Asean

L’Ambasciatore Alessandro saluta il Vietnam

Il diplomatico italiano si prepara a lasciare Hanoi. Il commiato raccontato dai media vietnamiti

In Vietnam dal novembre del 2018, l’Ambasciatore italiano Antonio Alessandro, ha effettuato la scorsa settimana due importanti visite di commiato. Nello specifico al Presidente del Comitato del Popolo di Hanoi, Tran Sy Thanh, e al Ministro degli Affari Esteri, Bui Thanh Son. “Nel corso degli anni, gli scambi interpersonali hanno favorito la fiducia e la comprensione reciproca tra il Vietnam e l’Italia in generale, e tra Hanoi e Roma in particolare, aprendo la strada a un’ampia cooperazione in campo economico, commerciale e degli investimenti”,  ha dichiarato Tran Sy Thanh. Come racconta l’Hanoi Times, ha poi espresso gratitudine all’ambasciatore per le sue preziose intuizioni e ha riconosciuto il suo contributo allo sviluppo complessivo delle relazioni bilaterali tra le due nazioni. Con l’impegno di promuovere la cooperazione, Tran Sy Thanh ha assicurato che il governo locale continuerà a facilitare le attività dell’Ambasciata italiana ad Hanoi creando condizioni favorevoli. Il media vietnamita racconta che “durante l’incontro, l’Ambasciatore Antonio Alessandro ha espresso la sua profonda gratitudine e il suo senso di appartenenza dopo aver prestato servizio in Vietnam per oltre quattro anni, affermando di sentirsi un cittadino di Hanoi”. Alessandro ha poi affermato che l’Ambasciata d’Italia ha ricevuto un eccellente sostegno e collaborazione da parte del Comitato del Popolo di Hanoi, che ha portato a notevoli risultati nei vari campi della cooperazione tra Vietnam e Italia, che spaziano dalla cultura alla società, dall’economia al commercio e al turismo. Il commercio bilaterale tra Vietnam e Italia ha registrato una crescita positiva, con le imprese italiane che partecipano sempre più attivamente al mercato del Paese del Sud-Est asiatico. L’Ambasciatore ha poi anticipato nuovi progressi nelle relazioni tra Vietnam, Hanoi e diverse località italiane. Iniziative come il Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra Roma e Hanoi e la candidatura di Roma a ospitare l’EXPO 2030 offrono prospettive promettenti per una maggiore cooperazione. Il tutto mentre proprio quest’anno si celebra il 50esimo anniversario dell’avvio delle relazioni diplomatiche ufficiali. Concludendo il suo intervento, racconta l’Hanoi Times, “Alessandro ha affermato che sebbene il suo mandato sia ormai concluso, il suo affetto e il suo legame con Hanoi e il Vietnam dureranno a tempo indeterminato”. 

I problemi di Barbie & co. con le mappe in Vietnam

Raffigurare il Mar Cinese Meridionale è una cosa delicata, viste le dispute territoriali tra alcuni Paesi dell’ASEAN e la Cina. E talvolta capita che film o band abbiano dei problemi 

Sarà anche uno “scarabocchio infantile”, come lo ha definito Warner Bros, ma tanto basta. La mappa che compare alle spalle di Barbie in una scena del trailer è stata sufficiente a far rimuovere il film dalle sale cinematografiche vietnamite. E non sono nemmeno nove tratti, ma otto. La loro posizione, accanto ad un parallelepipedo abbozzato con la scritta “Asia” trasmette un’immagine inequivocabile: quella è la “nine-dash line”, la linea di demarcazione di quei territori nel Mar Cinese meridionale che la Cina rivendica come suoi. 

Prima sono scomparsi i poster dai cinema, poi lunedì 26 giugno è arrivata la notizia definitiva: il film di Greta Gerwig non verrà distribuito “a causa di alcune scene raffiguranti la mappa con la nine-dash line , considerata una violazione della sovranità territoriale del Vietnam”. Parola del Consiglio nazionale per la valutazione e la classificazione dei film. Anche i social hanno favorito la prospettiva governativa: rammaricati ma infuriati con i produttori, i netizen vietnamiti si sono altrettanto dimostrati offesi dalla cartina pro Cina.

Anche Manila ha considerato l’opzione della censura totale. “La mappa legittima le rivendicazioni cinesi, che nessun governo al mondo sostiene” ed è “offensiva per tutti” i paesi della regione, sostiene l’analista militare José Antonio Custodio. Si tratta di mercati minori, ma non così indifferenti, spiega Hollywood Reporter: un cult hollywoodiano nelle Filippine e in Vietnam può aggiungere al bilancio di Warner Bros tra i cinque e i dieci milioni di dollari. Un bel rischio se l’orgoglio nazionale iniziasse a contagiare i paesi limitrofi. L’arcipelago asiatico, d’altronde, ha fatto da capofila all’istanza del 2016 presso il tribunale internazionale dell’Aia che denunciava le incursioni cinesi e chiedeva il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).

Nazionalismo pop

Non è certo la prima volta che la “lingua di mucca” (đường lưỡi bò), come viene comunemente chiamata la nine-dash line dai vietnamiti, fa strage di icone pop e film d’importazione. Uno dei casi più chiacchierati era stato quello di Uncharted, pellicola d’azione in uscita ad aprile 2022 e poi mai approvata per la proiezione a causa – ancora un volta – della mappa della discordia. 

La stessa “svista” nel 2019 è costata ben 170 dollari di multa al distributore di film vietnamita CJ CGV: aveva commercializzato Il piccolo Yeti, un cartone animato firmato DreamWorks finito nel mirino di Filippine, Vietnam e Malesia per la stessa ragione. Il 2019, d’altronde, è stato uno degli anni di maggiore tensione nel Mar cinese meridionale, causata dalle operazioni del vascello cinese Haiyang Dizhi 8 nei dintorni delle isole Spratly. 

La nine-dash line, che si prende circa il 90% dei tre milioni di chilometri quadrati di acque che bagnano l’Asia continentale sud-orientale, ha fatto infuriare il governo filippino con Netflix per la sua comparsa in alcune scene della serie australiana Pine Gap. Tanto che il gigante dello streaming ha proceduto con la loro rimozione dalla piattaforma. 

Dall’altra parte, affermano i critici, ci sarebbe un continuo processo di autocensura e condiscendenza nei confronti della Cina da parte dei giganti dell’industria culturale. Tra investimenti milionari nelle case di produzione Usa in arrivo dalla Rpc e l’evidente preponderanza del mercato cinese – il secondo al mondo per ampiezza – ecco che anche Hollywood sarebbe incline alle sottigliezze del soft power cinese. 

Nel 2016 ci avevano pensato un gruppo bipartisan di sedici membri del Congresso a denunciare il giro di affari cinesi intorno all’industria dell’intrattenimento statunitense, ottenendo il consenso del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS). Nei paesi ASEAN, almeno in quelli più agguerriti nei confronti delle incursioni cinesi nelle aree rivendicate, il processo è meno complicato: ci pensa direttamente il governo.

Non solo cinema

La battaglia retorica non si limita alla sfera cinematografica. Inizialmente denunciata sui social, la controversa grafica sul sito degli organizzatori della tappa vietnamita del gruppo k-pop Blackpink ha generato le stesse minacce di boicottaggio. l’impresa, iMe Entertainment Group Asia, ha presto risposto alle richieste del ministero della Cultura promettendo di rimuovere la mappa del tour. E spiega in un comunicato: “La mappa non rappresenta nello specifico il territorio di alcun paese, siamo consapevoli e rispettiamo la sovranità e la cultura di ogni paese”.

Hanoi non ha ceduto neanche quando è stato il turno di validare i visti di ingresso nel paese sui nuovi passaporti cinesi. Nel 2012 tali passaporti riportavano chiaramente la mappa che dal 1949 giustificherebbe la storica appartenenza dei territori del Mar Cinese Meridionale alla Cina. E il Vietnam ha quindi chiesto di rilasciare dei documenti a parte, anziché timbrare le pagine dedicate.

In paesi come il Vietnam, la cultura è una delle valvole di sfogo concesse dal Partito. È stato il caso dell’ondata di manifestazioni che nel 2011 e nel 2014 ha portato masse di cittadini arrabbiati per le strade delle principali città vietnamite, il tutto per protestare contro le manovre cinesi nelle aree rivendicate di Hoàng Sa (Isole Paracelso) e Trường Sa (Isole Spratly). 

Abbassare il linguaggio del nazionalismo all’industria della cultura potrebbe permettere anche questo. Cosa meglio di un successo cinematografico globale per accendere la fiamma della partecipazione pubblica dove poche – se non nulle – sono le sedi del dissenso? Un processo che avviene, al contrario, in Cina, dove delle definizioni geografiche su una t-shirt possono far scattare la messa al bando di un brand. 

Il filosofo Alfred Korzybski sosteneva che “la mappa non è il territorio”, ma un costrutto ideologico. Per i paesi asiatici che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale la mappa è qualcosa di più: una storia sempre necessaria, e mai uno “scarabocchio”.

I fondali della diplomazia

Tra i progetti più ambiti sul fronte dei cavi sottomarini c’è il Sud-Est asiatico-Medio Oriente-Europa occidentale 6, o SeaMeWe-6, che collega la Francia a Singapore, toccando una dozzina di altri Paesi

Articolo di Chiara Suprani

Tra le forme che i Paesi adottano per indirizzare la loro “economic diplomacy”, ce n’è una meno popolare dei semiconduttori, ma altrettanto centrale: si trova sott’acqua, e collega continenti con la “sola” forza di un cavo. Sono le reti di cavi di telecomunicazione sottomarini, diventate negli anni infrastrutture critiche per l’economia digitale, per il traffico di dati internazionali ma anche per la logistica. Anche l’Italia ha in progetto un proprio cavo sottomarino: si chiama Unitirreno, e collega Genova a Mazara Del Vallo, garantendo l’accesso ad un centro dati “carrier-neutral”, ossia non appartenente a nessuna compagnia di telecomunicazioni. I cavi sottomarini rendono le connessioni più veloci, diluiscono il traffico dati e permettono un miglior funzionamento delle telecomunicazioni e delle fasi digitali di innumerevoli settori economici. E fa tanto parte della rete un cavo, quanto ne fa parte un nodo. 

Tra questi nodi c’è Singapore, che ha all’attivo 25 cavi sottomarini operativi, i quali la rendono il più grande hub di connessione ethernet subacquea della regione. E oltre ai già pianificati 14 futuri progetti, la città stato nei prossimi anni raddoppierà il numero dei punti di aggancio dei cavi, tramite investimenti di miliardi di dollari. 

Aziende come Meta, Google assieme a Paesi come i Quad, quali Australia, Giappone, India e Stati Uniti hanno puntato il mirino su Singapore, i primi investendo in progetti chiamati Echo e Bifrost, entrambi saranno terminati il prossimo anno ed Echo collegherà per la prima volta Singapore direttamente agli Stati Uniti; i secondi siglando un nuovo accordo per l’aumento dei cavi ethernet sottomarini nell’Indo Pacifico. 

Ed in quanto infrastrutture critiche, non è passata inosservata nemmeno la loro fragilità. Spesso i cavi ethernet sottomarini sono stati soggetti e vittime di dispute diplomatiche tra paesi: per Wired, la rete globale di cavi sottomarini costituisce la maggior parte dello scheletro di internet al giorno d’oggi, insostituibile anche dal famigerato progetto Starlink di Elon Musk. Con l’aumento del numero di cavi sottomarini, si sono venuti a creare degli hub, che sono allo stesso tempo “choke points” o punti di rottura, come nel caso dell’Egitto da cui passa il 17% di tutto il traffico internet del mondo. Simile potrebbe essere il destino di Singapore, che dovrà garantire un traffico dati ininterrotto ed dimostrarsi una risorsa affidabile. La città stato dovrà elaborare un piano di intervento per la mitigazione dei disastri come quelli che hanno coinvolto le Isole Salomone nel 2018, gli Stati Federati della Micronesia nel 2021 e le Isole Matsu nel febbraio di quest’anno.Tra i progetti più ambiti c’è il Sud-Est asiatico – Medio Oriente – Europa occidentale 6, o SeaMeWe-6, che collega la Francia a Singapore, toccando una dozzina di altri Paesi. Un progetto al centro della competizione tra Stati Uniti e Cina, che collocherà Singapore ancora di più nel cuore della diplomazia mondiale.

L’ASEAN guiderà il prossimo decennio di commercio globale

Il Sud-Est asiatico è destinato a diventare uno dei principali centri di crescita dei prossimi anni. Lo sostiene un nuovo report di Standard Chartered Bank

“Il commercio globale si sta spostando sempre più verso l’Asia, mentre emergono corridoi ad alta crescita all’interno della regione e verso nuovi mercati in Africa e Medio Oriente. Il blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico che fanno parte dell’ASEAN è ovviamente in cima alla lista, con il commercio tra gli Stati membri del blocco destinato ad accelerare a quasi il 9 per cento annuo nel prossimo decennio”. Lo sostiene con decisione Michael Spiegel, responsabile globale del settore Transaction Banking di Standard Chartered Bank, in un commento pubblicato sul Business Times. “Se da un lato queste tendenze segnalano grandi opportunità, dall’altro le imprese si trovano ad affrontare una policrisi, ovvero un insieme di sfide interdipendenti, dall’aumento delle tensioni geopolitiche, dell’inflazione e dei prezzi dell’energia alla necessità sempre più urgente di affrontare i rischi climatici”, scrive Spiegel. Secondo l’esperto di Standard Chartered Bank, “per avere successo, le aziende devono agire ora, collegandosi a nuovi mercati per diversificare sia l’approvvigionamento che la produzione per ottenere catene di approvvigionamento più resilienti. La sostenibilità è sempre più un imperativo sia per gli investitori che per i consumatori, il che rende la conformità ambientale, sociale e di governance (ESG) più urgente che mai, non solo per le società di capitale ma anche per i loro fornitori”. Spiegel sostiene che “le aziende devono bilanciare gli obiettivi di crescita con catene di approvvigionamento resilienti e sostenibili. Devono identificare e connettersi alle opportunità di crescita, quindi eseguire un piano di crescita sostenibile e resiliente”. L’esperto di Standard Chartered Bank conclude ponendo una domanda precisa alla quale propone una risposta altrettanto precisa: “Quindi, dove saranno gli hub di crescita del futuro? Noi siamo convinti che saranno in Asia, Africa e Medio Oriente, che sono destinati a spingere le esportazioni globali da 21.000 miliardi di dollari a 32.600 miliardi di dollari entro il 2030, secondo il nostro nuovo rapporto Future of Trade di Standard Chartered Bank”.

Il problema dell’acqua

Gli effetti dell’aumento delle temperature sull’Himalaya in un nuovo report: la principale riserva idrica del continente rischia di andare a secco nel 2100. Con conseguenze per un’area in cui nascono Yangtze e Fiume Giallo, Indo, Gange e Mekong

L’Asia perderà la sua principale riserva d’acqua entro il 2100. È l’allarme lanciato dai ricercatori dell’International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD) di Kathmandu, che nel loro ultimo report prevedono una riduzione dei ghiacciai himalayani fino all’80% dell’attuale volume. La stima si basa sulle previsioni di aumento delle temperature globali di 4°C, ben oltre i limiti promessi dall’Accordo per il clima di Parigi ma vicini alle proiezioni reali qualora non venga intrapresa un’azione significativa. 

L’area dell’Hindu Kush, oggetto della ricerca, ospita quella che è oggi la riserva di ghiaccio più estesa al mondo dopo i due Poli. Qui si trovano 15mila ghiacciai per un totale di 100mila chilometri quadrati di superficie, da dove iniziano il loro percorso lo Yangtze e il Fiume Giallo, così come l’Indo, il Gange e il Mekong. Un’area tanto vasta da interessare direttamente le 240 milioni di persone che abitano sull’altopiano e altre 1,65 miliardi lungo i bacini fluviali. 

Secondo le previsioni di ICIMOD lo scioglimento dei ghiacciai provocherà un picco dell’approvvigionamento idrico a valle entro la metà del secolo, per poi iniziare lentamente a declinare. A partire da quel momento la disponibilità di acqua inizierà a diminuire e non vi saranno più sufficienti riserve a monte per il mantenimento degli ecosistemi locali.

Dalla dipendenza dei sistemi energetici dall’idroelettrico fino all’instabilità delle risorse idriche per l’agricoltura, lo scioglimento dei ghiacciai avrà e ha già adesso un impatto epocale sul continente. Questo in una regione dove l’80% delle precipitazioni si concentra nei quattro mesi della stagione monsonica, oggi sempre più intensa, breve e calda. Nel 2021 la presidente dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri Mami Mizutori aveva definito la siccità “la prossima pandemia”. Peccato, aggiungeva, che per la siccità non esiste alcun vaccino. 

La scarsità di risorse idriche entra in gioco in un’area dove, negli ultimi vent’anni, gli investimenti nell’energia idroelettrica sono esplosi. Cento dighe sono oggi operative nei sedici paesi raggiunti dalle acque provenienti dall’altopiano, mentre è prevista la costruzione di altre 650 dighe nei prossimi anni. L’entusiasmo verso le opportunità derivanti da questa fonte apparentemente sostenibile è stato presto smorzato dalle ondate di calore record che si susseguono di anno in anno. Un picco delle temperature prolungato che, come sta accadendo in Vietnam da oltre cinque settimane, ha portato alla graduale chiusura di alcune delle principali centrali idroelettriche del paese. 

Ma l’appetibilità delle risorse idriche per sostenere la rampante domanda energetica dei nuovi poli industriali ha generato narrazioni ben diverse nella comunità degli investitori internazionali. Dall’Irrawaddy per il Myanmar al Mekong per il Laos, sono tante le aziende e le istituzioni che vorrebbero cogliere l’occasione di trasformare questi paesi nelle “batterie dell’Asia”. Il potenziale idrico dei grandi fiumi asiatici viene spesso definito “un’opportunità mancata” o “ampiamente sottosfruttata”. 

A ciò sta contribuendo una graduale conversione delle catene di approvvigionamento globali nell’Asia meridionale e nel Sud-Est asiatico dovuta all’aumento dei costi della manodopera cinese e alle tensioni internazionali. Non meno importanti sono gli sgravi fiscali adottati dai governi per attirare gli investitori stranieri, così come i numerosi accordi commerciali. Tutte misure che stanno ampliando l’accesso ai mercati asiatici e, facilitando gli scambi regionali, permettono di delocalizzare un’intera filiera produttiva sulla base dei benefici fiscali o economici dei vari paesi.

La contrazione della calotta polare sta alle esplorazioni energetiche nei mari del nord come lo scioglimento dei ghiacciai sta alle ambizioni infrastrutturali e minerarie di Pechino. È infatti la Repubblica Popolare, in particolare, a puntare sulla crescente accessibilità dell’altopiano himalayano. Recentemente alcuni ricercatori hanno identificato una vena di terre rare che potrebbe estendersi per mille chilometri lungo il confine meridionale del Tibet, fattore che potrebbe tanto rafforzare la posizione dominante della Cina su uno dei mercati più strategici nel nostro tempo, quanto far riaffiorare le tensioni con la vicina India.

Una maggiore presenza di attività antropiche sull’altopiano himalayano, infatti, sta già facendo ritornare alla luce le rivendicazioni territoriali dei diversi governi della regione. È il caso della contea tibetana di Lhunze, uno dei maggiori bacini di terre rare localizzati in un’area tuttora contestata dall’India e dove gli investimenti infrastrutturali sono più che raddoppiati tra il 2016 il 2019. L’escalation di un conflitto legata tanto alle nuove risorse minerarie potrebbe presto rappresentare solo l’anteprima di un più aspro scontro per le risorse idriche. Escludendo il Trattato delle acque dell’Indo firmato da India e Pakistan, non esiste alcun meccanismo regionale dedicato alla redistribuzione e ai diritti di utilizzo delle acque dei fiumi che attraversano più stati asiatici. 

La massiccia presenza di dighe cinesi a monte del Mekong è solo un esempio di quanto sia ancora considerata marginale l’emergenza idrica che, prima o poi, non sarà più solo un problema di pochi contadini. La sua marginalità, conclude il report, è anche dovuta al vuoto conoscitivo sugli ecosistemi oltre i dati: la dimensione umana, sottolinea il documento, è fondamentale per capire quali conseguenze e quali soluzioni si stanno mettendo in campo. Le popolazioni locali si stanno adattando, ma lo stanno facendo attraverso forme di sostegno e ridefinizione autonomi e su scala ridotta. Ma la crisi climatica è transfrontaliera, e i suoi effetti sulle già complesse relazioni tra gli attori della regione sono – ancora – tutte da vedere.

Vola il tessile del Sud-Est asiatico

Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata

Di Tommaso Magrini

La regione ASEAN sta emergendo come uno dei principali hub di prodotti tessili al mondo, un settore tradizionalmente dominato dalla Cina continentale e da altri operatori. Secondo il presidente dell’ASEAN Federation of Textile Industries (AFTEX), Albert Tan, che è anche vicepresidente del membro cambogiano dell’AFTEX Textile, Apparel, Footwear and Travel Goods Association in Cambodia (TAFTAC), ha evidenziato che nell’ultimo decennio il divario complessivo tra i costi di produzione, che comprendono principalmente materie prime, manodopera, logistica e conformità, e i prezzi FOB (free-on-board) e al dettaglio si è ridotto. Si aspetta che questa tendenza continui anche nel prossimo decennio. I partecipanti a un forum dedicato sul tema hanno stilato un elenco di progetti e piani di lavoro per i prossimi mesi sotto la presidenza della Cambogia, nel tentativo di consolidare il ruolo dell’AFTEX e stimolare la crescita delle industrie tessili e dell’abbigliamento regionali. La Cambogia ha guadagnato 1,395 miliardi di dollari dall’esportazione di “articoli di abbigliamento, a maglia o all’uncinetto” nei primi quattro mesi del 2023, con un calo del 28,49% su base annua e del 40,80% su base semestrale (rispetto al periodo luglio-ottobre 2022), secondo i dati provvisori delle Dogane.  Questa categoria di articoli ha rappresentato il 19,28% dei 7,234 miliardi di dollari di valore delle esportazioni totali di merci del Regno nei quattro mesi, rispetto al 25,64% e ai 7,606 miliardi di dollari del periodo gennaio-aprile 2022, nonché al 31,97% e ai 7,368 miliardi di dollari del periodo luglio-ottobre 2022. Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata. La Cina continentale, invece, ha esportato 86,46 miliardi di dollari nello stesso anno.

Il Presidente Pipan partecipa al Convegno “No time left”

Nella giornata di mercoledì 21 giugno 2023 l’Ambasciatore Michelangelo Pipan, Presidente dell’Associazione Italia ASEAN, ha preso parte ai lavori del convegno “NO TIME LEFT. Contro il consolidamento della dittatura in Birmania/Myanmar” organizzato dall’Associazione ITALIA BIRMANIA Insieme a CeSPI e BASE Italia. L’Ambasciatore Pipan, intervenendo insieme ad illustri ospiti internazionali, ha voluto sottolineare l’importanza della cooperazione internazionale per la risoluzione della crisi birmana e il raggiungimento della pace.

“L`ASEAN del 2045”

Cosa possiamo aspettarci dal futuro dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico

Il futuro aspetto dell’ Associazione per i Paesi del Sudest Asiatico (ASEAN) è stato discusso durante gli ultimi due summit del gruppo, tenutisi a Belitung e Labuan Bajo. Infatti, la visione della comunità per gli anni a venire non si limiterà al 2035, ma sarà estesa di dieci anni, fino al 2045. Ma di cosa si tratta di preciso?

Una task force lavorerà per elaborare e mettere a punto i dettagli di questa visione nei prossimi tre anni, ma ciò che è sicuro, hanno annunciato i leader, è che  la strategia sarà composta da un equilibrio tra pragmatismo e ambizione. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la stabilità e il progresso dell’ASEAN, pur rimanendo fedele alla sua identità. Inoltre, si intende porre una maggiore attenzione al benessere dei popoli dei Paesi membri, sottolineando il rafforzamento degli organi dell’Associazione e del segretariato con sede a Giacarta, garantendo le libertà fondamentali e i diritti umani e migliorando la vita di tutti i cittadini degli stati membri. Tra gli altri obiettivi, inoltre, viene sottolineato l’impegno a migliorare la capacità di affrontare le sfide esistenti ed emergenti, mantenendo la centralità dell’ASEAN. Ciò sarà ottenuto anche grazie alla partecipazione attiva dei cittadini, e saranno incoraggiati processi di consultazione “dal basso” (voluti in particolar modo  dall’Indonesia e dalle Filippine), che prevedono il coinvolgimento di organizzazioni della società civile nel processo decisionale.

Per quanto riguarda i Paesi membri, invece, si prevede un allargamento: entro il 2045 si prevede che l’ASEAN possa includere, potenzialmente, anche Timor Est e Papua Nuova Guinea. Il primo, diventato indipendente nel 2002, nonostante sia ampiamente considerato uno Stato del Sud-Est asiatico e geograficamente ne fece parte anche quando venne incorporato nell`Indonesia, non è ancora un membro a tutti gli effetti. A conferma di questa volontà, gli stati dell`ASEAN lo scorso novembre hanno votato a favore dell’adesione “in linea di principio” di Timor Est nell’Associazione. Per quanto riguarda Papua Nuova Guinea, l’isola è un osservatore del blocco regionale dal 1976, prima di qualsiasi altro membro non originario dell’ASEAN. I suoi leader hanno spinto per l’adesione a pieno titolo almeno dagli anni ’80, e il Paese sta lavorando intensamente per prepararsi all`integrazione.

E non si esclude che, se le dinamiche politiche più ampie lo giustificassero, potrebbero aggiungersi all` ASEAN anche membri della regione indo-pacifica. Ciò, tuttavia, richiederebbe un sostanziale aumento del budget. Attualmente ogni membro versa un contributo di pari importo, a differenza del modello dell’UE dove ogni stato contribuisce in base al proprio PIL. I membri dell’ASEAN intendono infatti mantenere il sistema corrente di contributi uguali e diritti di voto uguali.

Gli organi e le strutture chiave dell’ASEAN dovrebbero rimanere invariati nei prossimi decenni, preservando i principi consolidati nel tempo e sanciti dalla Dichiarazione di Bangkok del 1967. Questi principi includono la ricerca del consenso, la non interferenza negli affari interni e il rifiuto dell’uso della forza. 

Sarà interessante osservare come l`Associazione riuscirà a gestire le sfide e le opportunità degli anni a venire. Sicuramente, dinamiche demografiche e geopolitiche modificheranno il panorama in cui questi Paesi si inseriscono, ma l’organizzazione sembra determinata a  mantenere la stabilità e la centralità regionale, impegnandosi al contempo nel dialogo e nella cooperazione con le principali potenze mondiali.

L’ASEAN vuole dialogo

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso di Ng Eng Hen, Ministro della Difesa di Singapore, allo Shangri-La Dialogue 2023

L’aumento delle spese militari, il cambiamento delle alleanze militari e commerciali e le politiche economiche di fatto nativiste sono forti venti di cambiamento. Come possiamo resistere alle tempeste che verranno? Per l’Asia e la più ampia regione indo-pacifica, le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono fondamentali per la stabilità. Questo è il nucleo, ma anche la penombra delle relazioni di altri Paesi al di fuori di questo nucleo è importante per la stabilità. Nessun Paese, credo, vuole la guerra, ma le nostre ipotesi di lavoro e i nostri scenari devono prevedere che possano verificarsi incidenti non pianificati. Devono esistere canali di comunicazione, sia formali che informali, in modo che quando si verificano questi incidenti non pianificati, tali canali possano essere utilizzati per una de-escalation ed evitare il conflitto. Nonostante la guerra fredda, nel 1972 Breznev e Nixon firmarono i trattati sulla limitazione degli armamenti strategici e sui missili anti-balistici. Il punto saliente è che tali canali di comunicazione devono essere costruiti nel tempo. Sarà troppo tardi per avviarli o attivarli solo in momenti di crisi. Diplomatici esperti paragonano sfavorevolmente le linee di comunicazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda con quelle che esistono oggi tra gli Stati Uniti e la Cina, ormai al collasso. Non è nostro compito e certamente non è mia intenzione commentare gli sforzi diplomatici di altri Paesi, ma espongo queste osservazioni sui punti di contatto in declino tra le strutture militari americane e cinesi sapendo bene che Singapore e altri Stati dell’ASEAN non sono spettatori disinteressati.  Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno dichiarato di non volere che i Paesi dell’ASEAN si schierino, ma gli Stati membri dell’ASEAN, con un vivido ricordo della rivalità tra grandi potenze nel nostro passato e delle devastanti conseguenze, sono fortemente preoccupati che il peggioramento delle relazioni tra queste due potenze, Stati Uniti e Cina, costringerà inevitabilmente a scelte difficili i nostri singoli Stati. Per l’ASEAN, sia attraverso i legami bilaterali e i singoli Stati membri, sia collettivamente con gli Stati Uniti e la Cina attraverso l’ADMM-Plus, abbiamo cercato l’inclusione e l’impegno come piattaforme chiave per la prelazione e la costruzione della fiducia. Nell’ambito dell’ADMM, continuiamo a portare avanti esercitazioni multilaterali che coinvolgono tutti i nostri oltre otto partner. Queste interazioni rafforzano la cooperazione pratica, come il Codice per gli incontri imprevisti in mare (CUES), per ridurre il rischio di incidenti e di errori di calcolo. Al centro dei nostri impegni, come pienamente esemplificato nello Shangri-La Dialogue, c’è il desiderio di cercare la pace, anche se noi capi della sicurezza rafforziamo i nostri eserciti per proteggere le nostre singole nazioni. A volte i progressi sembrano dolorosamente lenti, ma è nostro dovere nei confronti dei nostri cittadini e della prossima generazione persistere e fare progressi.

Leggi il discorso completo qui

La nuova “corsa allo spazio” del Sud-Est Asiatico

Turismo, comunicazioni e difesa sono le nuove frontiere della tecnologia spaziale

Articolo di Tommaso Magrini

Turismo spaziale e tecnologia satellitare sono il futuro del Sud-Est Asiatico. Thailandia e Vietnam si sono infatti lanciate in una nuova “corsa allo spazio” che proietterà la Regione al centro delle dinamiche dello sviluppo del settore. 

La Geo-Informatics and Space Technology Development Agency tailandese si prepara a mettere in orbita nel mese di agosto un satellite industriale, sviluppato con il sostegno del Regno Unito. Entro i prossimi cinque anni, inoltre, il Paese del Sud-Est Asiatico è intenzionato a lanciare altri due o tre satelliti interamente home made.

Si tratta di progetti molto ambiziosi quanto importanti per lo sviluppo tecnologico della Thailandia, dal momento che l’impiego di satelliti sviluppati nazionalmente offrirebbe al Paese più ampia libertà nel raccogliere e gestire dati scientifici, che nel caso di Bangkok verrebbero utilizzati per veicolare il settore agricolo verso un approccio più tecnologico e funzionale.

In più il Paese sta valutando la possibilità di costruire un proprio sito di lancio. Se il budget a disposizione e lo sviluppo tecnologico lo consentiranno, la struttura potrebbe essere costruita in meno di dieci anni. Intanto la previsione del governo è che l’economia spaziale sia destinata a crescere di circa 9 miliardi di dollari entro il 2030, diventando una delle industrie di punta del Paese.

La Thailandia inoltre sta valutando l’impiego della tecnologia spaziale per scopi di difesa. Inoltre, sta considerando di vietare i siti di produzione per satelliti militari stranieri e relative apparecchiature nel territorio nazionale.

Ma la Thailandia non è l’unica nazione del Sud-Est Asiatico con ambizioni spaziali. Anche Hanoi si sta muovendo nella stessa direzione, avendo approvato un piano per la costruzione di uno spazioporto turistico entro il 2026. Un progetto da 30 trilioni di dong, secondo i media locali, all’incirca 1,3 miliardi di dollari. La struttura sarà costruita sull’isola di Phu Quoc, già famosissima destinazione turistica, e il primo lancio è previsto per il 2030.

Thailandia e Vietnam sono quindi in concorrenza con i due giganti dello spazio: Cina e Stati Uniti. Ma non partono affatto svantaggiati. I Paesi del Sud-Est Asiatico hanno infatti un vantaggio geografico non indifferente: la posizione vicino all’equatore permette di usare un minore quantitativo di energia per il singolo lancio, abbattendo di conseguenza i costi.

Anche le Filippine non si sono lasciate sfuggire la ghiotta occasione e hanno firmato un accordo con SpaceX, l’azienda di Elon Musk, per la fornitura dei servizi internet di Starlink. L’azienda, infatti, spera di migliorare le comunicazioni e il transito di dati nelle zone montuose e più remote dell’arcipelago, soprattutto per facilitare le operazioni di soccorso in caso di necessità. L’aumento di condizioni climatiche estreme ha infatti incrementato l’interesse per il business dei satelliti, essendo il Sud-Est Asiatico una delle aree più colpite dal cambiamento climatico, con inondazioni e prolungati periodi di siccità che si verificano su larga scala. In questo senso i sistemi di monitoraggio dei satelliti potrebbero aiutare a mitigare le conseguenze di tali fenomeni.

Shangri-La Dialogue, l’ASEAN chiede pace

Durante il summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico di Singapore, è stata ribadita la centralità dell’ASEAN, i cui Paesi chiedono maggiore dialogo a livello internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

“Il Sud-Est asiatico ha pagato più di altri le devastanti conseguenze dello scontro tra grani potenze. Non vogliamo che questo accada di nuovo”. Ng Eng Hen, il ministro della Difesa di Singapore, lo dice chiaramente nel suo discorso durante l’ultima sessione plenaria dello Shangri-La Dialogue, il massimo summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico che si è svolto nella città-stato dal 2 al 4 giugno. Singapore e in generale l’area ASEAN si conferma ancora una volta cruciale crocevia della diplomazia globale. In un momento a dir poco complicato, tra guerra in Ucraina e le tensioni tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est fa sentire la sua voce chiedendo saggezza ai leader mondiali. “Le spese militari stanno aumentando in modo esponenziale anche in Asia-Pacifico”, dice il ministro di Singapore. “Non è una fonte di instabilità in sé, ma in assenza di un dialogo adeguato tra le potenze allora rischia di portare a una corsa al riarmo che può destabilizzare l’intera regione”. Durante gli incontri, a cui hanno partecipato anche il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, e il ministro della Difesa cinese, Li Shangfu, è stata menzionata più volta la “centralità dell’ASEAN” e la bontà della sua ASEAN way. E tutti i rappresentanti dei Paesi del Sud-Est asiatico hanno sottolineato la loro volontà di mantenere i rapporti sia con Washington sia con Pechino, promuovendo un multilateralismo basato su commercio e regole internazionali. Ma anche e soprattutto sul dialogo. “Sia Austin sia Li hanno garantito che Stati Uniti e Cina non chiedono ai Paesi ASEAN di scegliere da che parte stare, ma noi auspichiamo anche che questi due Paesi possano tornare a parlare tra loro”, ha detto Ng Eng Hen. “Entrambi sono da tempo in Asia-Pacifico ed entrambi non se ne andranno. Bisogna trovare o ritrovare il modo per garantire stabilità e sicurezza alla regione”. Lo stesso concetto espresso anche dall’IISS, l’istituto internazionale che organizza da 20 anni lo Shangri-La Dialogue a Singapore, dove si sono peraltro incontrati a porte chiuse anche i capi dell’intelligence di diversi Paesi, Stati Uniti e Cina compresi. A riprova, ancora una volta, di come Singapore e il Sud-Est garantiscano una eccezionale piattaforma di confronto. Se il futuro del mondo si scriverà (anche o soprattutto) in questa regione, forse sarebbe il caso di ascoltarla.

‘In quale porto dirigersi’: geografia ed economia dei porti ASEAN

Il mare è il luogo naturale della globalizzazione. La maggioranza delle merci si sposta via mare. L’efficienza nel muovere i container, unita a una posizione strategica e ai rapporti economico-politici, fa la fortuna dei porti dell’Asia orientale. Tra i 50 porti più attivi al mondo, nove sono nell’ASEAN e 18 in Cina.

Per chi non sa in quale porto dirigersi, nessun vento va bene. Anche se questa massima di Seneca proviene da una “epistola morale”, potremmo restituire la metafora al suo contesto di partenza – la navigazione – e trarne un nuovo, attuale, insegnamento. Il commercio marittimo globale risponde oggi a logiche in parte diverse da quelle dei tempi del Mare Nostrum romano. Se, da un lato, le condizioni ambientali (vento, correnti, distanza del viaggio in mare) influenzano meno le colossali navi portacontainer, la scelta del porto di approdo rimane essenziale per chi deve disegnare le rotte commerciali. Il mare è ancora la principale via di scambio delle merci: secondo i dati dell’UE, più del 50% del suo commercio esterno si è spostato via nave nel 2021. Un altro dato interessante è che, nella classifica dei primi 50 porti del mondo, 18 sono cinesi (il primo è Shanghai e altri sei porti cinesi occupano la top ten), nove sono nei Paesi ASEAN (il secondo a livello mondiale è Singapore) e sette sono europei.

Non è una sorpresa che i porti asiatici siano così numerosi nella classifica. Il titolo di ‘fabbrica del mondo’ può essere riconosciuto ormai non solo alla Cina, ma a buona parte del continente. Il dragone è affiancato da un sempre più numeroso gruppo di tigri. Secondo l’UNCTAD, nel 2021 i porti asiatici hanno scaricato e caricato, rispettivamente, il 64% e il 42% di tutte le merci mondiali per tonnellata. È interessante osservare che in Asia, così come in Europa (Russia inclusa), le merci scaricate (quindi importate) sono più di quelle caricate. Tale dato va accompagnato a un’altra recente tendenza del commercio via nave. Nel 2015, i paesi in via di sviluppo asiatici esportavano più tonnellate di merci di quante ne importavano, mentre il contrario avveniva nei paesi sviluppati. I dati del 2021 dimostrano che tale rapporto si è invertito. Sempre secondo l’UNCTAD, tale cambiamento può spiegarsi alla luce del fatto che i mercantili traportano sempre più dry cargo (ossia colli ‘secchi’ nei container) al posto di tanker cargo (ossia merci ‘in cisterna’, come prodotti petroliferi raffinati, chimici e gas). Se, negli anni Settanta, più della metà delle stive era occupata da tanker cargo, quindi in buona parte da materie prime e prodotti a bassa elaborazione, oggi tre quarti dei carichi è occupata da dry cargo, una categoria molto più vasta che include, tra le altre cose: minerali, componentistica, macchinari avanzati, prodotti di consumo…

Le economie asiatiche ed europee, dunque, sono affamate di prodotti per il proprio consumo interno e, soprattutto, per trasformarli in altri, più avanzati, beni da rivendere in altri mercati. Nell’ASEAN, Singapore spicca come grande porto mondiale, seguendo un destino già tracciato durante la dominazione coloniale britannica. Nel 1819, Sir Thomas Stamford Raffles acquistò l’isola dal Sultano di Johore per fondare un insediamento e competere, da una posizione strategica, con il vicino porto di Malacca, sotto il controllo neerlandese, per i traffici degli Stretti. Poco dopo l’acquisto, Raffles scrisse: “Singapore è un porto libero, aperto alle navi e ai vascelli di ogni nazione, senza distinzioni”. Raffles è ricordato positivamente nella Città del Leone ed è considerato il fondatore della moderna Singapore più che un colonizzatore. Oltre a determinare la vocazione commerciale della futura città-stato, a lui si deve il primo piano urbanistico e infrastrutturale per aprire l’isola al commercio internazionale. L’intuizione di Raffles e dei britannici, sul cui solco si è mosso anche Lee Kuan Yew, primo leader della Singapore indipendente, e la posizione strategica dell’isola rappresentano le radici del successo di questo porto. Sono però le scelte industriali più recenti ad aver consolidato la sua fortuna: l’infrastruttura portuale continua ad essere ingrandita e modernizzata. Nei prossimi due decenni, proseguiranno i lavori per l’espansione del ‘megaporto’ Tuas, seguendo un progetto in quattro fasi. Solo la prima fase, conclusasi nel 2021, è costata 1.76 miliardi di dollari. Il porto può anche contare su una efficace governance basata sulla collaborazione tra Governo e privati e sulla fitta rete di accordi di libero scambio conclusi da Singapore, tra cui uno con l’UE.

Nella classifica dei 50 principali porti mondiali figurano poi i malesi Port Klang (12° posto) e Tanjung Pelepas (19°), entrambi sullo Stretto di Malacca. Seguono il porto thailandese di Laem Chabang (20°) e quello di Giacarta, Tanjung Priok (23°). In Vietnam, la regione di Ho Chi Minh è servita dal porto della città sulla foce del Mekong (26°) e da quello di Cai Mep (50°), mentre il distretto industriale di Hanoi si appoggia al porto di Hai Phong (33°). La capitale filippina Manila è invece al 31° posto. La principale ragione del successo dei porti dell’ASEAN e del resto dell’Asia orientale è da ricercarsi nell’efficienza con cui le infrastrutture portuali riescono a caricare e scaricare i container dalle navi per trasferirli su un’altra imbarcazione o su un altro mezzo di trasporto, come emerge dal Global Container Port Performance Index (CPPI) curato dalla Banca Mondiale. L’efficienza logistica può rendere un porto un grande hub dei flussi commerciali anche se l’economia del suo ‘entroterra’ ricopre un ruolo relativamente piccolo nell’economia o nella manifattura (si pensi a Singapore) globali. Viceversa, le aziende potrebbero far circolare le proprie merci attraverso i porti di un altro Paese se quelli più vicini geograficamente non sono altrettanto puntuali e affidabili per tempistiche. In conclusione, sembra quasi che “sapere in quale porto dirigersi” sia più importante di avere il “vento a favore”, ossia raggiungere il porto più vicino. Alla luce di questa riflessione, possiamo leggere anche i dati sui porti UE. Nella classifica mondiale, spiccano i tre porti di Rotterdam (10° posto), Anversa (14°) e Amburgo (18°), tutti e tre sul Mare del Nord e collocati su un fiume. Queste tre città rappresentano la principale via di scambio tra la “banana blu” europea e il resto del mondo. Oltre all’efficienza, un fattore che influisce sempre più nella scelta del porto da parte delle aziende è la sostenibilità: ridurre le emissioni prodotte dal trasporto è un passo necessario per raggiungere la neutralità carbonica della catena di approvvigionamento. Anversa, ad esempio, è un “porto sostenibile” riconosciuto a livello internazionale. E nel Mediterraneo? Nella classifica compaiono dei casi interessanti come il Pireo di Atene (28° posto) e le città spagnole di Valencia (30°) e Algeciras (34°). Il Pireo deve la sua importanza agli scambi con l’Asia ed è al centro di una delicata questione politica dato che, nei piani della Cina, dovrebbe diventare il punto di attracco in Europa per la sua Belt and Road Initiative. Algeciras invece, oltre alla posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, può vantare di essere il primo porto europeo per efficienza nella già menzionata classifica CPPI della Banca Mondiale. I porti italiani e francesi sono invece assenti dalla top 50. Nonostante il Mediterraneo sia ancora al centro dei traffici marittimi globali, i porti italiani dovrebbero modernizzare le loro infrastrutture e rafforzarsi sul piano logistico per poter competere con gli altri porti mondiali.