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Timor Est, dopo le elezioni si punta all’ingresso nell’ASEAN

I cittadini della più recente democrazia asiatica hanno scelto Ramos-Horta come nuovo leader. Si tratta di un ritorno per il premio Nobel che vuole l’ingresso nell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico

Timor Est ha scelto il proprio Presidente: si tratta di José Ramos-Horta, premio Nobel per la Pace nel 1996 e figura chiave della Resistenza all’occupazione indonesiana (1975-1999). Già presidente tra il 2007 e il 2012, Ramos-Horta ha sfidato al ballottaggio il presidente uscente Francisco “Lu Olo” Guterres. È la quinta elezione per una delle democrazie più giovani d’Asia, e la prima in era post-pandemica. Non sono quindi poche le sfide che la nuova amministrazione dovrà affrontare, tra crisi economica e nuove turbolenze politiche nella regione. 

Elezioni a Timor Est: una panoramica

Timor Est, noto anche come Timor Leste o Timor Lorosa-e, è la prima democrazia asiatica a nascere nel XXI secolo. Il dominio coloniale portoghese è durato circa 400 anni fino all’indipendenza, dichiarata unilateralmente nel 1975. Un’indipendenza durata poche settimane, fino al 7 dicembre dello stesso anno. La leadership politica emergente si era progressivamente formata intorno alle forze indipendentiste di stampo socialista: l’allora Presidente indonesiano Suharto poté quindi giustificare l’invasione e la repressione degli est-timoresi appoggiandosi su una politica estera nazionalista e anticomunista. Nel 1999 un referendum supervisionato dalle Nazioni Unite confermò la richiesta di autonomia da parte dei cittadini di Timor Est. Solo nel 2002 arrivò l’indipendenza ufficiale, dopo quasi tre anni di ripercussioni da parte delle forze di occupazione.

Il ventesimo anniversario dell’indipendenza – il 20 maggio 2022 – sarà il giorno dell’inizio della nuova presidenza. L’elezione di Ramos-Horta conferma la prevalenza di figure chiave della Resistenza nel panorama politico di Timor Est. Non è una caratteristica indifferente in un paese dove solo il 33% circa della popolazione ha più di 30 anni. La maggior parte del 1,3 milioni dei cittadini, infatti, ha solo un’esperienza limitata della violenza degli anni dell’occupazione. Molto più familiari a molti est-timoresi sono, invece, un’economia e un mercato del lavoro stagnanti. Le condizioni di vita sono lentamente migliorate nel corso dell’ultimo decennio, ma il 42% della popolazione vive ancora in stato di povertà. Il sistema economico è esposto agli shock esterni in quanto poggia su pochi settori vitali. Al di fuori degli aiuti internazionali, la maggior parte delle entrate dipende da gas e petrolio, che costituiscono il 90% delle esportazioni totali (e vedono il coinvolgimento anche di imprese italiane come Eni). Anche il caffè è un bene che porta ricchezza nel paese, ma non abbastanza per stabilizzare un mercato del lavoro legato in buona parte all’economia informale.

Il futuro di Timor Est e l’ASEAN

All’alba dell’elezione a nuovo presidente di Timor Est, José Ramos-Horta ha fatto riferimento all’obiettivo nell’ingresso di Timor Est nell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) entro il 2023. Una promessa pronunciata per la prima volta oltre dieci anni fa durante il primo mandato, quando venne sottoposta ufficialmente la candidatura di Dili all’entrata nel gruppo. L’anno prossimo la presidenza di turno passerà all’Indonesia e, come afferma il neoeletto presidente, entrare nell’ASEAN in quest’occasione “sarebbe un gesto altamente simbolico”. L’ingresso di Timor Est nel blocco è stato posticipato a più riprese perché parte dei Paesi membri giudica la sua economia ancora “troppo sottosviluppata”. 

I Paesi ASEAN che più hanno intrecciato rapporti con Dili sono Cambogia e Filippine. Manila viene spesso associata a Timor Est in quanto “sorella maggiore” tra le (poche) realtà di fede cattolica in Asia. Le forze armate filippine sono inoltre coinvolte negli affari est-timoresi dai tempi della transizione a repubblica indipendente e contribuiscono all’addestramento dell’esercito, insieme a Portogallo, Brasile e – in piccola parte – Stati Uniti. Phnom Penh ha una parziale influenza sulla politica estera est-timorese: negli ultimi anni Dili ha cercato i favori della Cambogia in vista della presidenza ASEAN nel 2022, ma anche il legame comune con la Cina ha spesso favorito l’allineamento dei due Paesi in diverse questioni internazionali (da ultimo, Phnom Penh ha spinto per l’astensione di Dili al voto Onu per la condanna del colpo di stato in Myanmar).

Il rapporto con la Cina è una delle chiavi per comprendere l’importanza di Dili sullo scacchiere asiatico. Analogamente ad altre piccole economie della regione, gli investimenti in arrivo da Pechino rappresentano un’opportunità di crescita fondamentale. Opportunità che parte dello stesso blocco ASEAN favorirebbe per non addossarsi i costi dello sviluppo di Timor Est. Ma la situazione è molto più complessa, e l’allargamento della Repubblica Popolare nei piccoli Paesi dell’Asia pacifico rimane un segnale d’allerta per la stabilità dell’area. La Cina è stata il primo paese ad avviare i rapporti diplomatici con il paese nel 2002 e da allora ha contribuito in larga parte agli investimenti necessari per la ripresa economica. Molte infrastrutture a Timor Est sono opera di imprese cinesi (tra cui i palazzi governativi e alcune strutture militari). E le opportunità non sono terminate con la ricostruzione: l’intero sistema portuale deve essere potenziato per aprire il Paese ai commerci internazionali, mentre sono ancora numerosi i bacini di petrolio e gas a non essere ancora stati scoperti e sfruttati.Infine, un fattore sempre più determinante per il destino di Timor Est sarà il cambiamento climatico. Il paese è soggetto a fenomeni climatici estremi che si stanno intensificando con il passare degli anni. Il solo Governo non possiede le risorse per prevenire e riparare i danni che alluvioni, terremoti e frane causano a economia e società. Tre quarti della popolazione dipendono da un’agricoltura di sussistenza: questo significherà, quindi, una maggiore vulnerabilità ai limiti della sopravvivenza. E, quindi, un crescente rischio in termini di indipendenza economica e politica.

Cooperazione India-ASEAN: le implicazioni regionali

Sono numerose le opportunità di cooperazione tra Nuova Delhi e i Paesi del Sud-est asiatico, così come è alto il potenziale per approfondire tale relazione.

Articolo di Aishwarya Nautiyal

Con l’emergere dello sviluppo economico e di una maggiore influenza da parte dell’India, uno dei principali obiettivi dei responsabili politici è stata la cosiddetta “Look East Policy” (politica rivolta a est), in cui l’ASEAN ha assunto un ruolo fondamentale, favorendo la collaborazione allo scopo di promuovere gli interessi commerciali, economici e di sicurezza dell’India. Uno dei principali accordi è stato il “Free Trade Agreement”, ossia un accordo di libero scambio firmato da India e ASEAN a Bali, in Indonesia, nel 2009. Le mutevoli dinamiche internazionali e la crescente importanza della regione indopacifica rendono questa partnership un nodo centrale per la stabilità e la realizzazione di un coordinamento sostenibile nell’odierno mondo globalizzato. Un gruppo di dieci nazioni con variazioni nella crescita economica e molte risorse a disposizione ha gettato solide basi grazie a una liberalizzazione delle tariffe pari al 90%, rendendo questo FTA uno dei più grandi accordi di libero scambio nel mondo, e comprende inoltre alcuni prodotti pregiati come l’olio di palma, il tè e il caffè.

L’India prevede di esportare 46 miliardi di dollari nell’anno finanziario 2022, ed è tra le più grandi regioni commerciali verso il raggiungimento dell’obiettivo di 400 miliardi di dollari a livello globale. La cooperazione principale proviene dal settore ingegneristico, in cui l’ASEAN detiene il 15% della quota delle esportazioni indiane, pari a 35,3 miliardi di dollari nel 2021 e con un nuovo obiettivo fiscale di 105 miliardi di dollari per il 2022. Nello scenario globale, questa cooperazione sta diventando un’importante catena di approvvigionamento e del valore incentrata sulla partnership reciproca e sui mercati dell’export. L’ASEAN stessa è il terzo partner esportatore e il quinto partner commerciale dell’India al mondo. Mentre si guarda alla crescente interazione tra i due partner, tra i responsabili politici indiani hanno suonato un campanello d’allarme, dal momento in cui si è visto come la riduzione delle tariffe stia portando una maggiore partecipazione da parte dell’ASEAN nei mercati indiani rispetto a quanto l’India partecipi nei mercati competitivi delle economie ASEAN. Ciò è dovuto al fatto che alcuni dei Paesi più importanti come Singapore, Malesia e Indonesia sono economie esportatrici, ed hanno un vantaggio competitivo con un rapporto più alto tra PIL ed export di beni.

Il Kerala è uno dei maggiori esportatori, comprese le esportazioni nazionali di prodotti agricoli. La gomma, il caffè, il pesce sono la principale fonte di reddito, mentre la minore produttività dovuta all’aumento delle importazioni per poter raggiungere prezzi competitivi sta danneggiando l’industria agricola. L’importazione di pesce, gomma e olio di palma a minor prezzo dalla Malesia e dall’Indonesia può costituire uno dei maggiori ostacoli; ha già colpito la produzione locale  causando una riduzione della domanda. L’aumento della concorrenza dovuta alle importazioni dall’ASEAN ha posto alcune sfide al governo, che ha l’arduo compito di mantenere l’equilibrio tra agricoltura locale e liberalizzazione del commercio. Un’altra grande sfida è la variazione della stabilità economica e politica dell’ASEAN. Il Myanmar, in cui persiste l’instabilità politica, è il sorvegliato speciale nella visione che ha Nuova Delhi del Sud-est asiatico.

Un’altra sfida che questa cooperazione ha dovuto affrontare è il boicottaggio dell’esportazione di olio di palma malese in India da parte dei commercianti, che ha suscitato forti preoccupazioni tra gli Stati membri. L’India ha giudicato l’intervento della Malesia un’ingerenza nei propri affari interni quando il governo indiano ha revocato lo statuto speciale del Kashmir nel 2019. In quest’occasione, la dichiarazione del primo ministro malese Mahathir Mohamad, che si opponeva alla revoca, ha provocato una nuova spaccatura fra i due Paesi, in seguito a cui l’India ha deciso di imporre limiti sulle importazioni di olio di palma dalla Malesia. Queste dinamiche politiche e alcune tensioni mettono in evidenza un aspetto importante: è necessario un forte coordinamento da parte della diplomazia per attuare importanti misure di confidence building. Ciononostante, emergono sfide e interessi strategici, e i negoziati attraverso dialoghi multilaterali stanno facendo in modo che si trovino alternative per affrontare tali questioni. La crescente importanza dell’ASEAN e dell’Oceano Indiano fa emergere nuove possibilità in cui le controversie nel Pacifico possono essere considerate come un nuovo punto focale per migliorare la partnership strategica e modificare le dinamiche riguardanti la sicurezza.

Il dilemma di Malacca è uno degli aspetti centrali in cui le isole indiane di Andamane e Nicobare sono posizionate strategicamente nei pressi della principale rotta commerciale dello Stretto di Malacca, e la sua posizione geografica è condivisa con le principali economie come Tailandia, Malesia, Singapore e Indonesia; questo fa sì che l’India abbia confini marittimi con i vicini Paesi  dell’ASEAN. Negli ultimi anni si è rafforzata la cooperazione reciproca in vari ambiti del settore della difesa, fra cui le esercitazioni militari, lo sviluppo tecnologico, il commercio di armi e lo sviluppo reciproco delle infrastrutture. Lo stretto di Malacca è una delle importanti rotte commerciali che si trova sotto la supervisione degli Stati regionali e in cui vengono promosse  collaborazioni reciproche per garantire la libera navigazione e il commercio fra Paesi in conformità con le leggi internazionali, anche allo scopo di promuovere ed esplorare nuove opportunità economiche in scenari geopolitici mutevoli e complessi. D’altro canto, la cooperazione nel settore della difesa fra India e Vietnam, la vendita, per la prima volta, di missili supersonici Brahmos alle Filippine e l’utilizzo di jet da combattimento Tejas da parte dell’aeronautica militare della Malesia sono da ritenersi un elemento di confidence building che si inserisce in varie dinamiche di cooperazione strategica e sicurezza, condividendo le preoccupazioni reciproche sulle controversie regionali.

Rafforzare questo rapporto sfaccettato, dalla cooperazione politica e per la sicurezza alla partecipazione sociale, culturale e linguistica, è un obiettivo della nuova visione dell’India nell’ “Act East Forum” per i suoi Stati nord-orientali e il suo sviluppo delle infrastrutture, con l’aiuto di investimenti giapponesi che mirano ad una maggior collegamento con i vicini Paesi dell’ASEAN. Il porto di Sittwe nella provincia di Rakhine, in Myanmar, che è stato sviluppato con l’intento di sviluppare le infrastrutture e i trasporti, e garantire inoltre l’accesso alla Baia del Bengala al Mizoram, Stato nord-orientale dell’India privo di sbocco sul mare, e più all’interno. Un altro progetto trilaterale riguarda l’autostrada che collega Moreh (India) a Mae Sot (Thailandia) passando per Mandalay (Myanmar), ed è un esempio della collaborazione India-ASEAN per costruire nuove infrastrutture, con futuri piani di espansione verso Laos, Cambogia e Vietnam. Questi progetti hanno destato forte interesse nel governo del Bangladesh, alla ricerca di un’opportunità nello sviluppo delle infrastrutture fra India e ASEAN collegando Dhaka per estendere la propria rete infrastrutturale; il Bangladesh può inoltre fornire l’accesso a Paesi senza sbocco sul mare come il Nepal e il Bhutan ai membri dell’ASEAN attraverso l’India nord-orientale. Riconoscere questo potenziale di sviluppo reciproco può approfondire e rafforzare nuove prospettive per la regione, forgiando un forte legame storico-culturale tra i partner regionali e la loro ricca storia comune.

Primi passi nella gestione dei rifiuti plastici

Entro il 2024 l‘Onu e i Paesi asiatici vogliono realizzare il primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici

L’80% dei rifiuti plastici mondiali ha origine nel continente asiatico e più di un terzo deriva dalle Filippine. Per contrastare il fenomeno, i maggiori produttori di plastica dell’Asia, dalla Cina all’India, dall’Arabia Saudita al Giappone, hanno partecipato, nell’ambito delle Nazioni Uniti, alla stesura di un piano per la realizzazione del primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici entro il 2024.

“Un momento storico”, è stato definito così l’accordo raggiunto il 2 marzo dal Programma sull’ambiente dell’ONU. Ma gli scettici non hanno mancato di sottolineare le criticità di questo accordo. Il trattato infatti si concentra principalmente sul riciclaggio della plastica monouso, ma gli esperti dell’ambiente continuano ad insistere che per avere un impatto significativo bisogna fare i conti anche con la limitazione della produzione di prodotti in plastica. Una prospettiva che non piace ai governi di quelle nazioni con un’economia improntata sull’industria petrolchimica.

L’accordo, però, è più complesso: i Paesi hanno concordato una risoluzione che prevede il monitoraggio dell’inquinamento da plastica lungo tutta la filiera produttiva, dalla creazione allo smaltimento. Osservati speciali saranno i Paesi asiatici considerati i maggiori responsabili della dispersione di rifiuti plastici nell’ambiente, in particolar modo le Filippine. Anche la Malesia, destinazione preferita da molte altre nazioni per lo smaltimento della plastica, sarà al centro dell’attenzione. 

Secondo alcuni esperti, rendere più costoso il processo di smaltimento è l’unico modo per incentivare le Nazioni al riciclo. Non a caso, la maggior parte dei rifiuti plastici deriva dai Paesi del Sud-Est asiatico, dove le politiche sullo smaltimento dei rifiuti sono fin troppo permissive e le concentrazioni di plastica finiscono perlopiù bruciate nelle discariche o, direttamente, negli oceani.

Questa situazione, oltre che dannosa per l’ambiente, si traduce anche in una consistente perdita economica. Una serie di studi condotti dalla Banca mondiale conferma infatti come in Tailandia, Malesia e Filippine si perde oltre il 75% del valore materiale della plastica riciclabile – l’equivalente di sei miliardi di dollari l’anno – quando viene utilizzata una sola volta. Secondo il Programma sull’Ambiente ONU, globalmente vengono spesi tra i 6 e 19 miliardi di dollari all’anno per ripulire la sporcizia che deriva dall’inquinamento da plastica.

Una possibile soluzione, auspicata dagli esperti, potrebbe essere la creazione di centri di riciclaggio a livello internazionale, dove far confluire i rifiuti plastici. Un’altra area di interesse, che il trattato dovrebbe prendere in considerazione riguarda il coordinamento della strategia tra diversi Paesi e regioni, per appianare le discrepanze nelle azioni anti inquinamento. Senza contare che gli effetti dell’inquinamento si manifestano soprattutto nelle aree geografiche più arretrate. Questo significa che, anche se questo trattato è già stato incoronato come “il più grande accordo dai tempi di Parigi”, la strada è ancora lunga. 

ASEAN history and politics

Partito il primo corso “ASEAN History and Politics” diretto dall’Associazione Italia-ASEAN

Lo scorso mercoledì 23 marzo ha avuto inizio, presso l’Istituto Italiano di Studi Orientali della Sapienza Università di Roma, il primo corso interamente in lingua inglese su “Storia e politica dell’ASEAN” che l’Associazione Italia-ASEAN ha l’onore di dirigere e condurre. Il ciclo di lezioni si protrarrà fino a giugno e si inserisce all’interno della laurea in Global Humanities dell’Ateneo romano. Circa 70 studenti provenienti da tutto il mondo, dall’Indonesia passando per il Giappone fino all’Africa e all’Europa, affronteranno nei prossimi mesi le più importanti tematiche riguardanti la regione del Sud-Est asiatico: dagli aspetti storici a quelli economici e geopolitici, dai diritti umani al commercio internazionale, passando per la transizione digitale e sostenibile della regione. Durante la prima lezione, il Vicepresidente scientifico dell’Associazione, il prof. Romeo Orlandi, ha effettuato una panoramica sulla storia dell’Association, dalla fondazione alle sfide della pandemia e dei prossimi anni, compiendo un’attenta analisi sulle peculiarità dei singoli Paesi. Nelle prossime lezioni le studentesse e gli studenti avranno la possibilità di ascoltare le testimonianze di alcuni degli Ambasciatori dei Paesi ASEAN a Roma e di diversi analisti della regione, si confronteranno, inoltre, con i temi centrali che riguardano il Sud-Est asiatico, con laboratori e presentazioni che gli permetteranno di entrare in prima persona nel vivo di tutte le questioni. Questo corso sarà l’ennesima occasione di migliorare il grado di conoscenza e la percezione dell’ASEAN nel nostro Paese. Obiettivo al quale l’Associazione Italia-ASEAN lavora sin dalla sua fondazione e che ritiene essenziale per accompagnare presso istituti universitari, opinione pubblica e decision maker una ancora maggiore consapevolezza di una regione del mondo con la quale abbiamo molti interessi in comune.

In ASEAN cresce sempre di più il “femtech”

Il “femtech” – l’insieme di software, prodotti o servizi che utilizzano la tecnologia per migliorare la salute femminile – nasce come risposta al bisogno consapevole di informazioni, trattamenti specifici e supporto sanitario delle donne di tutto il mondo. Nell’Asia-Pacifico, dove molti temi come aborto, mestruazioni e menopausa sono talvolta ancora considerati taboo, il settore è in rapida crescita, con Singapore a guida della tendenza.

Le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale, eppure le aziende tecnologiche che soddisfano le loro specifiche esigenze sanitarie non rappresentano che una quota minima del mercato tecnologico globale. Yan Li, professoressa di trasformazione digitale presso la Business School ESSEC Asia-Pacifico di Singapore, sostiene che la salute delle donne sia stata storicamente messa da parte non solo dai governi ma dalla stessa industria medica. In un’intervista al Nikkei-Asia ha detto che “l’assistenza sanitaria femminile è considerata un settore di nicchia. Molti studi sui farmaci non vengono nemmeno testati su soggetti di sesso femminile per cui le donne possono facilmente subire un’overdose accidentale”. Le affermazioni di Yan Li trovano riscontro anche in uno studio pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology nel 2018: solo il 22% dei soggetti coinvolti negli studi farmacologici di Fase 1 sono donne.

Coniato nel 2016 da Ida Tin, fondatrice di Clue, un’app di tracciamento dell’ovulazione e del ciclo mestruale, il termine “femtech” si riferisce a qualsiasi software, prodotto o servizio che utilizza la tecnologia per migliorare la salute delle donne. Una risposta al bisogno consapevole di informazioni, trattamenti specifici e supporto sanitario delle donne di tutto il mondo.

Nel 2019, l’industria femtech ha generato 820,6 milioni di dollari di entrate globali e ha ricevuto 592 milioni di dollari in investimenti in capitale di rischio, secondo PitchBook, società di ricerca e dati finanziari. Una moltitudine di app e società tecnologiche è entrata sul mercato per soddisfare le esigenze specifiche delle donne, incluso il monitoraggio delle mestruazioni e della fertilità e soluzioni per la gravidanza, l’allattamento al seno e la menopausa, fino a programmi specifici per diagnosi e monitoraggio di patologie come il cancro al seno o alla cervice.

Nel maggio 2021 un articolo del New York Times titolava Is ‘Femtech’ the Next Big Thing in Health Care?: l’anno scorso, infatti, il report FemTech Analytics contava già 1.550 aziende femtech in tutto il mondo con il 51.9% del totale localizzato in Nord America, il 23.5% in Europa, il 13.9% in Asia, il 4.7% in Australia, il 4.4% in Sud America e l’1.6% in Africa.

FemTech Analytics prevede però che entro il 2026 sarà la regione Asia-Pacifico ad avere la crescita più rapida al mondo delle app per la salute delle donne. Nel sud-est asiatico, temi come l’aborto, il controllo delle nascite e persino le mestruazioni sono sempre stati tabù. “Ci sono diverse ragioni per cui i problemi di salute delle donne non sono propriamente trattati in questa regione del mondo. La prima è però senza dubbio la scarsa o quasi nulla educazione sessuale, che impedisce alle donne di conoscere e cercare una migliore cura del proprio corpo”, ha spiegato Yan Li in un’intervista a TechWire Asia. Nella regione ancora oggi è comune che le donne rimangano nascoste durante il ciclo mestruale. In alcune comunità del Laos, del Nepal o dell’Indonesia, ad esempio, le mestruazioni sono considerate impure o sporche. Questo rende difficile per le donne andare a scuola o svolgere le attività quotidiane e praticamente quasi impossibile ricevere la giusta e appropriata assistenza in caso di necessità. 

Ma è della necessità che si fa virtù. Ad oggi secondo l’ultimo report di Femtech Analytics esistono 24 società femtech a Singapore, 6 in Thailandia, 3 in Indonesia, Vietnam e Filippine rispettivamente e 2 in Malesia. Tra queste, Sehati, fondata dall’indonesiana Anda Waluyo, è basata sull’IoMT (Internet of Medical Things) e mira al monitoraggio fetale e all’accesso a consultazioni specialistiche per le madri in dolce attesa tramite app; EloCare, fondata a Singapore da Mabel Yen Ngoc Nguyen monitora e registra tramite dispositivi indossabili dati relativi ai sintomi della menopausa e infine ZaZaZu, fondata ugualmente a Singapore da Jingjin Liu, propone una piattaforma per educazione, prodotti e servizi digitali legati alla sessualità femminile.

Il settore è dunque fiorente e le donne asiatiche talmente entusiaste da aver reso possibile la nascita di FemTech Asia, “una piattaforma per la ricerca di lavoro fondata da giovani donne che desiderano sviluppare la propria carriera nei mercati tecnologici asiatici”.

Che cosa significano i numeri sulla spesa militare dei Paesi Asean

L’Asia è il nuovo centro delle dinamiche globali, e da maggiori interessi derivano maggiori responsabilità: una panoramica sulla percezione della sicurezza nella regione 

Le Filippine cercano di difendere la sovranità sul Mar cinese meridionale dal 2013. In quell’anno, Manila presentò ufficialmente un’istanza contro la Cina presso la Corte arbitrale permanente dell’Aia e vennero destinati 3,38 miliardi di dollari alla Difesa. Si tratta di uno dei maggiori investimenti dell’arcipelago nel comparto militare dell’ultimo decennio, che hanno raggiunto il picco nel 2017, quando la percezione dell’assertività cinese nella regione ha iniziato a farsi più evidente. Ma l’obiettivo non era solo quello di dover costruire un deterrente in caso un ipotetico conflitto nel Mar cinese meridionale: la “guerra alla droga” del Presidente Rodrigo Duterte si era trasformata in una campagna massiccia e indiscriminata contro la criminalità organizzata, e mancavano i mezzi per gestirla. Mentre la comunità internazionale assisteva a un’escalation della violenza nel Paese e cercava di prendere le distanze, a rifornire l’esercito flippino era rimasta lei: la Repubblica Popolare Cinese.

Non è semplice analizzare la spesa militare di uno Stato, come viene gestita e quali presupposti può creare in politica estera. I governi spesso stringono contratti per la fornitura di armi con Paesi che potrebbero essere la ragione stessa per migliorare l’arsenale militare e dimostrarsi “preparati” in caso di conflitto. Ma non mancano le ragioni interne per non abbassare la guardia. È quanto accade in Asia dall’inizio degli anni Duemila a oggi, in una regione che sta caratterizzando sempre di più le dinamiche e gli interessi internazionali. In questo scenario si gioca la partita tra le maggiori potenze globali, e i Paesi dell’area non possono che rispondere prendendo misure preventive: armarsi, ammodernarsi e inserirsi nelle dinamiche più vantaggiose della globalizzazione. E le crisi degli ultimi anni hanno contribuito ad aumentare la percezione di insicurezza.

Il report Sipri

Secondo il report del 2019 dello Stockholm International Peace Institute (Sipri) dedicato al Sud-Est asiatico, è in questa regione che l’acquisto di armi e la spesa per la Difesa hanno raggiunto la maggiore impennata degli ultimi venti anni, superando le tendenze delle altre zone. Tra le cause individuate dagli analisti, l’ascesa della potenza cinese, ma anche i conflitti interni o le tensioni lungo i confini. Ma l’elemento di allarme, evidenzia il rapporto, è un altro: in Asia mancano – o sono poco chiari – i meccanismi di gestione dei conflitti armati e delle contese territoriali. A creare questo pattern contribuiscono sia la “Asean way” nelle questioni internazionali che la politica estera cinese, entrambe caratterizzate – spesso – da tentativi di evitare il confronto diretto e da atteggiamenti impliciti e spesso criptici. Il caso più esemplare rimane proprio quello del Mar cinese meridionale, dove non solo i movimenti di mezzi militari, ma anche l’esplorazione di giacimenti di gas e minerali, o la pesca illegale, avvengono indiscriminatamente nonostante i Paesi abbiano ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – e nonostante la promessa di arrivare presto a un “codice di condotta”.

Entrando nel dettaglio, la spesa militare dei dieci Paesi ASEAN è aumentata del 33% tra il 2008 e il 2017, anche se le motivazioni dietro a questa scelta sono differenti. I Paesi coinvolti nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale sono quelli che hanno incrementato di più gli investimenti: una risposta alle azioni unilaterali e considerate “sospette” di navi e aerei cinesi. Negli altri casi, però, non sono meno evidenti la preoccupazione e l’incertezza nei confronti del vicinato e della porosità dei confini, che favoriscono lo spostamento di gruppi ribelli: è quanto viene dichiarato nella maggior parte dei contratti per l’importazione di armi, che citano la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e il trasferimento di tecnologie avanzate per migliorare la qualità delle operazioni militari. A lanciare un allarme su questo ultimo obiettivo sono stati anche casi recenti di inefficienza degli asset militari, come la drammatica fine dell’equipaggio del sottomarino indonesiano indonesiano KRI Nanggala-402.

Esportatori e importatori

Dopo una prima fase di dipendenza da Usa, Russia o Cina, negli ultimi anni i paesi asiatici hanno iniziato a diversificare i propri fornitori di armi e tecnologie militari. Oggi, confermano i dati Sipri, una parte significativa del commercio di armi fluisce verso i mercati asiatici. È qui che arrivano il 37% delle esportazioni dagli Usa, il maggiore esportatore di armi al mondo, così come il 55% di quelle russe, sebbene in decrescita. Altri importanti esportatori sono invece il Giappone e la Corea del Sud, mentre l’India occupa una piccola quota sul mercato birmano – che con l’arrivo della giunta militare al potere cerca di ridurre la dipendenza maturata nei confronti di Pechino.

In Malesia, oltre alla Corea, hanno un ruolo rilevante le importazioni di armi da Spagna e Turchia. La Francia non rappresenta un attore fondamentale come esportatore di armi ma, con il crescere degli interessi internazionali nelle acque asiatiche, cerca di giocare un ruolo nelle operazioni di monitoraggio ed esercitazione: l’ultimo caso risale alle operazioni del 2021 nell’Oceano indiano nel quadro dell’accordo Quad. Proprio la neonata alleanza voluta dall’amministrazione Biden è, per quanto fragile, un elemento che contribuisce a influenzare la percezione della sicurezza in Asia. 

Tensioni sopite e nuove minacce

Sebbene l’Asia presenti una bassa percentuale di conflitti, concentrati soprattutto all’interno dei paesi stessi, non mancano i presupposti per un’escalation delle tensioni in alcune zone calde della regione. Per citarne alcuni: la disputa tra Malesia e Brunei intorno allo sfruttamento del tratto di mare comune, le rivendicazioni di Cambogia e Thailandia lungo il confine e le rivendicazioni delle Filippine sul distretto (oggi malese) di Sabah.

Infine, in un’ottica di rinnovo della Difesa, non è meno importante il ruolo delle crisi globali. Uno di questi fattori è la crescente presenza di Washington e degli alleati nel Pacifico per monitorare la regione come pratica di contenimento della Cina. Anche il conflitto in Ucraina pone dei nuovi interrogativi (o, meglio, preoccupazioni) sull’evoluzione delle relazioni globali: da un lato le sanzioni alla Russia rappresentano un imprevisto per i paesi che ricevono assistenza e armi da Mosca (come Vietnam e Myanmar), dall’altro la stessa Kiev esporta una piccola parte di armi (in particolare, missili) verso il Vietnam e Thailandia. In ultima analisi, l’impasse diplomatica e la violenza del conflitto potrebbe non solo aumentare l’incertezza nei confronti delle proprie capacità e risorse militari, ma anche aprire alla possibilità di impotenza della comunità internazionale nell’intervenire sul campo.

Siccità record nel bacino del Mekong: come mitigare i rischi ambientali

Il Mekong è tra i corsi d’acqua più lunghi del continente asiatico e rappresenta non solo una vitale fonte di sostentamento per le popolazioni che vivono nel suo bacino idrografico, ma anche un oggetto di contesa tra i governi locali. L’ASEAN può giocare un ruolo fondamentale nella promozione della cooperazione regionale e del dialogo con la Cina.

Il Mekong nasce sull’altopiano tibetano in Cina e si snoda per più di 4000 chilometri attraversando Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam prima di sfociare con un ampio delta nel Mar Cinese Meridionale.  Il fiume ricopre un ruolo chiave nella regione del Sud-Est asiatico: dalle sue acque dipendono non solo il sostentamento di oltre 60 milioni di persone, ma anche gli equilibri geopolitici regionali.

Per il quarto anno consecutivo, la regione si avvia ad affrontare un’emergenza idrica che, oltre a risentire dell’aggravamento della crisi climatica, riflette la conflittualità che caratterizza le politiche di gestione dei flussi. La Mekong River Commission (MRC) – organizzazione intergovernativa che raccoglie Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, i quattro Paesi del basso bacino fluviale – ha citato “bassi flussi regionali, fluttuazioni idriche e siccità” tra i rischi che le autorità locali sono chiamate ad affrontare con urgenza. Il governo cambogiano ha comunicato che le precipitazioni della stagione delle piogge “non saranno sufficienti per soddisfare i bisogni immediati” e ha raccomandato un utilizzo parsimonioso delle preziose risorse idriche, in particolare nelle zone rurali.

Come evidenziato nell’ultimo rapporto della Mekong River Commission pubblicato a inizio gennaio, le significative anomalie che hanno colpito il regime idrologico a partire del 2015 sono il risultato della pericolosa combinazione tra rischi naturali e pressione antropica. La scarsità di precipitazioni si somma alle attività di sfruttamento intensivo delle acque, esacerbando l’impatto devastante su ecosistemi, attività economiche e sul sostentamento delle popolazioni locali. 

Secondo quanto emerge da uno studio congiunto realizzato dallo Stimson Center e dalla società di ricerca Eyes on Earth, in alcune aree del bacino del Mekong “il prelievo di acqua e il rilascio innaturale delle dighe hanno completamente alterato il flusso naturale del fiume”. L’acqua viene infatti trattenuta dai sistemi di stoccaggio durante la stagione umida, mentre i flussi aumentano relativamente nella stagione secca, quando però il livello delle acque è troppo basso per fare la differenza.

La competizione per il controllo dei flussi del Mekong è resa manifesta dal numero di dighe che continuano a sorgere lungo il suo percorso: undici le principali, la maggior parte delle quali si trova in territorio cinese, a cui vanno sommate le centinaia di costruzioni minori costruite lungo gli affluenti e utilizzate per le attività di pesca e agricoltura. Fin dagli anni ‘90, Pechino è stata impegnata in un ambizioso progetto idroelettrico che si è sostanziato nella costruzione di dighe e centrali lungo corso superiore del fiume nella provincia meridionale dello Yunnan. Inoltre, attraverso la concessione di ingenti finanziamenti, le autorità cinesi hanno appoggiato le ambizioni del vicino laotiano, che non ha fatto segreto di voler puntare sull’idroelettrico per convertirsi nella “batteria d’Asia” e rilanciare la propria economia.

In risposta ai crescenti rischi – con i livelli del fiume che raggiungono i valori più bassi livelli mai registrati negli ultimi 60 anni – la Mekong River Commission invita i sei Paesi coinvolti “ad agire con determinazione” e suggerisce l’istituzione un meccanismo di notifica comune sulle fluttuazioni anomale del livello dell’acqua e un sistema coordinato di gestione di bacini e dighe.

Nonostante la Cina abbia negato le accuse di approfittare della posizione strategica a monte del fiume per capitalizzare unilateralmente le acque comuni ed esercitare pressione politica sui Paesi vicini, la riluttanza a condividere i dati relativi al funzionamento delle dighe e la stessa assenza all’interno della Mekong River Commission evidenziano il persistere di tensioni politico-diplomatiche che compromettono la cooperazione regionale in tema di gestione delle risorse.

Secondo gli esperti dello Stimson Center e di Eyes on Earth, la soluzione migliore sembrerebbe essere un accordo internazionale di condivisione dell’acqua che garantisca “un livello di base del flusso dalle dighe a monte durante i periodi di siccità”, con l’obiettivo di scongiurare crisi future e attenuare simultaneamente la sfiducia nei confronti della Cina. In questo contesto, si rende necessaria una più stretta sinergia tra i segretariati della MRC e dell’ASEAN. L’Organizzazione può infatti contribuire a dare maggiore centralità al progetto di gestione sostenibile e coordinata del Mekong all’ interno dell’agenda politica regionale. Simultaneamente, resta cruciale il ruolo dell’ASEAN nel promuovere un percorso di sviluppo condiviso e sostenibile con la partecipazione della Cina, la quale auspicabilmente non resterà a lungo indifferente a fronte dei vantaggi reciproci che una convivenza pacifica lungo il fiume più produttivo della regione potrebbe offrire.

Il Boom del caffè nei mercati asiatici

Quasi un terzo della produzione mondiale di caffè proviene dal continente asiatico

C’è una nuova moda che ha contagiato tutta l’Asia. Una bevanda simbolo di gusto e raffinatezza, ma anche dell’influenza occidentale nella regione. Stiamo parlando del caffè. Negli ultimi cinque anni il consumo di caffè nei paesi asiatici è cresciuto dell’1,5%; una tendenza che segue l’aumento della classe media, desiderosa di provare sempre prodotti nuovi. Ma si tratta anche di un fenomeno culturale molto esteso, che deriva dal colonialismo e si intreccia con i trend di oggi che arrivano da ovest. In Cina, per esempio, il gusto per questa bevanda viene tramandato soprattutto da persone che hanno studiato o lavorato all’estero. La pandemia ha tuttavia ridotto notevolmente gli spostamenti e i cultori del caffè non hanno potuto che rimanere affascinati dalle varietà locali della bevanda. Non a caso negli ultimi due anni, i produttori di caffè asiatici stanno iniziando a rivaleggiare con le grandi industrie occidentali, come Starbucks e Costa. Ed oggi il 29% dei chicchi di caffè nel mondo proviene proprio dal continente asiatico.

Tra i principali produttori di caffè c’è il Vietnam, un vero e proprio colosso dell’industria. Fin da quando i colonizzatori francesi hanno raccolto per la prima volta le “ciliegie cremisi” – come venivano soprannominati i chicchi di caffè – questa bevanda è rimasta parte della tradizione vietnamita. Come da noi in Italia, anche in Vietnam si usa “andare a prendere un caffè” come metodo per socializzare. E sono soprattutto i social come TikTok a trainare l’interesse delle masse per il caffè, coinvolgendo un pubblico sempre più ampio: dai giovani che vogliono frappuccini sul modello di Starbucks ai consumatori “esperti”, intrigati dai procedimenti di preparazione e tostatura dei chicchi. Se prima della pandemia l’obiettivo principale era l’esportazione, oggi ci si è resi conto che il consumo domestico è altrettanto importante.

Anche l’Indonesia, seconda produttrice di caffè nella regione, ha osservato un incremento delle vendite locali negli ultimi anni. Spopolano anche le varianti locali, come il Kopi Susu, un caffè freddo con latte e zucchero di palma. Il caffè, efficacemente distribuito anche durante la pandemia con i servizi di delivery non ha mai smesso di circolare, attirando sempre più estimatori e curiosi, desiderosi di supportare i prodotti locali anziché consumare marchi stranieri. Senza contare che il 90% degli indonesiani è di religione musulmana, e quindi alla ricerca di una bevanda sociale che non contenga alcol.

La Cina sta vivendo un’esperienza simile. L’arrivo di catene straniere come Starbucks e Costa Coffee alla fine degli anni 90’ hanno innescato la cultura del caffè nelle metropoli, attirando i giovani consumatori. Ma con l’emergere di catene locali e chioschi lungo le strade negli ultimi anni, l’interesse del pubblico si è spostato verso il consumo di prodotti locali. Una scelta derivata, oltre che dalla pandemia, anche dalle tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Secondo un rapporto del marzo 2021 del quotidiano finanziario Yicai, Shanghai ha ora il maggior numero di caffetterie indipendenti al mondo, con 6.913 punti vendita. Più dei 3.826 a Tokyo, 3.233 a Londra e 1.591 a New York. Anche in questo caso sono stati i giovani, in particolare quelli che hanno studiato all’estero, ad aver importato la moda del caffè. 

In Giappone il tè non regna più sovrano. Il mercato del caffè giapponese è il più grande del continente asiatico, con vendite che hanno superato i 24 miliardi di dollari nel 2020. Al contrario, il consumo di tè è in diminuzione. Secondo l’Associazione giapponese per la produzione di tè, infatti, il consumo della bevanda è sceso a 108.454 tonnellate nel 2019. Un calo del 30% rispetto al 2004. Sono soprattutto le donne ad essersi avvicinate al caffè. L’arrivo di caffetterie “all’occidentale”, in cui è vietato fumare, ha infatti attirato molte giovani clienti, in precedenza scoraggiate dalle tradizionali e fumose caffetterie giapponesi. Con l’arrivo della pandemia, poi, è partito il boom per la richiesta di macchinette e attrezzature per preparare il caffè in casa.

In Corea del Sud il caffè è diventato parte integrante dell’ecosistema sociale. Il mercato è indirizzato a consumatori di ogni età e provenienza e si rivolge soprattutto a coloro che hanno fatto delle caffetterie le loro seconde case: persone che oltre che per sorseggiare un caffè si siedono ai tavolini per studiare, lavorare e parlare con gli amici. E si prevede che la cultura del caffè diventerà ancora più radicata in Corea del Sud come del resto in tutta l’Asia. Con l’espandersi della classe media, le persone esposte a uno stile di vita occidentale aumenteranno, importando la tradizione del caffè anche a casa propria.

Le ripercussioni della guerra in Ucraina sul Sud-Est asiatico

Il blocco delle nazioni ASEAN è esposto, a varie intensità, alle sanzioni rivolte all’economia russa. Energia, grano e investimenti sono i settori in cui principalmente si intersecano queste relazioni

Mentre gran parte del mondo “occidentale” guarda con apprensione agli sviluppi del conflitto russo-ucraino e condanna Mosca con severe sanzioni economiche, i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico hanno assunto posizioni poco omogenee. Secondo alcuni osservatori, il ritardo nel rilasciare dichiarazioni sulla crisi e la mancanza di esplicita condanna della Russia da parte dell’ASEAN sono sintomatici della difficoltà incontrata dagli attori della regione di trovare una sintesi soddisfacente tra le relazioni bilaterali che ciascuno intrattiene con la Russia. Singapore e Myanmar, ad esempio, condensano le divisioni del blocco, l’una condannando esplicitamente le azioni di Mosca, l’altra esprimendo sostegno. Le ragioni di queste contraddizioni sono da ricercarsi nei legami storici e commerciali che uniscono le sorti Sud-Est asiatico a quelle della Russia.

Il blocco delle nazioni ASEAN è esposto, a varie intensità, alle sanzioni rivolte all’economia russa. Energia, grano e investimenti sono i settori in cui principalmente si intersecano queste relazioni. Secondo James Guild del Diplomat, anche se c’è incertezza rispetto alle ripercussioni del conflitto sulla tenuta dell’economia del Sud-Est asiatico, esistono alcuni indizi che possono anticiparne l’impatto. In primo luogo, il ruolo della Russia come fornitrice di energia globale preoccupa alcuni Paesi in particolare. Anche se per Singapore solo il 5,7% del petrolio importato nel 2019 è russo, e per la Thailandia il 3,3%, il Vietnam potrebbe essere più esposto agli shock di fornitura energetica determinati dal conflitto, con il 15% del carbone importato nel 2019 che proviene proprio dalla Russia. Inoltre, i prezzi dell’energia erano già a rialzo prima dello scoppio del conflitto, e la guerra non farà che aggravare la situazione.

La pressione inflazionistica globale sui prezzi dei generi alimentari potrebbe subire un ulteriore aumento, mettendo in crisi economie come quella indonesiana e filippina, che nel 2019 hanno importato rispettivamente circa il 25% e il 16% del totale del grano da Russia e Ucraina. Molti Paesi del Sud-Est asiatico hanno agenzie statali specializzate nella raccolta di beni essenziali per affrontare eventuali shock delle catene di approvvigionamento, ma il fenomeno di contrazione dell’offerta avrà comunque degli effetti su prezzi e produzione.

Resta poi da affrontare la questione delle numerose joint ventures che uniscono i destini delle economie ASEAN a quello della Russia. In generale sembra vi sia urgenza di interrompere le partnership commerciali con Mosca, anche per via dell’impossibilità pratica di compiere scambi e transazioni. Un caso emblematico è quello della centrale a carbone vietnamita Long Phu 1, il cui appaltatore russo teme che non riceverà mai indietro il denaro investito nella realizzazione del progetto. Il legame tra Mosca e Hanoi risale ai tempi dell’era sovietica, ed era principalmente imperniato sulla fornitura di equipaggiamenti per la difesa da parte della Russia, che domina il 60% delle importazioni militari vietnamite. Nonostante il Vietnam non abbia condannato l’invasione russa del territorio ucraino, le sanzioni internazionali potrebbero compromettere le relazioni economiche anche con lo storico alleato comunista.

La Russia si era ritagliata pazientemente un margine d’influenza sulla regione del Sud-Est asiatico. Al di là del primato nella fornitura di armi, la politica “turn to the East” era un riconoscimento esplicito di quanto il presidente russo Vladimir Putin tenesse in considerazione le relazioni con gli attori regionali. Quando nel 2021 si sono celebrati i trent’anni delle relazioni ufficiali tra Russia e ASEAN, Putin aveva encomiato la prossimità politica tra le parti sottolineando come spesso le posizioni delle nazioni del blocco su questioni di rilevanza globale coincidano con quelle russe. In effetti i due attori hanno anche pubblicato un piano d’azione globale per attuare il loro partenariato strategico per il 2021-25, che tocca le dimensioni commerciale, strategica e securitaria. Tutto ciò dimostra come Mosca abbia riservato per sé relazioni specifiche con il Sud-Est asiatico, allontanandosi dagli altri due modelli dominanti, quello statunitense e quello cinese. Al contrario di Washington e Pechino – e fatta eccezione per la sua controversa fornitura di armi al Myanmar – Mosca non è infatti direttamente coinvolta in nessuna crisi politico-diplomatica nell’area. Per Russia e Paesi del Sud-Est asiatico, i legami economici e commerciali, e talvolta ideologici, sono anche un ponte di scambio diplomatico. Le diverse posture assunte dalle nazioni del blocco stigmatizzano le difficoltà dell’ASEAN di rivendicare il principio di centralità in questioni che toccano individualmente questi storici legami bilaterali.

Arriva il carbon pricing sulle merci importate nell’UE

Bruxelles vuole rendere le sue politiche climatiche più ambiziose ed evitare il carbon leakage, imponendo ai prodotti importati lo stesso prezzo per le emissioni pagato sui beni made in EU.Quale impatto avrà il Meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (CBAM) europeo sui rapporti commerciali – e diplomatici – con l’Asia?

Anche se gli sviluppi recenti della diplomazia climatica globale non sono stati soddisfacenti, a livello interno l’Unione Europea prosegue con l’attuazione del suo European Green Deal. La Commissione ha adottato lo scorso luglio il pacchetto Fit for 55 e si è prefissata degli obiettivi ambiziosi: ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e portarle a zero entro il 2050, raggiungendo la cosiddetta carbon neutrality. Una delle misure di questo pacchetto è il Meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM), uno strumento che mira ad imporre a certe merci importate nell’UE lo stesso prezzo delle emissioni di carbonio (carbon pricing) pagato per produrre gli stessi beni in Europa sotto il Sistema per lo scambio delle quote di emissione europeo (EU Emissions Trading System, EU ETS). Per raggiungere gli obiettivi di Fit for 55 e spingere i produttori europei a rendere più “verdi” i loro processi industriali, Bruxelles dovrà rendere più ambizioso il suo ETS, esponendosi quindi al rischio di carbon leakage, ossia di rilocalizzazione delle emissioni fuori dall’Unione. Infatti, le aziende potrebbero scegliere di smettere di produrre in Europa i beni colpiti dal carbon pricing per acquistare le stesse merci a prezzo minore dai Paesi terzi con una legislazione climatica meno rigorosa. Il carbon leakage, oltre a danneggiare l’economia europea, renderebbe meno efficaci le politiche climatiche, dato che spingerebbe le imprese a spostare le loro emissioni, non a ridurle. 

Al momento, l’UE affronta il rischio di carbon leakage prevedendo l’erogazione di quote a titolo gratuito nell’EU ETS, riducendone così l’efficacia. Il CBAM permetterebbe di superare le quote a titolo gratuito, portando a una più netta riduzione delle emissioni nell’UE tramite l’EU ETS, e avrebbe effetti anche nei Paesi terzi. Per evitare di pagare il prezzo del carbonio in Europa, i partner commerciali potrebbero dotarsi di un proprio strumento di carbon pricing oppure innovare i loro processi produttivi per ridurre le emissioni, quindi il costo al momento dell’esportazione.  Pur essendo una politica climatica interna, il CBAM riesce a influenzare i rapporti commerciali internazionali e l’impegno dei Paesi terzi nel raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. I risultati sono già visibili, anche prima dell’approvazione definitiva dello strumento: la Turchia ha ratificato l’Accordo e ha ammesso che il CBAM, con i suoi potenziali effetti sull’export turco verso l’Europa, rappresenta una delle ragioni dietro tale scelta

Ma come funziona esattamente il CBAM? La Commissione si è mossa con molta cautela nella progettazione del Meccanismo. Nell’ultimo decennio, l’accademia e le organizzazioni internazionali hanno discusso approfonditamente sulle possibili forme di border adjustment mechanism, un innesto necessario per i sistemi di carbon pricing ormai diffusi in molti Paesi del mondo. L’UE ha sviluppato per prima questo strumento, sulla spinta dell’Accordo di Parigi e fissando un modello per gli altri Stati interessati a sviluppare regimi simili – Canada, Stati Uniti e Giappone hanno espresso la volontà di sviluppare i propri CBAM e cooperare con l’UE sul punto; il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha espresso il proprio supporto per la misura europea, in attesa di un accordo internazionale sul punto. Con il CBAM, Bruxelles ha ripetuto quanto aveva fatto quasi vent’anni fa con l’EU ETS – strumento a sua volta figlio di un lungo dibattito scaturito da un accordo internazionale, il Protocollo di Kyoto –, confermandosi la standard-setter globale per le politiche climatiche. Essere la capofila però comporta dei rischi: le misure che impongono costi maggiori all’importazione delle merci non sono mai apprezzate dai partner commerciali, in particolare da quelli che ne vengono maggiormente colpiti – o pensano di esserne colpiti, come vedremo –, e sono spesso oggetto di azioni legali presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Coerentemente con il suo impegno a favore del multilateralismo, l’UE ha posto quale principio base del suo CBAM il rispetto delle obbligazioni OMC. Analizzando la proposta di Regolamento della Commissione, sembra non essere presente alcuna discriminazione sanzionabile dall’OMC: le merci importate sono sottoposte a un regime che riproduce quello in vigore per i prodotti europei. Inoltre, il prezzo del carbonio eventualmente pagato nel paese di origine del bene è tenuto da conto e dedotto dalla cifra da pagare all’UE. Le quote a titolo gratuito dell’EU ETS verranno gradualmente ridotte, riflettendo la graduale entrata in vigore del CBAM. Al momento, i settori oggetto della misura sono cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità. In una seconda fase, la portata del CBAM sarà estesa anche ad altri settori. 

Pur rispettando il diritto OMC, il CBAM potrebbe comunque essere impugnato dai Paesi che si considereranno indebitamente colpiti. I critici della misura parlano di “protezionismo verde” per schermare le aziende europee dalla competizione esterna. Se, da un lato, tale valutazione appare eccessiva – il CBAM non favorisce le aziende europee, semmai riduce il vantaggio che i produttori stranieri traggono da politiche climatiche troppo poco incisive, sottoponendole agli stessi oneri dell’EU ETS –, dall’altro, è vero che la cooperazione è uno strumento di diplomazia climatica più efficace delle azioni unilaterali. In astratto, un prezzo del carbone globale sarebbe molto più efficace di una moltitudine di sistemi che richiedono ciascuno un CBAM, come ha osservato l’IMF. La proposta europea ha il merito di aver reso più concreto il dibattito su questo tipo di misura. 

La fondazione tedesca Konrad Adenauer ha mappato la posizione dei Paesi asiatici e dei loro stakeholder sul CBAM prima della pubblicazione della proposta della Commissione nel luglio 2021, quindi prima che se ne conoscesse l’architettura di massima. Le opinioni appaiono molto diverse. All’interno di ASEAN, Singapore e Thailandia non esprimono particolari preoccupazioni, mentre Malesia e Indonesia sono più critiche. Non c’è da stupirsi: l’import di Kuala Lumpur e Giacarta è già stato colpito in passato dalla politica ambientale UE – la famosa controversia sull’olio di palma – e i due Paesi farebbero fatica a sviluppare un sistema di carbon pricing per ridurre gli adempimenti del CBAM. Osservando i dati dei flussi commerciali tra i due blocchi, nessuno dei settori coperti dal CBAM è particolarmente rilevante per l’export dei Paesi ASEAN – con l’eccezione forse proprio della Malesia,  ma sempre in misura ridotta. Il problema non sembra tanto l’effettivo impatto della misura, ma una mancanza di fiducia da parte degli stakeholder dei due Paesi verso la politica ambientale UE. Bruxelles potrebbe superare queste perplessità supportando la transizione ambientale e cooperando con i Governi locali sulla politica climatica.

Anche in India e Cina i prossimi passi dell’UE saranno importanti per far prevalere una percezione positiva del CBAM. Nuova Delhi è, al momento, l’unico governo G20 sulla buona strada per raggiungere i suoi obiettivi di contenimento delle emissioni, ha già sviluppato degli strumenti di carbon pricing e le sue aziende attive nei settori coperti dal CBAM impiegano metodi di produzione avanzati ed efficienti. Questi fattori rendono probabile un effetto positivo del CBAM sull’export indiano verso l’UE, favorito da una minore competizione da parte di altri Paesi con politiche climatiche e processi industriali meno avanzati. Eppure, dal già menzionato rapporto della fondazione Konrad Adenauer emerge che una maggioranza degli stakeholder indiani è particolarmente critica rispetto al CBAM e ritiene la misura incompatibile con il diritto climatico internazionale e le norme OMC, nonché “punitiva” verso i Paesi in via di sviluppo. La Cina per ora non ha espresso una posizione negativa rispetto al CBAM, anche perché al momento sta cooperando con l’UE per sviluppare un proprio, ambizioso, ETS. Se la cooperazione proseguirà in modo proficuo, il CBAM finirà per favorire gli esportatori cinesi, anziché svantaggiarli. Pechino si aspetta che i suoi sforzi climatici siano riconosciuti da Bruxelles e che le sue aziende non siano colpite negativamente dal CBAM. Se la disponibilità cinese a collaborare sulla misura fosse disattesa dal lato europeo, il rischio di un’azione legale OMC riemergerebbe. In conclusione, l’UE deve tenere fede ai suoi propositi di cooperazione con i partner per evitare che il CBAM appaia come un’imposizione unilaterale restrittiva del commercio internazionale.

Se i malumori nei Paesi che abbiamo menzionato possono essere affrontati e superati facilmente, non è altrettanto facile rispondere alle preoccupazioni dei Paesi in via di sviluppo più poveri, privi della capacity per sviluppare strumenti di carbon pricing e delle risorse per avviare la propria transizione ecologica. Il CBAM colpirebbe soprattutto i loro prodotti. Da quanto emerge dal rapporto di valutazione d’impatto della proposta, Bruxelles è consapevole di tale rischio e intende aumentare il suo impegno per supportare questi sforzi. Eppure, l’UE e gli altri Paesi ricchi devono ancora dare seguito alle loro promesse di finanziamenti per il clima. Forse, proprio le entrate del CBAM potrebbero andare a finanziare la cooperazione tra l’UE e questi Paesi per raggiungere gli obiettivi di Parigi.

Gli investimenti asiatici in Africa

Non solo Cina. Diversi Paesi asiatici puntano forte sul continente africano tra investimenti e cooperazione commerciale e diplomatica. Una panoramica

L’interesse cinese per la regione africana è aumentato esponenzialmente nell’ultimo ventennio ma affonda le sue radici nel lontano 1955. 

Per poter capire al meglio le vicende attuali, è necessario fare un breve viaggio nel passato. Gli studiosi sono soliti scandire la relazione sino-africana in diverse fasi. Il primo approccio risale ai primi anni ’50, periodo in cui la RPC ha finanziato vari progetti di costruzione edilizia e supportato vari percorsi indipendentisti. Gli anni ’80 hanno dato il via ad una seconda fase della relazione, perlopiù negativa, in quanto si assiste ad un deterioramento del rapporto causato dalla chiusura verso l’interno da parte cinese. Ci troviamo nel periodo in cui il governo cinese inizia a prendere le distanze dalla linea maoista (improntata alla collettivizzazione delle risorse) per passare ad approcci capitalistici (promossi come temporanei e necessari a raggiungere l’ideale regime comunista), che risulteranno determinanti nei successivi rapporti sino-africani. La volontà cinese di supportare il “Terzo mondo” schiacciato dal colonialismo e il modello occidentale, si lega all’intenzionalità di promuovere un modello alternativo.

Gli anni ’90 hanno visto un intensificarsi delle relazioni e un approccio “aggiornato” della controparte asiatica rispetto a quello di mezzo secolo prima: lo spettro d’azione cinese ha incluso settori come il commercio, investimenti, assistenza di vario genere, trasferimento di competenze e formazione, ampliando il suo raggio d’azione e insinuandosi non solo nel settore privato ma anche in quello pubblico. 

Il nuovo millennio ha aperto ad un’ultima fase di crescita, continua e rapida. Il 2013 in particolare è stato un anno rappresentativo poiché ha segnato il sorpasso cinese sugli USA per gli investimenti in Africa. 

Tutto ciò si può tradurre in cifre: negli ultimi 20 anni il volume totale degli scambi tra Cina e Africa è aumentato del 24.7% e i prestiti dalla Cina hanno raggiunto la cifra di 153 miliardi. 

La domanda sorge spontanea: in cosa la RPC ha focalizzato i suoi investimenti?

  1. Materie prime: l’Africa dispone di quelle materie prime che mancano alla RPC, in particolare quelle del settore manifatturiero. È bene ricordare che la Cina, negli ultimi trent’anni, è passata da essere un’estesa economia agricola al maggior importatore agricolo globale. Questo le è costato il titolo di paese “low-cost” per il costo del lavoro.
  2. Mercato: il mercato africano è stato visto come particolarmente attraente dagli investitori cinesi sia per la sua estensione che per la recente liberalizzazione, due fattori importanti limitano la forza e il consolidamento dei player stranieri, affievolendo la competizione e facilitando l’inserimento nel mercato. 

Il modus operandi degli investimenti cinesi è stato caratterizzato dalla reciprocità, e in questo differisce da quello occidentale. Il Nord del mondo ha rivolto i propri investimenti il cui fine era l’agevolazione dei propri interessi personali, senza guardare al miglioramento delle condizioni locali. L’approccio cinese è stato, invece, onnicomprensivo e win-win: mettendo a disposizione dei partner lo stesso pacchetto di conoscenze che ha condotto la Cina al proprio sviluppo. 

La Repubblica Popolare Cinese è l’unico attore asiatico economicamente presente in Africa? 

È il Paese del Sol Levante a rispondere a questo quesito. Il capolavoro della diplomazia giapponese in Africa ha un nome: Ticad. Questo acronimo, che significa Tokyo International Conference on African Development, indica una serie di summit organizzati dal governo nipponico e dall’Onu sin dal 1993. Agli eventi, che ad eccezione del 2016 si sono sempre tenuti in Giappone, partecipano più di 40 capi di Stato africani. Ticad ha gettato le basi per progetti “degli africani”, nei quali il Giappone svolge il ruolo di agevolatore attraverso investimenti e know-how: molti degli accordi tecnici e commerciali con Tokyo sono stati firmati proprio durante queste conferenze, le quali sono state, e sono tutt’ora, un ottimo strumento di propaganda per la politica estera nipponica. 

I numeri parlano chiaro: tra il 2007 e il 2017 l’investimento diretto estero del Giappone in Africa è passato da 3,9 a 10 miliardi di dollari. Secondo il Direttore degli Affari Africani presso il Ministero degli Esteri giapponese, Shigeru Ushio, l’accesso ai mercati africani è di vitale importanza per le imprese nipponiche e per le start-up africane, le quali potranno svilupparsi approfittando di legislazioni agevoli in termini burocratici. 

Il Giappone è partito dalle infrastrutture. Il governo giapponese ha iniziato la sua corsa in Africa sviluppando ambiziosi progetti su scala sovra-regionale: un esempio tra tutti è costituito dal porto di Mombasa, considerato di importanza capitale poiché capolinea dell’autostrada transcontinentale – l’Inter-African Highway 8 – che collegherà Lagos, in Nigeria, alla città keniana. L’intero progetto è nelle mani della Toyo Construction Co., che non è certo la sola compagnia giapponese impegnata nella regione. Secondo l’Overseas Construction Association of Japan, ben 16 aziende di costruttori del Sol Levante sono attive in 22 Paesi africani. 

Ma il Giappone non si è limitato al settore delle infrastrutture. I suoi orizzonti sono ben più ampi e hanno raggiunto, in poco tempo, i mercati import-export e le nuove tecnologie, con 796 aziende nipponiche attive in Africa nel 2017. Alcune di queste, come la start-up Nippon Biodiesel Fuel in Mozambico, hanno creato un solido network di fornitori e agricoltori legati direttamente alle proprie attività. 

Il settore che ha visto un successo clamoroso del Sol levante è certamente quello energetico e minerario, come dimostra la presenza di uffici delle principali Corporation nipponiche: la Japan Oil, Gas and Metals National Corp., che si occupa dei rilievi per l’individuazione del petrolio in Kenya e dello sviluppo del gas naturale in Mozambico. 

Non c’è due senza tre”: a far compagnia alle potenze cinese e giapponese ci pensa l’India.

Le crescenti necessità commerciali dell’India hanno portato a un suo orientamento verso l’Africa in quanto partner economico sempre più rilevante e a un rinvigorimento della propria presenza navale nell’Oceano indiano occidentale per garantire la sicurezza degli scambi.

Nello specifico, la zona del Corno d’Africa è di cruciale importanza per New Delhi in quanto estremità nord-occidentale della regione dell’Oceano Indiano, di primaria importanza per la propria sicurezza. Storicamente, il porto di Adulis vicino a Massawa era un importante snodo del commercio marittimo tra Europa e Asia su cui si riversavano i mercanti indiani. La stabilità del Corno era già una delle priorità della madrepatria britannica per garantire la sicurezza e la prosperità economica della sua colonia indiana. Ottenuta l’indipendenza nel 1947, l’India adottò un isolazionismo militare che limitò la diffusione della propria influenza regionale. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, in concomitanza con il boom economico indiano, la domanda interna di materie prime necessarie a sostenere la crescita è aumentata esponenzialmente. Tutto ciò ha contribuito alla creazione di un ambiente dinamico e alla necessità di diversificare le forniture energetiche. Da quel momento, gli investitori indiani hanno iniziato a guardare alle opportunità offerte dal continente africano.

L’approccio indiano in Africa si basa sul mutuo rispetto e sulla non interferenza nel quadro di una cooperazione sud-sud. Nel Corno, l’India sostiene i paesi più bisognosi con aiuti allo sviluppo mirati e destinati soprattutto al settore agricolo, sanitario e dell’istruzione. Tutti i paesi della regione sono partner del progetto indiano Pan African e-Network, un’iniziativa lanciata nel 2009 dal governo di New Delhi e che punta a condividere con i paesi africani l’expertise indiana nei campi della sanità e dell’istruzione.

L’azione indiana in Africa non si esaurisce all’aiuto umanitario: il governo mira a soddisfare i propri bisogni di sicurezza energetica e alimentare, fondamentali per sostenere la crescita economica e demografica del paese, oltre che a sfruttare le opportunità imprenditoriali e di investimento emergenti. New Delhi è accompagnata dal mondo dell’imprenditoria e dai giganti del settore privato. Tra il 2000 e il 2014 il commercio bilaterale è cresciuto da 10,5 a 78 miliardi di dollari: l’India esporta attrezzature elettriche e altri macchinari, prodotti farmaceutici, alimentari, manifattura. 

In sintesi, il ruolo cinese di primo della classe all’interno dello scenario degli investimenti in Africa è costantemente sfidato dalla presenza giapponese e indiana. Il peso dell’India nel continente è in crescita: da un lato aiuta il governo indiano a uscire da una storia di scarso peso nei rapporti internazionali e scarsa attenzione alle relazioni internazionali, e dall’altro soddisfa le necessità di materie prime di un’economia in forte crescita. Il governo giapponese è, invece, consapevole dell’importanza del mantenimento della sua presenza in Africa per tutelare le vie di comunicazioni marittime, in quanto lungo le coste africane passa il petrolio che Tokyo importa dal Medio Oriente. A riprova del fatto che, sebbene vi sia una rivalità, ci sono anche delle convergenze: assicurare la presenza economica nel continente africano è interesse prioritario tanto per la Cina, quanto per il Giappone e l’India.

Le ambizioni spaziali asiatiche

Da alcuni dei più antichi programmi spaziali del mondo (Indonesia) a paesi con un’esperienza molto limitata anche nelle applicazioni di dati satellitari (Cambogia), da sforzi nazionali puramente accademici e commerciali (Singapore) a forti programmi controllati dal governo (Vietnam): i Paesi membri dell’ASEAN coprono l’intero spettro dei casi possibili quando si tratta di programmi spaziali, con ambizioni chiare e funzionali al proprio sviluppo.

Articolo a cura di Fabrizia Candido

Dati i livelli estremamente diversi delle industrie spaziali nella regione, non sorprende che non ci siano priorità spaziali in cima all’agenda dell’Associazione. Non solo le spese spaziali e lo stato di preparazione delle infrastrutture variano da paese a paese, ma ci sono ancora membri che non dispongono di agenzie specializzate per le questioni spaziali.

La cooperazione internazionale svolge quindi un ruolo chiave nello sviluppo dei programmi spaziali dei paesi ASEAN. Si cerca la collaborazione con nazioni con maggiore esperienza, che abbiano risorse finanziarie e competenze tecniche, e che siano disposte a supportare i programmi dei paesi con minori capacità. Poiché non ci sono potenze spaziali affermate nella regione del sud-est asiatico, è essenziale che questi paesi guardino un po’ più lontano, più precisamente a Stati Uniti, Giappone, India e Cina per fondi, tecnologia e formazione.

La “corsa allo spazio” del sud-est asiatico ha obiettivi più ridimensionati ma non per questo meno importanti: garantire che le risorse naturali non vengano sprecate ed evitare potenziali disastri ambientali. Sulla base del Piano d’azione dell’ASEAN per la Scienza, la Tecnologia e l’Innovazione 2016-2025, l’Associazione è attualmente a metà del suo percorso verso il miglioramento delle capacità in tre aree prioritarie: geoinformatica (es. telerilevamento, GNSS, GIS), applicazioni della tecnologia spaziale (ad es. riduzione del rischio di catastrofi, monitoraggio dell’ambiente e delle risorse, comunicazioni) e satelliti (ad es. nano, micro e piccoli satelliti, ecc.).

Un chiaro esempio viene dal Myanmar. Sembrerebbe un momento insolito per concentrarsi sull’invio di satelliti nello spazio mentre i conflitti civili infuriano e il COVID-19 continua a diffondersi. Tuttavia, il programma spaziale birmano, sviluppato in collaborazione con l’Università di Hokkaido e l’Università di Tohuku in Giappone, mira a migliorare la connettività, mitigare l’impatto dei disastri naturali e aumentare la produzione agricola. Ed ecco come: nell’agosto 2019 è stato lanciato Myanmar-sat2 per fornire servizi di distribuzione video e a banda larga migliorati. Con il nuovo satellite, e con quelli futuri, il Myanmar non dovrà più pagare una cifra pari a 10 (o più) milioni di dollari all’anno per noleggiare canali satellitari da Cina, Thailandia, Stati Uniti e Vietnam. In questo modo, per esempio, sarà possibile mostrare agli agricoltori cosa sta succedendo ai raccolti nei campi che possono essere difficili da raggiungere in determinati periodi dell’anno. Inoltre tali strumenti allerterebbero le autorità circa cambiamenti o stravolgimenti in aree remote che altrimenti passerebbero inosservati, consentendo di contrastare pratiche illegali come il disboscamento o l’estrazione mineraria prima che vengano arrecati seri danni all’ambiente locale. Ma, principalmente, i satelliti monitoreranno i fenomeni meteorologici, come i tifoni, e rileveranno l’attività sismica, consentendo alle autorità di evacuare a tempo debito persone e bestiame. Inoltre, in caso di disastro avvenuto, i satelliti forniranno agli analisti dati sui tempi di recupero delle aree interessate. È per tali fini che il Myanmar si è unito alla “super-costellazione” di nove nazioni asiatiche, tra cui anche Indonesia, Filippine e Vietnam, per lanciare e monitorare microsatelliti, condividendo tecnologia e dati osservativi.

Le stesse università giapponesi che collaborano con il Myanmar hanno aiutato anche le Filippine a lanciare un satellite nel 2016 che si è rivelato fondamentale per rilevare una malattia nei campi di banane. Tuttavia, il Philippine Space Development Act è stato approvato solo a dicembre 2018. Il disegno di legge prevede una politica di sviluppo e utilizzo dello spazio che funzionerà da tabella di marcia strategica per il futuro sviluppo spaziale.

Quanto alla Thailandia, invece, agli inizi degli anni Duemila il paese ha firmato un accordo bilaterale con la Francia per co-sviluppare il Thailand Earth Observation Satellite (Theos). I dati di Theos sono stati utilizzati per mappare le aree contese tra Cambogia e Thailandia, monitorare l’area delle colture agricole, ottenere aggiornamenti sulle situazioni di inondazione e per vari aspetti della gestione delle risorse naturali. Theos-2, che è stato approvato nel 2017 e il cui lancio era inizialmente previsto per il 2020, dovrebbe essere messo in orbita nel 2022.

Più indietro si collocano Laos, Cambogia, Brunei, mentre più ambizioso è il Vietnam. Fu di fatto un astronauta vietnamita, Pham Tuân, il primo uomo del sud-est asiatico ad andare nello spazio nel 1980. Il Vietnam, che nel 2017 ha annunciato che entro il 2022 avrebbe prodotto un satellite proprio e che sarebbe diventato “uno dei Paesi leader della regione in questo campo”, sta sviluppando, in collaborazione con il Giappone,  due tipi di satelliti dotati di radar dal peso di 600 kg chiamati LOTUSat-1 e LOTUSat-2 il cui lancio è previsto per il 2023.

Ma ad avere il programma spaziale più avanzato all’interno dell’ASEAN è l’Indonesia, avendo istituito la prima agenzia spaziale nazionale della regione ASEAN nel 1963, la LAPAN. Data la sua posizione e le sue condizioni geomorfologiche, l’Indonesia ha da tempo riconosciuto l’importanza della tecnologia spaziale per il suo sviluppo. Gran parte del programma spaziale indonesiano si concentra su applicazioni di comunicazioni spaziali, satelliti meteorologici, satelliti di telerilevamento e studi sugli aspetti socioeconomici e legali della tecnologia spaziale. Inoltre, in linea con la sua politica nazionale, l’Indonesia lavora alle sue capacità di lancio e ad altre tecnologie strategiche: l’obiettivo è l’autosufficienza nelle attività spaziali, arrivando a lanciare un satellite di produzione propria entro il 2040. Il paese, infine, sta aumentando il suo impegno negli affari spaziali globali, come dimostrato dalla partecipazione attiva agli Space Economy Leaders Meetings, un nuovo formato creato nel G20 dall’Arabia Saudita e poi ereditato dall’Italia. 

Infine, l’incursione di Singapore nello spazio è stata più recente rispetto ad altri paesi dell’ASEAN. Tuttavia, date le sue risorse finanziarie e tecnologiche, Singapore ha progredito rapidamente. Ad oggi, si concentra principalmente sull’uso della tecnologia spaziale per le comunicazioni, il controllo delle risorse e la ricerca accademica. La città-stato sta di fatto costruendo un pool di talenti con competenze tecniche nelle tecnologie satellitari, con numerosi programmi universitari che offrono corsi pertinenti. Il Satellite Technology and Research Center (STAR) della National University Singapore, per esempio, offre corsi per studenti universitari e post-laurea al fine di formare la manodopera necessaria per fare del Paese una punta dell’industria di veicoli spaziali.