Asean

La water governance nei Paesi ASEAN

Articolo a cura di Sabrina Moles

Dal clima estremo all’economia, dalla sicurezza umana ai rapporti di vicinato. Le sfide sulla gestione idrica avvicinano i dieci paesi del Sud-est asiatico

Non c’è vita senza acqua. Oggi più che mai la gestione delle risorse idriche è uno dei temi più delicati per il Sud-est asiatico, dove nuove e vecchie sfide minacciano un panorama già molto complesso nel quale sono coinvolti i settori più svariati dell’economia, ma anche salute, politica e tutela dell’ambiente. L’ASEAN ospita Paesi dove il tema della gestione delle risorse idriche è critico e minacciato dai cambiamenti climatici, mentre alcuni stati membri hanno sviluppato da tempo le capacità tecniche e logistiche per affrontare i problemi legati al settore idrico. Proprio perché la gestione dell’acqua richiede di spaziare in ambiti molto diversi tra loro, ma interconnessi ed essenziali allo sviluppo, ecco che la chiave della cooperazione diventa uno dei punti di forza del gruppo. Ma la strada è ancora lunga.

Innanzitutto, l’emergenza pandemica ha riportato in primo piano la sicurezza idrica in chiave sanitaria, come sottolinea il report OCSE su gestione, accesso e sicurezza alle fonti idriche. Nel 2012, la Dichiarazione sui diritti umani dell’ASEAN garantiva esplicitamente “il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari”, ma il bilancio del 2021 dimostra che solo pochi Stati membri includono il diritto all’acqua nella loro legislazione e hanno saputo implementare dei progetti veramente inclusivi. In molte aree del Sud-est asiatico la fornitura di servizi idrici è inadeguata e diseguale, con disparità di accesso tra aree urbane e rurali. Si calcola che almeno 1,7 miliardo di persone in Asia non abbiano accesso a servizi igienico-sanitari di base, mentre nel solo Sud-est asiatico si stimano livelli di acque contaminate e inadatte al consumo umano che oscillano tra il 68% e l’84%.

L’accesso a risorse idriche sicure è anche un problema socioeconomico, con le fasce più deboli della popolazione che vengono penalizzate. La privatizzazione dell’acqua ha, in alcuni casi, contribuito a una scarsa copertura e a prezzi elevati. Un esempio è quello dell’Indonesia dove, dal 1997, le società britanniche e francesi Thames Water e Suez hanno firmato un contratto di partenariato pubblico-privato di 25 anni per l’approvvigionamento idrico della capitale, Giacarta. Allora, solo il 42% dei suoi residenti aveva accesso all’acqua in casa, mentre molti cittadini facevano ancora affidamento sull’acqua in bottiglia o sulle acque sotterranee (curiosamente, uno dei motivi principali per cui la città sta affondando). Il progetto prometteva che entro il 2017 si sarebbe arrivati a toccare il 98% di copertura ma, nel 2020, solo il 59,4% degli abitanti poteva usufruire di acqua pulita fornita dall’acquedotto pubblico. O, meglio, poteva permettersi di accedervi. Non è un’eccezione. In gran parte del Sud-est asiatico i servizi igienico-sanitari sono sottofinanziati e distribuiti in modo diseguale, nonostante l’accesso all’acqua sicura sia in aumento in tutti i Paesi ASEAN, con ancora Cambogia (65%) e Laos (77,5%) tra i più penalizzati.

Un altro elemento sempre più importante in un’ottica di gestione delle risorse idriche è l’energia. La regione del Mekong, in particolare, offre enormi opportunità per la costruzione di dighe e centrali idroelettriche. Occasioni che sono state colte soprattutto dagli investitori cinesi, ma non solo. Gli spazi di collaborazione in ottica ASEAN vengono promossi soprattutto dal Vietnam. Sono tanti i meccanismi multilaterali emersi negli anni per discutere, studiare e implementare progetti intorno alla gestione delle acque del Mekong, come nel caso della Mekong River Commission (MRC). In questo senso, l’energia è solo uno degli elementi di maggiore interesse per i paesi dall’area, in quanto potenziale motore di sviluppo per le aree più depresse. Tra i compiti della MRC, infatti, rientra la stesura di piani decennali o quinquennali sui diversi ambiti di utilizzo delle risorse idriche presenti. Secondo le stime, la domanda energetica a valle del Mekong crescerà a ritmi del 6-7% annuo: una proiezione che ha stimolato la conversione delle acque del fiume in energia idroelettrica, per un totale di 89 progetti completati e altri 30 ancora in fase progettuale.

Il fatto che le sorgenti del Mekong si trovino in territorio cinese ha spesso generato frizioni e fornito ai Paesi ASEAN motivo di coesione. Tra le strutture più controverse figura la diga di Jinghong nella provincia dello Yunnan, che a tempi alterni funge da “rubinetto” per i Paesi più a sud. L’ultimo caso risale a luglio, periodo particolarmente anomalo per le precipitazioni in Cina, quando dei “danni provocati alla struttura” hanno ridotto drasticamente l’apporto di acqua lungo il bacino inferiore del Mekong. Di conseguenza, ogni intervento di Pechino sulle acque del Mekong può avere un impatto enorme sulla catena di approvvigionamento dell’intero settore meridionale.

È anche, e soprattutto, un problema di instabilità climatica che già oggi estremizza l’impatto dei periodi di piena e di secca dei fiumi del Sud-est asiatico. In tutta la regione almeno il 34% della popolazione è frequentemente esposto alle alluvioni, mentre la siccità da 30 anni colpisce oltre 66 milioni di persone. In un report prodotto da ASEAN ed ESCAP (United Nations economic and social commission for Asia and the pacific) si parla di fenomeni in notevole aumento (+17%), e di come 4 danni economici su 5 vadano a colpire l’agricoltura. Da ciò ne deriva che le fasce più deboli della popolazione sono tra le più penalizzate, e vengono esposte all’insicurezza alimentare determinata dalla distruzione delle colture. Questo è un fattore molto importante, poiché l’economia dei dieci Paesi dipende in gran parte dal settore agricolo. Ben il 61% della manodopera in Laos è impiegata in questo settore, e rimane stabile al 47% in Vietnam, dove una grave siccità nel 2016 ha portato alla perdita di oltre il 60% delle entrate.

La gestione delle risorse idriche rappresenta quindi un fattore essenziale in molti ambiti: da questo ne deriva che i problemi legati all’approvvigionamento di acqua sicura ed accessibile possono diventare un acceleratore di conflitti sia a livello domestico che di vicinato. Si stima che al mondo l’80% dei conflitti avvenga proprio in aree dove il livello di degrado ambientale e gli effetti dei cambiamenti climatici sono più accentuati. Il tutto si interseca anche con i rischi legati alla perdita della biodiversità.

Con l’aggravarsi dei fenomeni climatici estremi e la riduzione delle risorse idriche nella regione, i dieci Paesi ASEAN hanno iniziato a puntare sulla cooperazione regionale per creare ambienti, economie e sistemi di approvvigionamento resilienti. Tra le soluzioni proposte dal gruppo emerge la consapevolezza che l’intervento ex post non sia più sufficiente. Nelle intenzioni la priorità dovrebbe essere data alla prevenzione, come il monitoraggio dell’andamento del clima e dei cambiamenti nel territorio, in modo da implementare un sistema di allarme prima che i fenomeni si trasformino in problemi irreparabili. Ciò dovrebbe portare alla creazione di meccanismi di intervento sia tecnico che di supporto finanziario alle categorie più a rischio, in particolare i piccoli imprenditori agricoli e i lavoratori del settore primario. Alcuni esempi sono la strategia di gestione della siccità 2020-2025 promossa dalla MRC con il sostegno di ASEAN e Nazioni Unite.

La chiave di questi piani di assorbimento e prevenzione del rischio ha portato a discutere su soluzioni finanziarie in grado di preventivare l’entità dei danni e il modo in cui distribuire gli aiuti. Tra gli obiettivi che emergono, spiccano la mitigazione dei cambiamenti climatici e l’accesso universale all’acqua come punti di partenza per ragionare a nuovi piani di gestione e sfruttamento delle risorse idriche a livello regionale. Il problema in questo senso non è tanto rappresentato dalla mancanza di fondi (che spesso fanno parte di pacchetti di aiuti promossi dalle organizzazioni internazionali), quanto dalla oculata gestione degli stessi per portare a termine progetti in grado di essere prima di tutto economicamente e strutturalmente sostenibili nel tempo.

Infine, la sfida sarà portare avanti il discorso sulla cooperazione in ottica di gestione delle risorse idriche, con uno sguardo privilegiato a quella parte di Asia in via di sviluppo che oggi, in gran parte, appartiene al gruppo ASEAN. In questo scenario la gestione delle acque, data la complessità di settori che coinvolge, è minacciata da nuove sfide. In particolare, al centro del dibattito saranno sempre più centrali la crisi sanitaria, il calo della crescita del Pil (sceso a una previsione del 4,3% per il secondo semestre 2021 nelle cinque economie più sviluppate del gruppo rispetto ad aprile dello stesso anno) e l’esacerbarsi dei fenomeni climatici estremi che stanno stravolgendo gli ecosistemi.

La Corea del Sud rilancia il commercio con l’ASEAN

A pochi mesi dalle presidenziali del 2022, Moon Jae-in rilancia le relazioni commerciali con le economie ASEAN. Tra sfide economiche e diplomatiche, il governo di Seul cerca di onorare gli impegni presi a inizio mandato

La Corea del Sud ha avviato i colloqui per rilanciare le relazioni commerciali con l’ASEAN. Al momento del suo insediamento, l’esecutivo di Moon Jae-in si era impegnato a sviluppare il potenziale diplomatico del Paese, promuovendo relazioni solidali e cooperative col vicinato asiatico. Negli ultimi mesi di mandato prima delle presidenziali del 2022, sembra si stia dedicando a onorare questo impegno, come dimostrano i recenti contatti diplomatici con la Corea del Nord e le dichiarazioni circa la volontà di aggiornare l’accordo di libero scambio con le economie ASEAN.

L’accordo per liberalizzare il commercio con il Sud-Est asiatico è stato siglato nel 2007, e oggi l’ASEAN è uno dei principali partner commerciali della Corea del Sud – secondo solo alla Cina. Il commercio bilaterale con Pechino ammontava a 241,4 miliardi di dollari circa nel 2020, e rappresentava il 24,6% del commercio tra la Corea del Sud e il resto del mondo. L’ASEAN, d’altro canto, si è ritagliata il suo 14,6%, nonostante una crisi sanitaria globale e la recessione che l’ha accompagnata. Dal 2006 al 2019 il volume degli scambi tra le parti è cresciuto del 60% circa, essendo passato da 61,7 a 151,2 miliardi di dollari, secondo il database dell’International Trade Center. Quando il commercio globale si è contratto a causa della pandemia da Covid-19, il volume delle transizioni tra i due Paesi è sceso a 143,8 miliardi nel 2020. Nonostante questo, l’ASEAN resta un partner economico significativo, di cui il Vietnam è il fiore all’occhiello: con 69,1 miliardi di dollari, Hanoi rappresenta il 28,4% del totale dell’interscambio bilaterale.

Il vettore dei rapporti commerciali con i Paesi del Sud-Est asiatico è la “New Southern Policy”, lanciata ufficialmente da Seul nel novembre 2017. “Il governo coreano spingerà con forza la sua New Southern Policy per ottenere decisivi progressi nei suoi legami di cooperazione con l’ASEAN” aveva detto il Presidente Moon Jae-in, in occasione del Korea-Indonesia Business Forum nel 2017, “È mio desiderio che la Nuova Politica del Sud possa realizzare una comunità per le persone, che unisca le persone alle persone e le menti alle menti; una comunità pacifica, che contribuisce alla pace in tutta l’Asia; una comunità di prosperità condivisa in cui i paesi dell’ASEAN crescano insieme attraverso una cooperazione economica reciprocamente vantaggiosa”. Nell’alveo di questo rinnovato approccio cooperativo con il Sud-Est asiatico si inserisce anche la volontà di approfondire le relazioni commerciali con i Paesi della regione. La Corea del Sud aveva concordato con l’ASEAN una riduzione ulteriore delle rispettive barriere tariffarie nel 2016, ma l’aggiornamento dell’accordo di libero scambio è passato poi in secondo piano rispetto alla Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che è stata finalmente siglata a fine 2020.

Purtroppo per il governo coreano, nonostante gli sforzi per rafforzare la cooperazione, su commercio e  investimenti in area ASEAN Seul è ancora in ritardo rispetto a Pechino e Taipei. “In mezzo all’intensificarsi dell’attrito commerciale tra Stati Uniti e Cina, le nazioni dell’ASEAN sono emerse come un mercato alternativo” ha affermato Kim Bong-man, capo della divisione per gli affari internazionali della Federation of Korean Industries. “Per ampliare i legami commerciali della nazione con il mercato dell’ASEAN, l’Assemblea nazionale dovrebbe ratificare una serie di accordi commerciali”, ha proseguito, “compreso il partenariato economico globale con l’Indonesia e un accordo bilaterale di libero scambio con la Cambogia”.Il rinnovato attivismo diplomatico del governo di Seul, che di recente ha celebrato il possibile riavvicinamento alla Corea del Nord con il ripristino della linea di comunicazione interrotta un anno fa, si rivolge anche al Sud-Est asiatico. A pochi mesi dal termine del suo mandato, tra gli sforzi di riprendere l’economia nazionale e le sfide geopolitiche poste dalle tensioni sino-statunitensi, Moon Jae-in sembra voler onorare gli impegni presi al tempo del suo insediamento. “Non è cercando di superare da soli le sfide, ma anzi la solidarietà e la cooperazione che ci renderanno più forti nel superare la pandemia. Abbracciamo questo riconoscimento e sforziamoci di renderlo una realtà” ha detto il Presidente a Davos, nel gennaio scorso. I progetti di diversificazione economica promossi da Seul per svincolarsi dall’eccessiva dipendenza economica da Pechino sembrano conciliarsi con il fervore  della diplomazia post-Covid-19.

Nella corsa al 5G, l’ASEAN sceglie la via del pragmatismo

Articolo a cura di Michelle Cabula

L’ASEAN ospita una serie di progetti pionieristici che le sono valsi la fama di “laboratorio globale dell’innovazione digitale”. Qui le ambizioni nazionali si intrecciano con le logiche della competizione tecnologica USA-Cina, ma i governi guardano ai costi e all’efficienza per scegliere i partner con cui progettare i propri sistemi nazionali delle telecomunicazioni. 

Nel Sud-Est asiatico, la pandemia non è bastata a fermare la corsa al 5G. Anzi, il Covid-19 ha reso evidente come l’accesso ad una connessione veloce e stabile sia diventato imprescindibile per svolgere la maggior parte delle attività quotidiane, mettendo così in luce l’urgenza di sviluppare infrastrutture che possano reggere l’accelerata digitalizzazione. 

In Thailandia, Advanced Info Service (AIS) e True Corp., i principali operatori telefonici del Paese, collaborano con le strutture sanitarie garantendo loro accesso alla copertura 5G, indispensabile per poter beneficiare al massimo di alcune innovative soluzioni di robotica e telemedicina. Al Chulabhorn Hospital, che si avvia a diventare il primo ospedale del paese a fornire un servizio di assistenza medica completo che integri le tecnologie 5G in tutte le sue dimensioni, i robot affiancano il personale sanitario e i referti di una TAC al torace vengono consegnati nel giro di mezzo minuto. In linea con l’obiettivo di raggiungere una copertura 5G totale entro il 2025, Singapore si sta attivando per supportare la ricerca sull’intelligenza artificiale e la cybersecurity con un piano di investimenti da 50 milioni di dollari, secondo quanto annunciato dal Vice Primo Ministro Heng Swee Keat il 13 luglio. In generale, la visione espressa nell’ASEAN Digital Masterplan 2025 adottato all’inizio di quest’anno dimostra come il completamento della transizione verso delle comunità e delle economie digitali, con un occhio alla sicurezza e all’inclusività delle tecnologie, rappresenti un’ambizione condivisa da tutti i governi dell’area.

Si prevede che il mercato digitale ASEAN, che cresce ad una velocità senza eguali nel mondo, apporterà un valore aggiunto di circa un triliardo di dollari al PIL regionale nel giro dei prossimi dieci anni. Un potenziale che non lascia indifferenti Cina e Stati Uniti, campioni globali del settore delle telecomunicazioni, le cui tensioni politiche e commerciali si riversano nel Sud-Est asiatico innescando una corsa alla fornitura di connessione Internet e servizi 5G. Nel contesto ASEAN, le pressioni geopolitiche hanno però prodotto risultati diversi che altrove. Generalmente, i governi si sono approcciati in maniera pragmatica alla questione della scelta dei fornitori, evitando di schierarsi apertamente a favore di una delle due superpotenze tecnologiche in competizione. Nonostante le spinte di Washington sui suoi principali partner nell’area, nessun Paese ha optato per una totale rinuncia alle attrezzature di rete dei due produttori cinesi ZTE e Huawei all’interno delle proprie strategie nazionali. Eccezione va fatta per il Vietnam, dove i sentimenti anti-cinesi hanno prevalso e le tecnologie di Pechino sono attualmente bandite, quantomeno de facto.

In generale, però, i provider cinesi possono vantare una serie di collaborazioni nell’area. A maggio 2019, negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti decidevano di inserire Huawei nella lista nera del commercio, la cinese ZTE firmava un Memorandum of Understanding con Ooredoo Myanmar per collaborare allo sviluppo del 5G. Inoltre, la Huawei Asean Academy contribuirà a fornire a 30.000 lavoratori thailandesi percorsi di formazione mirati allo sviluppo delle competenze digitali funzionali a sostenere il progetto infrastrutturale dell’Eastern Economic Corridor. Huawei Technologies figura anche tra i partner impegnati nella progettazione di un 5G Cybersecurity Test Lab in Malesia, nonché nello sviluppo di Forest City, la prima smart city costruita su quattro isole artificiali all’interno della zona economica speciale Malesia Iskandar, collocata lungo una delle rotte delle Belt and Road Initiative.

Lo stesso governo malese ha deciso però di diversificare per quanto riguarda la rete 5G nazionale. Il primo luglio è stata ufficializzata la scelta della svedese Ericsson (tra gli otto fornitori, tra cui la cinese Huawei, che avevano partecipato alla gara d’appalto) come destinataria del contratto da 2,6 miliardi di dollari pensato per garantire una connessione di quinta generazione all’80% della popolazione entro il 2024. Il panorama delle licenze 5G nei diversi paesi resta infatti piuttosto variegato. A Singapore la costruzione della rete 5G è stata affidata ad una composita partnership tra Singtel, la joint venture Starhub-M1 ed Ericsson e Nokia. Anche in questo caso, più che al desiderio di sposare la campagna anti-cinese promossa da Washington, la decisione sembra essere dettata da considerazioni pratiche, quali la compatibilità tra gli hardware 4G utilizzati in precedenza e quelli di nuova generazione. Particolare il caso delle Filippine: il principale fornitore di servizi di telecomunicazioni (DITO) è in realtà un consorzio che include Udenna Corporation a fianco di China Telecom e, ciononostante, usufruisce di alcune soluzioni di Nokia NetAct fornite dall’azienda finlandese per la gestione delle operazioni di rete quotidiane, incluse il monitoraggio e la gestione dei software.Se da un lato la scelta dei governi è limitata dall’assenza di alternative competitive all’offerta cinese e dalla necessità di mantenere contemporaneamente buone relazioni con entrambe le superpotenze tecnologiche, dall’altro i Paesi ASEAN si dimostrano degli attori chiave nella ricerca di un equilibrio tra l’influenza statunitense e quella cinese. In un contesto in cui le ambizioni tecnologiche si realizzano attraverso cooperazioni pragmatiche che superano gli schieramenti geopolitici, si prova a tenere a freno la logica di escalation commerciale portata avanti da Pechino e Washington.

Editoriale | USA-Cina, a Sud-Est la sfida è (anche) digitale

Non solo geopolitica, in area ASEAN i colossi di Washington e Pechino si contendono un mercato in forte crescita

Editoriale di Lorenzo Lamperti, Coord. Redazione Associazione Italia-ASEAN

Mar Cinese meridionale, relazioni diplomatiche, strategia e geopolitica. Tutto vero, ma la rivalità tra Stati Uniti e Cina nel Sud-Est asiatico riguarda anche temi prettamente economici. In particolare, quella tra i giganti tecnologici dei due Paesi. Sì, perché il mercato digitale dell’area ASEAN sta vivendo una fortissima crescita, resa ancora più imponente e rapida dalla pandemia di Covid-19. Non è un caso che nell’area stiano investendo un po’ tutti i big: Amazon, Facebook, Google e Microsoft da una parte, Alibaba e Tencent dall’altra. Per esempio, come sottolinea il Nikkei Asian Review, sul cloud computing: Singapore è una delle principali sedi di data center a livello mondiale. L’azienda di Mark Zuckerberg ne sta costruendo uno, il suo primo in Asia, da 170 mila metri quadrati nella città-stato per un totale di circa un miliardo di dollari di investimento.

Non è certo l’unico caso. Amazon aprirà un nuovo centro a Giacarta entro l’inizio del 2022. Microsoft ha annunciato due impianti in Indonesia e in Malesia. Gli attori cinesi non stanno certo a guardare. Alibaba ha già tre data center attivi in Indonesia e ne aprirà uno nelle Filippine entro la fine dell’anno. L’azienda fondata da Jack Ma ha inoltre annunciato investimenti superiori a un miliardo di dollari nei prossimi tre anni nelle startup dell’Asia-Pacifico. Anche Tencent ha messo radici nel Sud-Est, con uffici sparsi per diversi Paesi dell’area. D’altronde le prospettive di crescita sono notevoli: 650 milioni di persone e un costante aumento della penetrazione di connessione e dispositivi digitali. Una traiettoria senza eguali al mondo che offre un ampio ventaglio di opportunità per e-commerce, fintech e intrattenimento online. Non è dunque un caso che esista una forte competizione per conquistare la fiducia della classe media locale.

Ma il Sud-Est non è solo un terreno di contesa tra i colossi tecnologici statunitensi e quelli cinesi. Le realtà locali stanno emergendo su scala regionale e attirano l’attenzione delle realtà internazionali. La super app di Singapore Grab, per esempio, usufruisce dei servizi cloud di Amazon e Microsoft. Alibaba e Amazon si contendono la fornitura di servizi all’indonesiana Tokopedia. 

TPP: dalle origini all’epicentro della politica mondiale

Articolo a cura di Dmitrii Klementev

È probabile che l’interesse verso il CPTPP aumenti in futuro. Ecco le motivazioni

L’Indo-Pacifico rappresenta un groviglio di diversi schemi istituzionali che permettono di mantenere un fragile equilibrio di potere tra i principali attori geopolitici della regione. Le fondamenta di questo quadro sono state in gran parte gettate nella seconda parte del XX secolo. Tuttavia, alla fine del secolo ha vissuto una rinascita. La fine della guerra fredda, seguita dalla rapida crescita economica e tecnologica dei paesi asiatici, ha precondizionato lo spostamento del centro del sistema mondiale di relazioni internazionali (IR) verso l’Indo-Pacifico, per il controllo del quale è già iniziata la lotta tra le principali potenze.  

Nel 2002, la storia dell’accordo di Partenariato Trans-Pacifico (TPP) è iniziata con la firma dell’accordo di partenariato economico strategico trans-pacifico da parte di Cile, Nuova Zelanda e Singapore, a cui si è poi aggiunto il Brunei. Nel 2008, gli Stati Uniti hanno deciso di aderire all’iniziativa e di utilizzare l’accordo per arginare l’influenza cinese nella regione. Tuttavia, nel 2017, l’amministrazione Trump ha abbandonato l’accordo, che sembrava portare i negoziati sul TPP a un punto morto. A quel tempo, l’accordo aveva già 11 membri oltre agli Stati Uniti e la decisione di continuare i negoziati è stata presa alla fine. Unendosi ai negoziati, il Giappone ha preso il comando. 

Infine, nel 2018 i paesi rimanenti hanno firmato una versione rinnovata del TPP, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), che è entrato in vigore lo stesso anno, dopo essere stato ratificato dai sei stati firmatari. Il CPTPP tratta numerose questioni, tra cui il commercio di beni, servizi, investimenti, controlli doganali, lavoro e disposizioni ambientali. Complessivamente, le economie degli undici paesi rappresentano più del 13% del PIL globale e il 15% del commercio globale, il che rende l’accordo paragonabile alle più grandi aree di libero scambio del mondo. 

Tuttavia, a quel punto gli Stati Uniti non erano più parte del trattato, anche se “l’America è tornata” è diventato il leitmotiv dell’amministrazione di Biden, che ha sostituito D. Trump in carica nel 2021. La maggioranza assoluta degli esperti della Casa Bianca era piuttosto scettica sulle prospettive di rinnovare i colloqui con i membri del CPTPP in un prossimo futuro. Nonostante questo, la possibilità di rientrare nel CPTPP è stata spesso messa in discussione dai funzionari statunitensi: l’obiettivo stesso di impegnarsi economicamente nella regione dell’Indo-Pacifico attraverso “misure alternative” è stato da sempre una priorità assoluta. La nuova Interim National Security Strategy Guidance adottata mette l’Indo-Pacifico al primo posto tra gli “interessi nazionali vitali” degli Stati Uniti. 

Vale la pena ricordare che fino ad oggi, gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese a prestare attenzione all’iniziativa CPTPP. Il 1° febbraio 2021 il Regno Unito ha espresso la sua volontà di aderire all’accordo. Questo passo si è ben inserito nella logica del sistema rivisto delle priorità di politica estera del Regno Unito, istituito dopo la decisione di lasciare l’UE. Nel marzo 2021 il governo britannico ha presentato una nuova edizione della Integrated Review, che indicava esplicitamente gli obiettivi del Regno Unito fino al 2030. In particolare, la Review sottolineava la necessità di “stringere nuovi accordi commerciali… adattarsi alle grandi sfide nel mondo… inclusa la crescente importanza della regione Indo-Pacifica“. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, il governo britannico ha considerato l’ASEAN e il CPTPP come due iniziative chiave su cui concentrarsi. Per il Regno Unito, la potenziale adesione al CPTPP è valutata indubbiamente in modo positivo, in quanto permetterà al paese di sostituire i precedenti quadri di libero scambio che possedeva come membro dell’UE.

Sulla base delle dinamiche considerate, è probabile che l’interesse verso il CPTPP non potrà che aumentare nel prossimo futuro a causa di una serie di conclusioni. Prima di tutto, l’analisi precedente dimostra che i paesi dell’Indo-Pacifico sono capaci di fare scelte di politica estera indipendenti e possono essere considerati come partner credibili. Questa circostanza dimostra anche un rafforzamento dell’ordine multipolare. In secondo luogo, un maggiore interesse verso il CPTPP è spiegato anche dalla transizione in corso verso un nuovo sistema di IR incentrato sulla regione indopacifica. Infine, la dimensione geopolitica più importante degli strumenti commerciali li rende oggi indispensabili per promuovere gli interessi degli Stati a livello internazionale. Inoltre, la diffusione di queste pratiche fa sperare nella formazione di un ordine più o meno basato sulle regole in futuro, incentrato su “mega-accordi commerciali“, come il CPTPP. 

EMERGENZA COVID-19 IN ASEAN: RICHIESTA DI AIUTO

Il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ci segnala la drammatica situazione che il Sud-Est asiatico sta attraversando, trovandosi ad affrontare una nuova fase della pandemia di COVID-19, caratterizzata da un incremento preoccupante dei contagi e dei decessi, specie tra le fasce più vulnerabili della popolazione. L’impegno delle Autorità locali nella lotta alla pandemia si scontra con la limitatezza dei mezzi a disposizione, sia in termini di dosi vaccinali che di materiale sanitario.

In tale contesto, il Ministero sta ricevendo diverse richieste di aiuto da parte dei Paesi dell’ASEAN. Fra questi in particolare l’Indonesia, che ha fatto pervenire alle istituzioni UE e alle Ambasciate degli Stati Membri presenti a Giacarta la lista dei materiali sanitari necessari.


Il Ministero ha pensato di sondare la disponibilità dei Soci, dei Partner e di tutti i contatti dell’Associazione Italia-ASEAN di farsi carico dell’acquisto del materiale richiesto.

In questa fase l’Associazione potrebbe raccogliere le manifestazioni di interesse e trasmettere al MAECI un quadro completo (specificando il tipo di materiale e il quantitativo che ciascuna azienda sarebbe disposta ad acquistare).

Ove sulla base delle informazioni ricevute emergesse la possibilità di raccogliere un quantitativo significativo di beni, il MAECI potrebbe valutare di organizzare un volo umanitario e farsi carico delle relative spese.

Tale gesto di solidarietà, oltre a valorizzare il ruolo dell’Associazione nella regione, rappresenterà un esempio concreto di sinergia fra istituzioni e società civile nel rafforzamento delle relazioni bilaterali e nella promozione del Partenariato di Sviluppo tra l’Italia e l’ASEAN, che si fonda anche sull’assistenza umanitaria.

Specifichiamo che le imprese dovrebbero far pervenire il materiale necessario presso la base di pronto intervento umanitario di Brindisi, gestita dal Programma Alimentare Mondiale, dove il personale incaricato dalla Farnesina di seguire i trasporti umanitari italiani si occuperebbe della presa in carico e della predisposizione per la spedizione. Una volta confermata la fattibilità dell’operazione e prima che si proceda all’acquisto dei beni, il Ministero manderà tutti i dettagli da comunicare alle aziende interessate, che dovrebbero idealmente individuare un punto di contatto per la definizione degli aspetti tecnici della spedizione, in stretto raccordo con i competenti servizi del MAECI.

Rimanendo a disposizione per eventuali comunicazioni, vi ringraziamo per il supporto e la disponibilità in questa fase così complessa per i Paesi ASEAN.

Lo sviluppo dell’ASEAN Collective Investment Scheme

Le Filippine fanno ora ufficialmente parte dell’ASEAN CIS framework e la loro entrata nel sistema rappresenta l’ultimo passo verso il miglioramento della connettività del mercato dei capitali nella regione asiatica.

Gli organismi di regolamentazione del sistema di investimento collettivo dell’ASEAN (CIS) hanno annunciato l’entrata delle Filippine nel framework. L’11 maggio 2021 i 4 membri hanno firmato un memorandum d’intesa supplementare che ha formalmente ammesso le Filippine nel framework e ha segnato la ben sperata espansione. Gli investitori delle Filippine saranno autorizzati ad offrire fondi nei paesi che partecipano all’ASEAN CIS framework. Così, le società di investimento delle Filippine inizieranno ad offrire fondi agli investitori in Malesia, Singapore e Thailandia. Ruenvadee Suwanmongkol, segretario generale del SEC tailandese, parlando del l’ingresso delle Filippine nel quadro, ha sottolineato l’importanza dell’ASEAN CIS framework con queste parole:

“Siamo lieti di accogliere le Filippine come nuovo firmatario dell’ASEAN CIS framework, che promuove una maggior interconnessione, inclusività e resilienza dei mercati capitali dell’ASEAN. Questo nuovo partenariato creerà maggiori opportunità commerciali e rafforzerà la cooperazione economica tra gli Stati membri dell’ASEAN, arricchendo, nel contempo, il pool di fondi disponibili per gli investimenti nell’ASEAN. Ci aspettiamo la partecipazione di più Stati membri dell’ASEAN in questo framework nei prossimi anni.” 

ASEAN CIS framework è diventato ufficialmente operativo nel 2014. L’idea alla base dell’ASEAN CIS framework è che le unità di un fondo autorizzato in uno dei paesi partecipanti al CIS possono essere offerte in un altro paese CIS dopo l’approvazione di entrambi i paesi interessati. I risultati più evidenti di questa cooperazione sono la ridotta burocrazia e maggiori opportunità per la distribuzione transfrontaliera dei fondi, l’accesso ai prodotti, la diversificazione degli investimenti e delle alternative per gli investitori al dettaglio. Più nello specifico, ASEAN CIS framework è regolamentato attraverso una combinazione di leggi del paese d’origine del fondo e del paese in cui viene offerto il fondo straniero. Gli organismi di regolamentazione sono la Securities and Exchange Commission delle Filippine, l’Autorità monetaria di Singapore, la Securities Commission della Malaysia e la Securities and Exchange Commission della Thailandia.

Uno degli scopi dell’ASEAN CIS framework è quello di facilitare e ampliare la possibilità di organismi di investimento collettivo tra i paesi del CIS che al momento sono Thailandia, Malesia, Singapore e le Filippine. Soprattutto, l’ASEAN CIS framework nasce dal desiderio di ottenere il riconoscimento reciproco dei fondi tra paesi dell’Asia e quindi di armonizzare l’offerta dei fondi nei paesi asiatici. In effetti, molti paesi asiatici non si riconoscono i fondi a vicenda o non hanno accordi utili per una collaborazione dei loro mercati finanziari. Ad esempio, la Security and Exchange Commission della Thailandia offre fondi esteri attraverso l’ASEAN CIS Framework e attraverso Asia Region Funds Passport. Così, in Thailandia i fondi esteri possono essere offerti solo attraverso questi pochi metodi. Ciò sottolinea ancora una volta l’importanza dell’ASEAN CIS framework, in quanto per alcuni paesi è uno dei pochi metodi impiegati per consentire l’utilizzo di fondi esteri. Inoltre, questo tipo di accordi inizia ad essere stipulato non solo tra gli Stati membri dell’ASEAN, ma anche tra alcuni paesi ASEAN e altri paesi asiatici. Un esempio di questo è la Thailandia, che all’inizio di quest’anno ha annunciato l’ Hong Kong-Thailand Fund Passport che serve per il riconoscimento reciproco dei fondi.

E’ possibile approfondire l’argomento seguendo questo link.

La competizione regionale e globale sull’automotive ASEAN

Quello automobilistico è un settore strategico per le economie ASEAN, integrate attraverso complesse catene globali del valore. La pandemia ha trasformato le preferenze di consumatori e produttori, aprendo il settore a nuovi sviluppi

La pandemia da Covid-19 ha costretto le persone a ripensare abitudini e priorità quotidiane. Nel Sud-Est asiatico, centro nevralgico delle catene del valore globali, il settore automobilistico è stato particolarmente sensibile a queste trasformazioni. Da un report della società di consulenza Deloitte, emergono alcune tendenze significative, dal lato di produzione e consumo, che potrebbero incidere fortemente sulla competizione nel settore, con conseguenze anche a livello globale.

Dal lato della domanda, la preferenza per gli spostamenti con veicoli personali è aumentata dopo la pandemia. Prima della crisi sanitaria, una media del 37% dei consumatori preferiva spostarsi con mezzi propri, ma con lo scoppio della pandemia questa percentuale è notevolmente aumentata, raggiungendo il 52%. I consumatori locali, secondo Deloitte, stanno anche ripensando la tipologia di veicolo che sarebbero disposti ad acquistare: veicoli a basso consumo di carburante stanno guadagnando terreno, ma la mancanza di infrastrutture efficienti fa sì che i consumatori continuino a preferire i veicoli elettrici ibridi (HEV) rispetto ai veicoli elettrici a batteria (BEV). Circa il 38% degli intervistati nella regione preferisce veicoli a basso consumo di carburante – in particolare in Indonesia, Filippine e Thailandia, questa preferenza è stata espressa da oltre il 40% del campione analizzato. Inoltre, secondo il rapporto, poiché gran parte della popolazione intervistata non si è detta disposta a pagare di più per l’acquisto di veicoli elettrici, il supporto del governo alla produzione e alle vendite potrebbe essere utile a incoraggiarne la diffusione. 

Per quanto riguarda l’offerta, se dieci anni fa la Thailandia poteva rivendicare il primato indiscusso nella produzione automobilistica nel Sud-Est asiatico, oggi le cose stanno cambiando. Per cogliere appieno questa trasformazione, è bene osservare la crescita dei mercati emergenti locali da un punto di vista genealogico. La produzione di automobili, l’assemblaggio e la creazione di parti intermedie, è da sempre uno dei settori privilegiati dalle economie regionali. Il Sud-Est asiatico rappresenta, a livello macroscopico, uno degli snodi strategici delle catene di approvvigionamento globali. La realizzazione di un’automobile implica un processo lungo e frammentato, che passa per reti transnazionali integrate che forniscono centinaia di migliaia di posti di lavoro, attirano miliardi di dollari di investimenti e richiedono competenze e tecnologie che possono favorire la crescita a lungo termine delle economie della regione. Paesi come la Corea del Sud e il Giappone hanno fondato la loro crescita economica su un modello che si impernia sulla produzione e l’esportazione di automobili, e questo successo li ha resi riferimenti da emulare in Asia orientale. 

La Thailandia è un caso emblematico. Si tratta di uno di quei mercati emergenti del Sud-Est asiatico che ha seguito minuziosamente le istruzioni al libero mercato promosse da Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio, aprendo le catene del valore a investimenti esteri e importazioni. Per economie così dipendenti dalle interazioni con l’estero, la crisi sanitaria ha rappresentato un vero shock, e il primato thailandese nel settore automotive è stato messo in discussione dall’emergere di un altro sfidante. L’Indonesia ha seguito una strada diversa per lanciare il suo settore automobilistico e la crescita economica nazionale. Le esportazioni a Giacarta sono decollate grazie alla forte domanda interna, che è incrementata da 486.000 nel 2009 a 1,2 milioni nel 2014. L’esperienza indonesiana, secondo James Guild del The Diplomat, mette in discussione il modello di sviluppo prescritto dalle grandi istituzioni internazionali per la crescita dei mercati emergenti. 

La concorrenza tra case automobilistiche, però, non è solo una questione locale. Tra gli effetti della globalizzazione vi è l’estrema mobilità dei flussi di investimento, che svolgono anche la funzione strategica di canalizzare competizioni geopolitiche. Il Sud-Est asiatico è da sempre una destinazione particolarmente attraente per le case automobilistiche giapponesi: circa il 90% dei veicoli prodotti e venduti in Thailandia proviene da produttori giapponesi. Tuttavia, Tokyo sembra voler rimanere nel solco delle tradizionali alimentazioni a benzina, mentre cresce la predilezione dei consumatori locali a basso consumo di carburante e ibride, specie in Thailandia. Le aziende cinesi sembrano intenzionate a cogliere al balzo questa opportunità. La cinese Great Wall è entrata a pieno titolo nel mercato thailandese lo scorso anno, acquisendo uno stabilimento dalla General Motors su cui ha investito oltre 700 milioni di dollari. L’intera struttura è stata trasformata in una fabbrica all’avanguardia, con linee di produzione alimentate dall’intelligenza artificiale, che ha iniziato a produrre ibridi a giugno e programma di lanciare la produzione di modelli elettrici entro il 2023. La Great Wall avrebbe sfruttato un programma del governo thailandese che offre agevolazioni per la progettazione di veicoli elettrici. Bangkok, infatti, mira a rendere elettrico il 30% dei veicoli prodotti localmente entro il 2030, e la reticenza dei produttori giapponesi di ricorrere alla svolta elettrica sta diversificando la concorrenza.

Il settore automobilistico del Sud-Est asiatico è quindi in fase di transizione. Consumo e produzione si stanno lentamente adattando alle nuove circostanze dell’economia globalizzata post-pandemia, con velocità diverse a seconda delle economie emergenti. Sarà interessante osservare quali direzioni prenderà il settore, che dirà qualcosa dello sviluppo economico dell’intera regione.  

L’importanza della connettività tra Europa e Asia

La strategia dell’Unione europea per rilanciare i rapporti con il continente asiatico

L’Asia ha una importanza strategica per l’Europa. In questi anni abbiamo sperimentato che l’economia e i mercati finanziari di Europa e Asia sono sempre più interdipendenti e integrati. Variazioni nella performance economica di una regione hanno diretta influenza sulle condizioni economiche dell’altra. Con una popolazione che supera di gran lunga quella di ogni altro continente e con le sue economie in rapida crescita, solo nel 2019, l’Asia è stata destinataria del 28% dell’esportazioni UE e del 40% delle sue importazioni. Senza contare che la Cina è stata l’unica potenza mondiale a chiudere il 2020 in crescita, con un PIL in aumento del 2,3%.

Tutti dati che l’UE non ha potuto ignorare. Anche per questo nel 2018, i leader europei hanno adottato una comunicazione congiunta, nota come “Connecting Europe and Asia – Building Blocks for an EU Strategy”. La strategia proposta dall’Unione Europea punta sulla costruzione di un dialogo interregionale profondo creando sistemi di connettività sostenibile e regole condivise. Ciò diventa possibile, in primo luogo, ristrutturando il sistema delle reti e delle connessioni tra le due regioni, creando corridoi di trasposto, collegamenti digitali avanzati e migliorando la cooperazione energetica. In secondo luogo, predisponendo partenariati incentrati sulla connettività, che fanno perno su regole e standard comuni, in grado di consentire una migliore gestione dei flussi di merci, servizi, persone e capitali tra l’Europa e il continente asiatico. Infine, l’Unione Europea si è impegnata a colmare il divario negli investimenti dedicati alla connettività con l’Asia, mobilitando risorse e contribuendo a rafforzare la cooperazione con investitori privati e organismi di natura internazionale e banche multilaterali di sviluppo.

La strategia si è evoluta con la promozione di un incontro UE-Asia (ASEAM) diretto ad ampliare la connettività tra le due regioni. Si tratta di una piattaforma informale che include anche una dimensione parlamentare (ASEP), la quale riunisce nel dialogo 53 Paesi provenienti dalle due regioni, ovvero circa il 60% della popolazione globale e il 65% del PIL mondiale.  Altra istituzione permanente è l’ASEF (Asia-Europe Foundation), che si occupa di incoraggiare gli scambi intellettuali, culturali e interpersonali tra Asia e Europa. I rapporti tra i due blocchi sono, poi, stati rafforzati con la conclusione di cinque partenariati strategici – compreso uno con l’ASEAN – e la definizione di accordi di libero scambio con diversi paesi asiatici, di cui l’ultimo, negoziato con l’ASEAN, riguarda la liberalizzazione del traffico aereo interregionale.

Tuttavia è fin troppo evidente che migliorare la connettività costa. L’Asian Development Bank stima necessari circa 1,3 trilioni di euro all’anno, da impiegare in investimenti infrastrutturali, crescita economica e politiche green. A questa cifra occorre aggiungere un investimento di 1,5 trilioni di euro, nel periodo 2021-2030, da indirizzare al Trans-European Transport Network (TEN-T). Il progetto sarà poi sostenuto anche dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Sostenibile (EFSD+), dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) e da istituzioni finanziarie private e internazionali.

In un momento di rimescolamento delle carte sulla scena internazionale, a Bruxelles non sfuggono i vantaggi della connettività con un’area emergente del mondo: pensare al futuro significa rilanciare i rapporti con il continente asiatico, promuovendo il dialogo e rafforzando i legami tra governi, istituzioni finanziarie e attori del settore privato. 

Rita Bonucchi: “Non si può non essere in ASEAN, l’innovazione nasce lì”

ITALIA-ASEAN/ Iniziamo un ciclo di interviste e approfondimenti su aziende e realtà italiane presenti nel Sud-Est asiatico. Intervista alla CEO di Bonucchi e Associati srl, società di consulenza con sede a Milano e Singapore.
Rita Bonucchi è CEO di Bonucchi e Associati srl, una società di consulenza con sede a Milano e Singapore (dal 2011), che si occupa di marketing internazionale, strategie per l’export e l’internazionalizzazione, con una lunga e solida presenza nel Sud-Est asiatico. Export Strategist, formatrice e Management Consultant, dal 2020 ha fondato anche BeaConsulting pte ltd a Singapore, focalizzata su clienti e progetti locali.

Com’è nata la sua attività in ASEAN?

Nel 1993 ho avviato un’attività di consulenza per la pianificazione marketing. All’epoca, non essendo così sicura dei volumi di lavoro, ho accettato un progetto di supporto al procurement di guanti monouso. Questo settore era distante dal mio solito focus di lavoro.  Partendo da quella che fu una scelta casuale, ho iniziato a frequentare l’ASEAN dal 1993 e, in seguito a quell’incarico, avendo accumulato contatti e conoscenza di territorio, ho continuato a seguire altri progetti, che tuttavia restavano marginali rispetto alla mia attività principale.

Nel 2010 ho supportato la stesura di un business plan per un’attività di consulenza basata in Malesia. L’anno successivo la mia società, Bonucchi e Associati, sarebbe diventata maggiorenne. Dal 1993 al 2010 avevamo accompagnato tante aziende nelle loro strategie di internazionalizzazione. Così ho capito che era arrivato anche per noi il momento di guardare all’estero. Internazionalizzare una società di servizi non è semplice, ci sono molti meno modelli. Abbiamo deciso di seguire lo stesso modus operandi che utilizziamo per i nostri clienti: check up, selezione destinazioni, progetto. La selezione destinazioni ha fatto emergere l’ASEAN, anche grazie a tutta quell’esperienza iniziata in modo casuale. Dopo un primo focus sulla Malesia, è stato chiaro che Singapore è il luogo più adatto a noi e su cui abbiamo investito dal 2011. Inizialmente, abbiamo cercato partner e collaboratori per poi iniziare a stabilizzarci e fondare una sede a Singapore, investendo anche nei viaggi di lavoro. Siamo passati a più di quattro trasferte all’anno, con permanenze lunghe, soprattutto d’estate. 

Oltre a questo, una serie di progetti internazionali per la Commissione Europea mi aveva portato anche in Indonesia, in particolare a Bali. Lì ho seguito progetti destinati alle PMI e agli artigiani locali sull’empowerment per l’export verso l’Unione Europea. Seguendo clienti, missioni, progetti istituzionali, siamo arrivati a un’altra svolta della nostra storia in ASEAN.  Nel 2018 siamo diventati consulenti di un’agenzia governativa, Design Singapore, che si occupa della promozione e dello sviluppo del design di Singapore, localmente e all’estero. Siamo consulenti per l’internazionalizzazione in Europa di vari designer e studi di architettura singaporiani. Adesso continuiamo a seguire questo progetto con un ruolo che si è evoluto e ci ha portato ad avere esigenze ancora più puntuali. Fino al febbraio 2020, volavo a Singapore ogni mese. Un incarico di grande respiro con un impatto molto positivo sulla nostra visibilità in Italia, in quanto parte di questo incarico ha richiesto un matching tra designer singaporiani e produttori italiani.

Quali sono i punti focali del suo lavoro nel Sud-Est asiatico?

Non abbiamo una specializzazione settoriale chiusa, ma negli ultimi dieci anni abbiamo focalizzato la nostra attività in ASEAN su pochi settori, tra i quali i cosmetici e tutto il mondo beauty. Curiamo il percorso di internazionalizzazione nel Sud-Est asiatico di Cosmetica Italia, l’associazione dei produttori di cosmetici all’interno di Confindustria. L’altro settore sul quale puntiamo molto è quello del progetto: architetti, ingegneri, produttori di sistemi, materiali e prodotti che hanno la loro destinazione all’interno di un edificio, fino all’arredamento e al tessile per l’arredo. Adesso stiamo lavorando molto con il settore medicale e agri-tech. È Singapore che ci guida in base alle nuove tendenze su cui si concentra, alle aree sulle quali punta. Noi ci attrezziamo a seguire i trend, anche grazie ai nostri clienti locali. Dal 2020 abbiamo fondato una società controllata al 100% a Singapore, BeaConsulting pte ltd, focalizzata su clienti e progetti locali. Operiamo sia come società italiana a Singapore sia come società locale.

Quali sono i motivi che l’hanno spinta a investire a Singapore?

L’innovazione nasce in ASEAN, è lì che succedono le cose. Questa è la motivazione più forte. Non possiamo non esserci. È una convinzione per noi e per i nostri clienti, non una semplice attrazione territoriale. Non essere presenti in ASEAN significa perdere non solo una fetta del business, ma soprattutto l’onda principale dell’innovazione, a livello qualitativo. È un punto di osservazione assolutamente privilegiato, in particolare Singapore, dove si incontrano tante correnti, soprattutto quelle relative al mondo digitale. Sono presenti tutti gli strumenti tipici del mondo occidentale e della Cina e poi una enorme vivacità locale, molto visibile dal settore e-commerce. Non esserci significa perdere un pezzo di opportunità.

Altri motivi riguardano lo stile di vita e il modo di fare business. A Singapore divento più produttiva, faccio networking in modo molto più intenso. I tempi si comprimono: dall’inizio di una proposta di business alla chiusura passa meno tempo che in Italia. L’ambiente è più internazionale. Nonostante lavori a Milano, sento che la velocità di Singapore è superiore. C’è una comunità internazionale più sviluppata, una concentrazione di capitali che interessa particolarmente alle startup e che tende ad aumentare di pari passo alla crescita del venture capital. La velocità nella costituzione delle società è preponderante. Nell’ultimo anno abbiamo costituito varie società per i nostri clienti e aperto conti correnti senza essere fisicamente a Singapore, e le modalità per farlo è anche relativamente semplice.

Noi impieghiamo un modello secondo cui le PMI atterrano prima a Singapore, per poi coprire il resto dei Paesi ASEAN. Un modello tradizionale, che risponde a un’unica considerazione: molte delle PMI con cui dialoghiamo non sono pronte né a scegliere un solo territorio né a sostenere i costi e l’impegno di un insediamento in termini di proprietà industriale, intellettuale certezza del diritto, avviamento di un business. A nostro parere, Singapore rimane ancora imbattibile. Il momento per aprire in Vietnam, Thailandia, Indonesia e Malesia può sempre arrivare. Più spesso troviamo partner su Singapore che ci aiutano a coprire gli altri mercati della regione.

Ad oggi com’è la risposta dei clienti italiani?

I nostri dieci anni di esperienza sul campo ci danno quella solidità di cui i clienti hanno bisogno. Non riusciamo ancora ad arrivare così rapidamente al loro insediamento. Oltre a trovare un partner a Singapore, stimoliamo le aziende a stabilirsi il prima possibile, anche per poter usufruire dei veri vantaggi territoriali, non ultimi i grant disponibili anche per le aziende a capitale straniero. Tuttavia, questa visione non è ancora totalmente sposata dalle aziende con le quali dialoghiamo. Ci vuole più sforzo per arrivare a farli decidere un insediamento diretto. La richiesta più frequente resta l’elaborazione di un progetto export e la ricerca dei distributori, attività per le quali siamo comunque attrezzati e anche accreditati per i principali programmi di finanziamento (Maeci/Invitalia, Simest e altri). Per alcuni prodotti spingiamo anche sull’approdo diretto agli e-commerce locali.

Storia della sua realtà imprenditoriale: presente e sviluppi futuri.

Il nostro presente fa leva sui nostri collaboratori a Singapore che ci hanno permesso di andare avanti in questo periodo. Prima fra tutti la nostra Project Manager, Marianna Fichera.

Bonucchi e Associati è sia a Milano che a Singapore. Il metodo e la squadra di lavoro sono gli stessi, nonostante siamo articolati su due sedi. Ciò è davvero inusuale alla nostra dimensione. Abbiamo anche partner locali che, fin dall’inizio, hanno aiutato a radicarci e che ancora oggi sono il nostro riferimento sia a Singapore che in Malesia. Riusciamo a lavorare a diversi livelli perché possiamo contare su diversi tipi di collaboratori. Tramite il gruppo di collaboratori in loco aumentiamo il nostro focus in ASEAN.

Grazie al nostro ruolo di brand ambassador a Singapore di MM Design, un pluripremiato studio di industrial design, e all’iscrizione a varie associazioni locali abbiamo ottenuto importanti riconoscimenti come consulenti ed esperti. L’azienda locale può ottenere finanziamenti dalle varie agenzie governative di Singapore anche quando lavora con noi. Stiamo lavorando per essere equiparati a una società di consulenza locale anche per i vantaggi riservati a clienti stessi.

Di recente abbiamo cambiato sede a Milano, replicando ciò che abbiamo a Singapore all’interno del National Design Centre. Paperwork è lo spazio co-working che ospita il nostro ufficio per il team locale a Singapore, permettendoci di sfruttare la realtà innovativa e vibrante dell’hub per il mercato asiatico. Con l’obiettivo di riprodurre il modello già sperimentato a Singapore, abbiamo trasferito la nostra sede nello spazio di YoRoom, una community di aziende, freelance e start up, dove talenti e idee si incontrano nel cuore del quartiere Isola/Garibaldi a Milano.

Per il futuro prevediamo un bilanciamento dei dipendenti a Singapore e a Milano, mantenendo il concept dell’unico team e sperando di riprendere presto a viaggiare. Avendo rafforzato anche il network che ci permette di lavorare negli altri Paesi ASEAN, andremo a formalizzare e a rafforzare questi rapporti. Singapore, Indonesia e Malesia sono molto ben presidiati, seguiti da Thailandia e Vietnam.

Quale impatto ha avuto la pandemia Covid-19 sui processi aziendali?

La pandemia è arrivata mentre eravamo sulla rampa di lancio di molti progetti. All’inizio è stato complicato, anche per l’annullamento di tutti gli eventi, ma poi abbiamo capito come adattarci alla situazione, cambiando modo di lavorare. Adesso ci siamo riassestati. 

L’impossibilità di viaggiare da Paese a Paese rappresenta il danno maggiore, perciò stiamo aumentando l’enfasi su Singapore. In tutti gli incarichi che stanno arrivando ci concentriamo inizialmente su Singapore, aspettando di essere più incisivi anche sugli altri Paesi. Prima il lavoro prevedeva movimento continuo, ora dobbiamo aspettare e utilizzare di più i nostri riferimenti locali perché è ancora inimmaginabile quella fortissima mobilità, che poi è una delle caratteristiche principali del mercato ASEAN. La mancanza di mobilità è stato l’impatto più rilevante, che poi ci ha portato a concentrarci su settori che hanno il proprio focus a Singapore: health-tech, agri-tech e food-tech, sicurezza alimentare e approvvigionamento, economia circolare. 

Riguardo il settore della sostenibilità, siamo coinvolti in Coffeefrom, un progetto di economia circolare che realizza, ad esempio, tazzine con i fondi di caffè. Il progetto pilota è in Italia e noi abbiamo l’incarico di replicarlo partendo proprio da Singapore. Con il Green Plan 2030, Singapore è certamente il Paese più visionario in questa direzione. Inoltre, si creano economie di agglomerazione, c’è una grande possibilità sia di incontrare aziende del settore della sostenibilità sia i loro finanziatori. Ci sono fondi di venture capital esclusivamente dedicati a startup impegnate nella sostenibilità, come Pufferfish Partners. Nella necessità di lavorare a distanza e non potendo più partecipare fisicamente agli eventi, è diventato più importante approfondire e mantenere il network virtuale con questi soggetti.

Il ruolo delle donne nell’imprenditoria a Singapore.

A Milano siamo un gruppo di donne e anche a Singapore abbiamo mantenuto questa prevalenza. Mi dedico molto alla valorizzazione delle professionalità femminili italiane presenti a Singapore. Sono socia dell’Italian Women’s Group Singapore (parte di Singapore Business and Professional Women’s Association), che unisce più di 120 donne italiane a Singapore: manager, imprenditrici, e tantissime donne che si sono trasferite per motivi di famiglia. In quest’ultimo caso, molto spesso le loro professionalità vengono compresse. Molte professioni non sono replicabili a Singapore, ad esempio quelle relative al mondo legale. In altri casi, la continua mobilità del coniuge rende impossibile replicare un certo tipo di attività. Alcune donne che lavorano o hanno lavorato con me provengono da questo bacino. Finora era possibile farle lavorare con la letter of consent, che non è più possibile richiedere da maggio di quest’anno, rendendo la situazione ancora più critica. 

A Singapore c’è un’imprenditoria femminile molto sviluppata, in cui emerge il ruolo di Christina Teo di she1K, una competizione aperta alle startup femminili. Molto interessanti anche le iniziative finanziate da CRIB. Singapore è una società multietnica, attenta alle pari opportunità. Purtroppo, molte professionalità esportate dall’Italia subiscono una compressione. Ad oggi, è un patrimonio assolutamente sprecato. Ci sono donne che si muovono dall’Italia con una posizione di valore e non ritrovano la possibilità di continuare ad esprimerla in questo assetto. Alcune donne optano per attività in proprio. Ci sono attività interessanti relative alla produzione di gioielli, come Italian Hands di Ilenia Circolani, e alla psicomotricità, come Sparkd | The Brain & Fitness Hub, fondato da Anna Milani. Tuttavia, in altri settori non si riescono ad avere le stesse opportunità che c’erano in Italia. 

L’arte digitale in Asean passa dagli NFT

Articolo a cura di Sabrina Moles

Anche nei dieci Paesi del Sud-Est asiatico sta prendendo piede il mercato decentralizzato e senza intermediari basato sulla blockchain. Ma gli NFT non tutelano solo i diritti d’autore nel mondo digital: per i lavoratori delle economie emergenti è una vera e propria alternativa di guadagno

Il treno dei token non fungibili (meglio conosciuti come NFT) è arrivato anche nel Sud-Est asiatico. Tra gli investitori d’arte sta già diventando lo strumento principale per tentare il successo in un nuovo settore d’investimento. Innanzitutto, chiariamo che cosa sono gli NFT: come dice il nome stesso, questo tipo di beni non sono fungibili, ossia intercambiabili. Questo significa che ogni NFT non è uguale all’altro, permettendo agli investitori di entrare in possesso di qualcosa di unico e irripetibile. Idealmente, qualsiasi cosa può essere registrata come NFT nella blockchain, che più precisamente si basa sul sistema fornito da Ethereum (la tecnologia dietro la seconda criptovaluta più diffusa dopo il Bitcoin). L’ecosistema creato da Ethereum è caratterizzato da una blockchain senza mediatori dove circolano, sono acquistati o venduti questi “contratti intelligenti”.

Non ci è voluto molto perché in tutto il mondo l’effetto NFT facesse notizia, diventando argomento di dibattito tra appassionati di criptovalute e investitori come uno strumento eccezionale in un mercato di scarsità. Uno dei maggiori usi che viene fatto degli NFT oggi, infatti, è sul mercato dell’arte digitale. Grazie a questa tecnologia vengono etichettati file di qualsiasi tipo, a cui viene attribuito un valore determinato (anche, ma non solo) dal loro essere un pezzo unico, da collezione. Le opere vendute come NFT, esattamente come avviene per quelle esistenti sui mercati dell’economia reale, possono valere migliaia, se non milioni, di dollari. Si tratta di una rivoluzione per il mondo dell’arte digitale, dove è sempre stato  facile contraffare e rubare le opere. Ma non solo: agli artisti rimane così più libertà di vendere le proprie opere senza dover passare dai canali tradizionali dei mediatori e delle esposizioni. Questo crea un sistema che non solo riduce i costi operativi, ma amplifica le opportunità di raggiungere il pubblico ideale. Come ha dichiarato ad Art Sg Shavonne Wong, fotografa di Singapore: “Gli NFT mi hanno dato uno spazio in cui posso davvero fare ciò che voglio, senza una direzione esterna. È un’esperienza molto liberatoria”. Infine, gli NFT stanno creando degli spazi per sperimentare una nuova esperienza artistica che oltrepassi i limiti della percezione e della concettualizzazione delle opere fisiche. “Con gli NFT, c’è una maggiore possibilità di esplorare l’approccio digitale che integro nel mio processo artistico e di mostrare più lavori in motion graphics”, racconta l’artista indonesiano Radhinal Indra. Per i più appassionati di questo nuovo mondo delle contrattazioni e investimenti digitali, gli NFT sono una vera e propria rivoluzione, che potrebbe presto sbarcare nel mondo della finanza tradizionale. Su questo mercato si stanno rapidamente moltiplicano le opportunità per gli artisti di guadagnare vendendo opere d’arte e pezzi unici come NFT.

Gli NFT, in quanto elementi creati e scambiati nella blockchain, possono essere prodotti attraverso le attività di mining – un processo bidirezionale dove chi offre sistemi hardware o contribuisce a far funzionare parte della blockchain ottiene in cambio altra criptovaluta. Il mondo del gaming è un’altra funzione degli NFT che sta spopolando nei Paesi ASEAN e in generale nelle economie emergenti, da dove proviene l’80% dei cosiddetti “miners”. Anche spendere una determinata quantità di ore al giorno su un videogioco equivale, infatti, a un processo di mining. Nel Sud-Est asiatico, per esempio, come racconta Nikkei Asia, il gioco Axie Infinity è diventato per tanti precari del mondo del lavoro un’entrata stabile. Come racconta uno degli intervistati, il filippino Gilbert Jalovaal, almeno due ore al giorno trascorse sulla piattaforma permettono di estrarre abbastanza NFT che convertiti in moneta locale o Ethereum raggiungono cifre di gran lunga superiori al suo salario mensile.

Sul vagone degli NFT stanno saltando tante realtà diverse, un’ambiente libero dove – almeno per ora – l’unico limite sembrano gli strumenti analitici per capirne appieno le potenzialità. La finanza decentralizzata, come si può definire il sistema basato sugli NFT, è un processo che si sta arricchendo proprio grazie a questa eterogeneità di contributi. Ci sono realtà come il Tropical Futures Institute, uno studio multidisciplinare con sede nelle Filippine, che fanno ricerca e partecipano all’ecosistema delle criptovalute nel mondo dell’arte dal 2015. A volte emergono storie di grande solidarietà e collaborazione, come il progetto della filippina Narra Gallery che ha creato un fondo virtuale dedicato agli artisti che desiderano avvicinarsi all’universo degli NFT. Gli acquirenti possono accedere al sito e acquistare le opere attraverso un’offerta in criptovalute: una sorta di asta virtuale.

È ancora presto per dire se l’entusiasmo del mondo dell’arte (e non) nei confronti degli NFT avrà un futuro, così come è prematuro vederne una larga diffusione in Asia. Per ora i Paesi ASEAN  offrono alcuni degli spazi più creativi in questo senso, e sarà interessante osservare come evolverà l’ecosistema NFT in questo parte di mondo. È solo l’inizio di una sperimentazione che sta avendo grande successo ma potrebbe esplodere come altre “bolle” del passato.

USA e Cina si scontrano sul commercio digitale nel Sud-Est asiatico

Gli USA pensano a un “piano Marshall” digitale asiatico. La volontà di Biden è quella di controbilanciare l’influenza cinese nella regione, ma il Sud-Est asiatico ha rapporti molto stretti con le aziende tecnologiche cinesi

L’amministrazione Biden sta discutendo la proposta di un accordo sul commercio digitale  in Asia-Pacifico, per rilanciare il ruolo degli USA nella regione. Il Presidente Donald Trump aveva ridimensionato il primato internazionale di Washington con una serie di mosse inequivocabili: tra le altre, interventi contro le istituzioni dell’ordine liberale internazionale e l’abbandono del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership nel 2017. Joe Biden cambia rotta, e dopo aver impiegato i primi mesi del mandato presidenziale a rafforzare accordi esistenti e a ritrattare le posizioni assunte dal suo predecessore, sta valutando l’idea di lanciare quello che è stato definito un “piano Marshall” digitale per l’Asia e Pacifico. Secondo alcuni analisti, oltre all’interesse economico di brand e investitori statunitensi, rafforzare la presenza di Washington nella regione è anche un modo per controbilanciare l’influenza cinese. Wendy Cutler, dell’Asia Society Policy Institute a Washington, ha affermato che l’accordo “riporterebbe gli Stati Uniti nel gioco commerciale in Asia, mentre considerano i benefici di ricongiungersi all’accordo globale per il partenariato transpacifico (CPTPP)”.

Per il momento l’obiettivo è quello di creare un paradigma di standard condivisi per l’economia digitale, che comprenda norme sull’uso di dati, accordi doganali elettronici e agevolazioni degli scambi. Sarebbero inclusi nel progetto Paesi come Giappone, Malesia, Singapore, Australia e Nuova Zelanda. Come ha sottolineato Nigel Cory, direttore associato presso il think tank Information Technology & Innovation Foundation, durante le negoziazioni di trattati commerciali la difficoltà risiede nel dover conciliare istanze diverse e talvolta divergenti, come quelle sul lavoro, sui servizi e sulle normative ambientali. “È un compito molto impegnativo e complicato”, ha osservato, “mentre con gli accordi specifici per il commercio digitale è un po’ più semplice”.

Il Sud-Est asiatico ha già intrapreso la via verso una maggiore integrazione digitale. Attualmente la regione ospita circa 400 milioni di utenti internet, il 10% dei quali è sbarcato per la prima volta online nel 2020. Gli sforzi dell’ASEAN vanno nella direzione di una maggiore cooperazione internazionale sul tema, sia tra i Paesi membri sia tra l’Associazione e i suoi partner di dialogo. Come ha sottolineato la Ministra per la Comunicazione e l’Informazione di Singapore, Josephine Teo, bisognerebbe impedire la frammentazione dello spazio tecnologico e digitale, intensificando gli sforzi verso partenariati che favoriscano il commercio digitale nell’area. “Dovremmo cercare più partnership, non meno” ha suggerito “invece della biforcazione tecnologica, stiamo effettivamente cercando di avere sistemi e standard più interoperabili (…) [per] promuovere flussi di dati transfrontalieri e far crescere il commercio digitale che aiuterà le nostre aziende, sia grandi che piccole”.

L’ottica anti-cinese degli interessi strategici statunitensi è un tema controverso per il Sud-Est asiatico. Per quanto il rapporto tra i Paesi ASEAN e la Cina possa risultare ambivalente, la possibilità di essere cooptati nell’alveo dei Paesi atlantisti non è una questione da poco. I giganti della tecnologia cinesi investono  in modo ingente nella regione: tra infrastrutture, commercio e finanziamenti rappresentano una vera risorsa per le economie locali.  Grandi società cinesi come Alibaba Group Holding Ltd. e Tencent Holdings Ltd. negli ultimi anni hanno guidato un’ondata di investimenti tra i Paesi ASEAN. Questa settimana i rappresentanti nazionali di alcuni Paesi asiatici hanno espresso sostegno alla proposta di Biden, avendo cura di evitare qualsiasi menzione alla potenziale esclusione di Pechino. Il Ministro del Commercio malese, Azmin Ali, ha accolto con favore l’idea e ha invitato le imprese americane a utilizzare il suo Paese come “porta d’ingresso” verso il Sud-Est asiatico. Il tutto a pochi giorni di distanza dalla decisione di Kuala Lumpur di scegliere Ericsson e non Huawei per lo sviluppo dell’infrastruttura di rete 5G. Mossa che è stata notata a Washington. mentre Singapore ha suggerito che l’accordo ha il potenziale per creare “beni comuni digitali globali aperti e affidabili”. In ogni caso, come hanno osservato gli analisti,  una maggiore esposizione del Sud-Est asiatico alle regole occidentali può mettere in crisi il rapporto con le aziende tecnologiche cinesi, fautrici di un approccio alla privacy, alla trasparenza e alla sorveglianza totalmente diverso.

Alcuni media statali cinesi hanno accolto negativamente la proposta della Casa Bianca. Hanno tacciato d’ipocrisia l’amministrazione statunitense, accusandola di promuovere un trattamento solo apparentemente alla pari con il Sud-Est asiatico, che manca della stabilità economica adeguata per poter godere di un interscambio equo con gli USA. Secondo il Global Times, gli Stati Uniti hanno adottato una mentalità a somma zero per promuovere discordia e instabilità nella regione. Uno dei settori in cui ASEAN e Cina cooperano più proficuamente sono le infrastrutture digitali, che consentirebbero di creare le condizioni preliminari per sviluppare il settore del commercio virtuale. Le economie dell’Indo-Pacifico sembrano disposte a trarre vantaggio dalla cooperazione con Washington, senza rinunciare all’intenso rapporto con Pechino. La stabilità regionale resta la massima priorità di tutti gli attori coinvolti, per questo dovranno essere mitigate le conseguenze geopolitiche più dirompenti di un accordo commerciale digitale con gli Stati Uniti.