’APAC raggiungerà i 43.6 petawatts, con una domanda globale che raggiungerà i 197.8 petawatts. Il bisogno di svincolare la crescita economica dalle emissioni di gas serra è dunque urgente. 

Per accelerare il passaggio a un approvvigionamento energetico diffuso, accessibile e a basse emissioni di carbonio, è necessaria una maggiore ottimizzazione di ogni aspetto del sistema energetico, nonché maggiore coordinamento e cooperazione tra ogni componente. Ciò richiede una migliore comprensione e migliori meccanismi per monitorare e controllare le modalità in cui reti elettriche, edifici, impianti industriali, reti di trasporto e altri settori ad alta intensità energetica si integrano e interagiscono tra loro.

Il futuro sistema energetico ospiterà più energia da generatori intermittenti (i pannelli solari producono energia solo quando splende il sole e le turbine eoliche solo quando soffia il vento), e sarà più decentralizzato: ci saranno molti più asset fisici collegati alla rete di produzione e a quella di distribuzione, dove i flussi di energia diventeranno sempre più dinamici e multidirezionali. La complessità del sistema di alimentazione aumenterà in modo significativo. Ciò potrebbe mettere a rischio la stabilità e le prestazioni della rete, portando a problemi come squilibri di frequenza, blackout, brownout e sovraccarico di capacità. Senza dati in tempo reale, analisi avanzate e automazione, i più complessi sistemi energetici del futuro diventeranno praticamente impossibili da gestire.

È qui che entra in gioco la digitalizzazione, con raccolta e analisi di dati, intelligenza artificiale e apprendimento automatico. L’aggiunta di enormi quantità di fonti variabili di energia ha creato la necessità di sistemi di controllo smart che operino tra fornitura, rete, domanda e stoccaggio, rendendo il tutto più efficiente, affidabile e sostenibile attraverso l’interconnessione. 

Più nello specifico, la crescente ricchezza di informazioni generata sui consumi energetici e sui modelli di produzione può essere utilizzata per pianificare al meglio la trasformazione del settore, sia a livello macro che micro: il monitoraggio e l’analisi dei dati consentono una migliore capacità predittiva della produzione di energia rinnovabile, consentendo l’ottimizzazione dell’intera filiera. Utilizzando i dati raccolti da varie fonti, come dati sul consumo di elettricità, dati sul prezzo dell’elettricità e dati meteorologici, l’intelligenza artificiale può inoltre essere impiegata per riconoscere modelli e/o fornire previsioni probabilistiche circa capacità produttiva, domanda o penuria di energia. 

In breve, la digitalizzazione offre l’opportunità di sfruttare la disponibilità di dati per ottimizzare la transizione energetica.

Nel 2020, l’Australia ha lanciato il suo Distributed Energy Resource Register, un registro che fornisce un database di informazioni sui dispositivi DER (Distributed Energy Resources) installati nel mercato nazionale dell’energia elettrica. Il registro raccoglie informazioni fondamentali per il programma DER dell’operatore del mercato energetico australiano (AEMO). L’interconnessione tra i dispositivi DER e il registro consente ad AEMO di gestire al meglio la rete elettrica e garantire energia affidabile, sicura e conveniente per tutti i clienti.

Un altro esempio di digitalizzazione al servizio dell’ottimizzazione energica proviene dall’India: il governo indiano ha sviluppato l’India Energy Dashboards (IED), un portale open source che raccoglie dati e rapporti mensili sull’uso di elettricità, petrolio e gas naturale del Paese. Il governo indiano ha anche creato la Building Energy Efficiency Program Dashboard, con l’obiettivo di incoraggiare l’utilizzo di dispositivi ad alta efficienza energetica nelle strutture residenziali sensibilizzando i consumatori. Il database online mostra in tempo reale il numero di luci installate per regione, insieme ai rispettivi risparmi annuali sui costi, riduzioni annuali di CO2 e picchi di domanda evitati.

Ancora, dal 2013 anche il governo cinese ha prioritizzato i sistemi di monitoraggio energetico online. Gli edifici del settore pubblico a tutti i livelli di governo hanno implementato tali sistemi per ottenere dati in tempo reale, consentendo l’automazione della gestione dell’energia e un metodo trasparente per valutare l’efficienza energetica delle strutture. La maggior parte dei sistemi di monitoraggio energetico online per il settore pubblico cinese sono attualmente sistemi decentralizzati. Ad esempio, il governo locale di Hangzhou, insieme ad Alibaba Group, ha implementato il progetto City Brain per migliorare l’efficienza energetica dei trasporti. Nell’ambito del progetto, una piattaforma cloud acquisisce immagini dalle telecamere stradali interconnesse, le traduce in dati sul traffico, analizza i risultati e fornisce le soluzioni più efficienti tramite algoritmi, reindirizzate poi a strumenti smart quali i semafori intelligenti. Ciò ha permesso di ridurre la congestione da traffico nella città di Hangzhou del 10%, con conseguenze sul livello di inquinamento e sull’uso di combustibile.

Infine, su scala più ampia, il governo di Singapore ha recentemente completato un modello digitale in scala reale dell’intera città, Virtual Singapore, che include repliche digitali 3D di ogni edificio della città. Per gli urbanisti focalizzati sull’efficienza energetica, la città gemella digitale offre la capacità di simulare con precisione come i nuovi sviluppi e i cambiamenti di pianificazione nella città potrebbero influenzare una serie di indicatori relativi all’energia, tra cui l’irraggiamento solare, i flussi di traffico stradale e pedonale, il riscaldamento e il raffreddamento e altri fattori. Dati i limiti dimensionali della città, il modello digitale fornisce un sistema estremamente utile per testare gli interventi di pianificazione nel mondo reale.

In conclusione, la regione APAC ha compreso che nella rotta verso il mastodontico obiettivo della transizione energetica, non si potrà fare a meno delle molteplici e diversificate soluzioni smart che la digitalizzazione e la disponibilità di dati rendono possibili.

India e Cina: rivoluzione (e competizione) solare

Nuova Delhi e Pechino non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo

Articolo a cura di Marco Dell’Aguzzo

Mukesh Ambani è il decimo uomo più ricco al mondo e primo nella classifica dei miliardari d’Asia. Il suo patrimonio è legato alle fortune di Reliance Industries, il conglomerato indiano famoso soprattutto per la petrolchimica: gas e greggio, quindi. Ma anche Reliance, come quasi tutti i grandi nomi del settore degli idrocarburi, ha sposato la transizione energetica e annunciato di voler arrivare all’azzeramento netto delle sue emissioni di carbonio entro il 2035. Le frasi parlano da sole, non serve aggiungere molto altro: è evidente che dietro ai progetti climatici delle grandi industrie e dei grandi paperoni non ci sia soltanto la volontà di partecipare al “salvataggio della Terra”, ma soprattutto quella di riaffermare la propria presenza economica in un mondo che cambia. E che, nel corso di questo cambiamento, brucerà sempre meno combustibili fossili e utilizzerà sempre più fonti rinnovabili. Siamo noi a dare un abito politico all’energia. Ma nella mente di un imprenditore che pensa a vendere, al netto della profittabilità, un barile di petrolio non è troppo diverso da un pannello solare.

Il 10 ottobre Reliance ha fatto sapere di aver acquistato, dalla compagnia chimica cinese Bluestar, un’azienda norvegese che realizza pannelli solari al prezzo di 771 milioni di dollari. Un paio di giorni dopo, con 28 milioni ha acquisito le tecnologie di una società tedesca che produce wafer (semiconduttori) per le celle fotovoltaiche. Entro tre anni – questi sono i piani – Reliance avrà investito 10,1 miliardi in energie pulite; al 2030 disporrà di una capacità solare di almeno 100 gigawatt, pari all’intero installato rinnovabile dell’India oggi.

Il governo di Nuova Delhi vuole che, per la fine del decennio, le rinnovabili tutte arrivino a 450 GW. Il potenziale solare, in particolare, è alto, ma attualmente da questa fonte si genera solo il 4 per cento dell’elettricità utilizzata sul territorio nazionale. La quota del carbone, di contro, è enorme, superiore al 70 per cento. Non sarà così per sempre, però. A dirlo non è un giovane attivista dei Fridays for Future ma il presidente della compagnia mineraria statale Coal India, quella che in assoluto estrae più carbone al mondo. È un settore che andrà a rimpicciolirsi nel giro di venti-trent’anni, afferma Pramod Agrawal, per fare spazio al solare: Coal India pensa appunto di entrare nel business dei wafer per il fotovoltaico, facendo leva sul fatto che dalle fabbriche indiane escono sì celle e moduli, ma non questi semiconduttori essenziali.

La competizione è appena iniziata. Perché lo scopo di Coal India è anche quello di Reliance, che mira a fare del paese un grande polo manifatturiero di pannelli solari economici ma efficienti, capaci di conquistare la fetta di mercato della Cina (ora la più grande, nettamente): si comincia con una “gigafactory fotovoltaica integrata” da 4 GW all’anno, che diventeranno 10. L’appetito di Ambani è condiviso pure da Gautam Adani, il miliardario presidente del Gruppo Adani, società che si occupa di commercio di carbone ma che passerà ad aggiungere milioni di watt rinnovabili anno dopo anno. Il governo partecipa a questo sforzo industriale alzando barriere all’ingresso di moduli e celle solari dall’estero, con dazi rispettivamente del 40 e del 25 per cento a partire dal prossimo aprile.

La maggior parte degli apparecchi per il fotovoltaico arrivano in India dalla Cina. Che, seppur forte del suo vantaggio, non si limita a guardare le mosse della rivale regionale, ma cerca anche lei di cavalcare la rivoluzione globale della sostenibilità. Il mese scorso il presidente Xi Jinping ha annunciato che nel paese è iniziata la costruzione, in un deserto non meglio definito, di un mega-progetto rinnovabile, la cui prima fase (100 GW) supera l’intera capacità a vento e sole dell’India. Per arrivare però alla neutralità carbonica entro il 2060, come dice di volere, il più grande emettitore di gas serra al mondo dovrà riuscire ad allentare la dipendenza dal carbone. Similmente al caso indiano, il solare può essere un sostituto efficace. Anche perché – secondo uno studio delle università di Tsinghua, Nankai, Renmin e Harvard – al 2023 i prezzi delle due fonti saranno simili in tutto il paese: nelle zone settentrionali e orientali il pareggio verrà raggiunto già nel 2021; mentre nel centro, nel sud e nel nord-ovest nel 2023. Se abbinato a sistemi di stoccaggio, poi, il solare potrebbe consentire di soddisfare oltre il 40 per cento del fabbisogno elettrico del paese entro il 2060, senza compromettere la stabilità della rete e a un costo di nemmeno 2,5 centesimi di dollaro al kilowattora.

Le tariffe dell’energia solare in India sono già molto economiche: nello stato centro-occidentale del Gujarat, ad esempio, sono scese sotto le due rupie al kilowattora (circa 2,6 centesimi di dollaro) e potrebbero dimezzarsi entro il 2030. Per quella data, la società di consulenza Wood Mackenzie stima che lo spicchio del carbone nel mix sarà del 50 per cento e che costruire nuove centrali alimentate con questo combustibile sarà più caro del 25 per cento rispetto agli impianti solari. L’Agenzia internazionale dell’energia dice che nel 2040 – tra soli diciannove anni – le quote di carbone e sole saranno uguali e che la nazione potrà fare affidamento su una nuova capacità di batterie da 140-200 GW.

Tempi stretti ma numeri enormi, come le ambizioni. India e Cina non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo, capaci di generare ed esportare grandi quantità di elettricità pulita ed economica in Asia. Nuova Delhi sta già costruendo infrastrutture di rete con il Bangladesh e il Nepal; nel 2016 Pechino ha istituito la GEIDCO per arrivare fino all’Africa e all’America del sud. Non è detto che questi desideri si realizzeranno; siamo ancora nello spazio del possibile: per affermarsi all’estero, le due potenze vicine dovranno innanzitutto riuscire a soddisfare le necessità interne. Ma l’energia, rinnovabile o fossile che sia, si conferma una questione di potenza geopolitica.