Asean

L’evoluzione delle relazioni tra Australia, Nuova Zelanda e ASEAN

Dopo le elezioni australiane dello scorso maggio, sia Canberra sia Wellington sono guidate da governi laburisti. I due Paesi sono accomunati da un profondo legame con gli Stati Uniti, ma hanno approcci differenti alla crescente assertività cinese. La cooperazione con ASEAN potrebbe giocare una parte importante nella stabilità della regione.

Nelle elezioni australiane dello scorso maggio il laburista Anthony Albanese ha sconfitto il primo ministro liberale uscente Scott Morrison. Dopo il cambio di amministrazione a Canberra, sia Australia sia Nuova Zelanda sono guidate da governi laburisti. Entrambi i governi giocano una partita complessa nello scacchiere Indo-pacifico. Da un lato, i due Paesi rappresentano l’estremità australe dell’“anglosfera” (nonché della relativa alleanza di intelligence Five Eyes) e sono partner chiave degli Stati Uniti – insomma un pezzo di “Occidente” ad Estremo Oriente. Dall’altro, i loro rapporti con i Paesi asiatici vicini sono scanditi da alterne fasi di diffidenza e fiducia, cooperazione e tensione. Quale sarà dunque la strategia indo-pacifica di Australia e Nuova Zelanda nei prossimi anni?

Già durante la campagna elettorale il Partito laburista australiano aveva espresso con vigore il suo supporto al  Quadrilateral Security Dialogue (Quad, comprendente Australia, India, Giappone e Stati Uniti) e all’AUKUS (che lega Canberra a USA e Regno Unito), accordi nei quali i precedenti governi liberal-nazionali si erano impegnati rispettivamente nel 2017 e nel 2021. Appena tre giorni dopo la vittoria elettorale, il nuovo primo ministro Albanese era già a Tokyo per il summit dei leader Quad, in occasione del quale ha confermato che il suo governo avrebbe continuato a sostenere il Dialogue. Allo stesso tempo, il governo Albanese intende porsi in discontinuità riguardo a certi aspetti della politica estera dei precedenti esecutivi di centro-destra, inaugurando una nuova fase di engagement con le nazioni del Pacifico e di impegno nella cooperazione climatica internazionale. I governi Morrison si erano sempre opposti alle politiche di lotta al cambiamento climatico – anche quando buona parte del Paese era avvolta nelle fiamme tra 2019 e 2020 – e l’innalzamento del livello dei mari è una minaccia esistenziale per molti Paesi della regione: non sorprende dunque che l’Australia negli ultimi anni godesse di poco credito presso gli Stati insulari della regione più vulnerabili al riscaldamento globale. La nuova ministra degli esteri Penny Wong ha promesso inoltre di aumentare il supporto finanziario per i Paesi del Sud-est asiatico, anche per togliere spazio alla crescente influenza cinese nella regione – Wong è arrivata a definire il recente patto di sicurezza tra Cina e Isole Salomone il “peggior fallimento della politica estera australiana nel Pacifico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. 

In effetti, l’espandersi dell’influenza militare dei grandi Paesi asiatici è da sempre vista come una minaccia da Canberra: a inizio secolo era il Giappone, nella seconda metà del Novecento la Cina e in misura minore l’Indonesia. Il miglioramento dei rapporti tra Pechino e Washington negli anni Settanta aveva rasserenato anche gli australiani che avevano iniziato a vedere nell’Asia un’opportunità anziché una minaccia. Negli anni Novanta, un altro primo ministro laburista, Paul Keating, aveva efficacemente riassunto il cambio di paradigma poco prima di concludere un accordo di sicurezza con Giacarta: l’Australia doveva perseguire la propria sicurezza “in Asia, non dall’Asia”. I rapporti tra Australia e Cina sono rimasti eccellenti per decenni e ancora erano tali quando Xi Jinping si recò nel Paese nel 2014 per una visita ufficiale culminata in uno storico discorso al Parlamento australiano. Ciononostante, il deterioramento dei rapporti tra Cina e USA negli ultimi anni è stato accompagnato da un irrigidimento della politica estera rispetto a Pechino anche di Canberra. Passano i decenni, ma gli australiani continuano a seguire gli alleati americani.

La Nuova Zelanda sembra invece aver assunto una posizione più sfumata di recente rispetto alla strategia americana per l’Indo-pacifico. A inizio luglio, la prima ministra Jacinda Ardern ha invitato ad essere più cauti rispetto alla presenza cinese nella regione. Per Ardern è infatti sbagliato considerare le recenti azioni di Pechino come una “novità” rispetto alla quale i governi dovrebbero prendere schierarsi a favore o contro: “il mondo è dannatamente incasinato (bloody messy). Eppure, in mezzo a tutta la complessità, noi continuiamo spesso a vedere le questioni in bianco o nero”. La cautela di Ardern si contrappone alla posizione tranchant assunta da Joe Biden, secondo il quale è in corso una battaglia tra democrazia e autocrazia nel mondo che impone ad ogni governo di scegliere da che parte stare. Wellington auspica una de-escalation delle tensioni nella regione e una maggiore cooperazione tra tutti gli attori, anche qualora Pechino si facesse ancora più assertiva. I neozelandesi comunque non rimangono indifferenti di fronte alle manovre cinesi: anche loro, come l’Australia e gli USA, hanno espresso un certo allarme rispetto all’accordo di difesa Cina-Isole Salomone.Australia e Nuova Zelanda si trovano in una posizione non dissimile dai Paesi ASEAN, coinvolti quasi loro malgrado nella competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Wellington sembra intenzionata a seguire una strategia simile a quella impiegata da altri governi della regione: dialogare con la Pechino senza rinunciare alla cooperazione strategica con Washington. Canberra invece sembra più rigida nelle sue preoccupazioni per la sicurezza e più in linea con la visione di Biden. Entrambi i governi però potrebbero trarre giovamento da una maggiore cooperazione proprio con i Paesi ASEAN: l’organizzazione regionale infatti costituisce un fattore di stabilità nella regione e un partner centrale, come riconosciuto anche in sede Quad, che potrebbe bilanciare l’assertività cinese. Il nuovo governo laburista australiano dovrebbe però accettare di cooperare con l’ASEAN su altri temi e non esclusivamente sulla sicurezza: un rafforzamento dei legami economici e politici è propedeutico e necessario rispetto ad altre forme di cooperazione più sensibili.  La cooperazione climatica  internazionale potrebbe costituire un primo banco di prova e, come abbiamo visto, i due governi laburisti a Canberra e Wellington hanno espresso la loro intenzione di costruire nuove partnership con gli altri governi dell’Indo-pacifico.

La transizione energetica si fa in Asia

Gli effetti della guerra in Ucraina non stanno rallentando, ma semmai accelerando, un processo di dimensioni storiche

478,7 miliardi di dollari di obbligazioni sostenibili in circolazione alla fine del primo trimestre del 2022 tra ASEAN e Asia orientale, con un’espansione del 51,3% su base annua. Emissioni record di debito verde, sociale e sostenibile (i cosiddetti GSS bond) nel 2021 per un totale di 24 miliardi di dollari nelle sei maggiori economie dell’ASEAN, con un aumento del 76% rispetto ai 13,6 miliardi di dollari del 2020. Sono alcuni dei numeri della corsa “green” del Sud-Est asiatico, che si riflette in economia, politica e finanza. L’ASEAN e l’Asia orientale rappresentano il 18,1% delle obbligazioni sostenibili in circolazione a livello globale, dietro solamente l’Europa. Due regioni che credono molto nella transizione energetica. Un processo che in ASEAN non è stato rallentato, ma semmai velocizzato dalla guerra in Ucraina e dai suoi effetti collaterali. La necessità di aumentare il peso di fonti energetiche alternative non è mai stata così evidente. Singapore ha annunciato che le agenzie governative emetteranno fino a 35 miliardi di dollari di green bond entro il 2030. Lo scopo è quello di finanziare progetti infrastrutturali ecologici e a disincentivare l’utilizzo di mezzi di trasporto privati. La Thailandia ha iniziato a emettere con rapidità obbligazioni sostenibili nel 2020, principalmente per aiutare la ripresa dalla pandemia. Da allora, l’emissione totale di obbligazioni sostenibili da parte del governo e delle imprese statali ha raggiunto i 3,5 miliardi di dollari. Nella stessa direzione si stanno muovendo anche Filippine, Malesia e Indonesia. Ma la tensione verso la transizione energetica si vede anche nelle scelte dei governi e degli investitori. Il Vietnam ha appena approvato un programma che prevede restrizioni sulla produzione e sull’importazione di veicoli a carburanti fossili, con l’obiettivo di ottenere un’industria a zero emissioni entro il 2050. Per allora, tutti i veicoli su strada dovranno utilizzare energia verde o essere elettrici. Anche la rete ferroviaria dovrà essere interamente convertita. Atlas Capital, una società di venture capital nel settore delle tecnologie climatiche, e tante altre società regionali o internazionali stanno raccogliendo fondi per investire in progetti legati all’ambiente o alla transizione energetica nel Sud-Est asiatico. Una tendenza che sembra destinata ad accelerare sempre di più.

Gli effetti dell’inflazione sull’ASEAN


I Paesi del Sud-Est asiatico studiano il modo per reggere alla pressione causata dall’aumento dei prezzi. Ecco in che modo

Articolo a cura di Chiara Suprani

Le iniziative di policy per la ripresa post-pandemica dei Paesi si sono dovute confrontare con l’aggravamento della crisi alimentare attuale, esacerbata dalla guerra. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulle Politiche Alimentari (IFPRI), fino ad oggi il 17,22% del mercato internazionale dei prodotti alimentari è stato soggetto ad innalzamento delle barriere tariffarie, e non,  o ad embarghi. L’inflazione, colpendo in particolare i Paesi delle economie più avanzate, ha ridotto l’afflusso di investimenti diretti esteri (IDE) da queste economie verso quelle dell’ASEAN. Secondo la Federal Reserve degli Stati Uniti, il tasso medio di inflazione nei Paesi dell’ASEAN è aumentato dallo 0,9% di gennaio 2021, al 3,1% di dicembre 2021, per poi raggiungere il 4,7% ad aprile 2022. I tassi di inflazione fino ad Aprile di Indonesia, Singapore, Laos e Thailandia sono stati tra i più acuti: Indonesia 149%, Singapore 161%, Laos 206% e Thailandia 267%. Il tasso di inflazione è diminuito in Malesia, mentre è rimasto sostanzialmente invariato nelle Filippine e nel Vietnam.  Tuttavia, in molti Paesi, la fiducia dei consumatori oggi è inferiore a quella del periodo pre-pandemico, e per gli economisti non si è arrivati ancora al picco massimo di pressione inflazionistica, che è previsto nei prossimi mesi. Sebbene le conseguenze della crisi degli approvvigionamenti, della ripresa post pandemica e della guerra in Ucraina non abbiano colpito in maniera uniforme i Paesi membri dell’ASEAN, tuttavia la reazione condivisa dalle banche centrali da alcuni di questi è stata quella di non aumentare immediatamente i tassi di interesse. Nelle Filippine, la banca centrale Bangko Sentral ng Pilipinas (BSP) si prepara ad alzare di mezzo punto i tassi di interesse, portando il tasso chiave dall’attuale 2,5% a 3%. In Indonesia, a marzo, il governo aveva dichiarato di voler mantenere l’inflazione tra il 3 e il 5 per cento per i prodotti alimentari, come l’olio di palma. Eppure, a giugno, l’inflazione è aumentata del 4,35% su base annua. Tra i Paesi dell’ASEAN, come nel caso del Vietnam il divieto di esportazioni di prodotti alimentari si applicherebbe solamente se la situazione interna fosse davvero critica. Per altri, lasciare l’economia aperta e priva di barriere o vincoli è ancora più vitale, come per Singapore. Ma alcuni Paesi hanno fatto della logica dietro all’espressione “nazionalismo alimentare”, cioè l’interruzione dell’esportazione di certi prodotti particolarmente chiave per l’economia del Paese, una vera e propria iniziativa di policy, con conseguenze a catena sulle economie dei loro partner ASEAN. Per stabilizzare il prezzo delle carni di pollo, il governo della Malesia ha imposto un embargo all’esportazione di carne di pollame a partire da giugno, e una task force chiamata dal Primo Ministro Ismail Sabri Yaakob “Jihad against inflation”, per combattere l’inflazione. In Indonesia l’embargo di olio di palma durato tre settimane, è stato quello con l’effetto monetario più impattante dall’invasione russa dell’Ucraina, con 19 miliardi di dollari americani di prodotto soggetti a restrizioni. Giacarta, a causa dell’embargo di carne di pollo della Malesia, ha iniziato ad inviare tonnellate del prodotto a Singapore. La città-stato, il cui piatto nazionale è di fatto il riso al pollo (chicken rice), si è trovata nella condizione di dover differenziare il proprio approvvigionamento. Nell’attuale situazione inflazionistica e di nazionalismo alimentare, secondo Roehlano M. Briones, ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sullo Sviluppo delle Filippine (PIDS), occorre “integrare la cooperazione regionale, (che) è qualcosa che è abbastanza cruciale per guidare e stimolare la crescita continua e l’emergere di una regione ricca di scambi regionali di mais e carne all’interno dell’ASEAN.” 

Cina-ASEAN e crescita globale

Nel 2022 e 2023 si prevede che i Paesi del Sud-Est cresceranno di più della Cina e sopra la media dell’Asia-Pacifico

Editoriale a cura di Lorenzo Riccardi

Managing Partner RsA Asia

Il Ministero dei Trasporti cinese ha annunciato la decisione di istituire un ufficio speciale per supervisionare il funzionamento del nuovo corridoio via terra e mare per la logistica e il commercio, che collega la Cina occidentale con diversi Paesi dell’ASEAN. Il corridoio, con centro operativo a Chongqing, collega 14 province cinese con 310 porti in 107 Paesi e regioni del mondo, ed in particolare promuove il commercio tra la Cina e i Paesi dell’ASEAN nell’ambito dell’accordo di Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP). Nel 2022, il Ministero dei trasporti si è posto l’obiettivo di ampliare la capacità di trasporto del corridoio con nuove infrastrutture quali ferrovie, autostrade, porti ed aeroporti, oltre a promuovere lo sviluppo di un hub internazionale Chengdu-Chongqing.  L’ASEAN è una comunità eterogenea di nazioni unite da obiettivi comuni: tra i Paesi membri vi sono infatti città-stato con un elevato PIL pro-capite (Singapore e Brunei), nazioni popolose con un’economia dinamica e in espansione (Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam), e Paesi meno avanzati con un reddito medio-basso (Cambogia, Laos, e Myanmar). Nonostante le differenze sociali ed economiche, l’ASEAN è una delle principali aree di libero scambio con una quota di oltre il 7,5 per cento del commercio mondiale. I Paesi del Sud-Est asiatico, che con 3.300 miliardi di dollari di PIL aggregato rappresentano circa il 3,5 per cento del PIL mondiale, sono stati fortemente impattati dalla pandemia: nel 2020, il PIL regionale si è contratto del 3,2 per cento (con l’eccezione del Vietnam, cresciuto nell’anno di oltre il 2,9 per cento), per poi rimbalzare nel 2021 di oltre 3 per cento, nonostante il -18 per cento registrato in Myanmar in seguito alle tensioni politiche. Le stime più recenti, diffuse in occasione del meeting dei Ministri dell’Economia dell’associazione, prevedono una crescita del 4,9 per cento per il 2022 e del 5,2 per cento per il 2023, superiori ai tassi di crescita che il Fondo Monetario Internazionale prevede per la Cina (4,4 per cento e 5,1 per cento), e per l’intera regione Asia Pacific (4,7 per cento e 4,9 per cento). È utile evidenziare che il Sud-Est Asiatico è il principale partner commerciale della Cina (878 miliardi di dollari di interscambio nel 2021, e 371 miliardi nei primi cinque mesi del 2022, in rialzo del 10,2 per cento rispetto allo stesso periodo 2021), nonché terzo mercato di destinazione dei beni cinesi e principale origine delle importazioni cinesi. Cina e ASEAN sono sempre più partner strategici nel ruolo crescente che ha oggi l’Asia sul commercio e gli investimenti  dell’economia globale.

Oceania e ASEAN più vicine di quanto si pensi

Australia e Nuova Zelanda non anelano partecipare al confronto tra potenze in Asia-Pacifico. E hanno obiettivi simili ai Paesi del Sud-Est

“È sbagliato parlare di Occidente contro la Russia. Siamo una democrazia liberale e cerchiamo di promuovere, ovviamente, i valori che sono importanti per noi ma cerchiamo anche di garantire che le nostre risposte in politica estera si basino su fatti, non su asserzioni e supposizioni”. A parlare, durante un intervento da Sydney, è Jacinda Ardern. Di più: “Non diamo per scontato che la Cina, in quanto membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non abbia un ruolo da svolgere nell’esercitare pressioni sulla Russia” sull’invasione, ha aggiunto la premier della Nuova Zelanda. Una visione più sottile della diplomazia rispetto allo “scontro ideologico” tra democrazie e regimi autoritari di cui parlano spesso gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Nonostante la charme offensive di Washington in Asia-Pacifico e nonostante l’indiscussa inclusione nell’elenco delle democrazie liberali, i Paesi dell’Oceania dimostrano di avere un approccio pragmatico, anche l’Australia, che negli ultimi anni ha visto i suoi rapporti con la Cina toccare il minimo storico, non sembra intenzionata a promuovere contrapposizioni. A margine del summit dei Ministri degli Esteri del G20 è andato in scena un bilaterale molto significativo tra il cinese Wang Yi e l’australiana Peggy Wong. “Abbiamo parlato con franchezza e ascoltato attentamente le rispettive priorità e preoccupazioni. Abbiamo le nostre differenze, ma è nell’interesse di entrambi che le relazioni si stabilizzino”, ha detto la Ministra del nuovo governo australiano guidato dal laburista Anthony Albanese. Come ha scritto The Straits Times, per decenni l’Australia è stata vista come un avamposto anglosassone e come il “vice sceriffo” dell’America nel Pacifico. Canberra sembra però intenzionata ad avere un crescente impegno con il Sud-Est asiatico per stringere i legami con una regione che vuole evitare che la competizione tra potenze si trasformi in un vero e proprio confronto. E pare volerlo fare senza fermarsi a scontrarsi con Pechino per esercitare influenza sulle isole del Pacifico, ma cooperando in maniera concreta con l’ASEAN e i governi dell’area. Un maggiore coinvolgimento in Asia da parte del governo Albanese può evidenziare, ancora una volta, la posizione unica dell’Australia e in generale dell’Oceania tra Oriente e Occidente.

Sud-Est, il tesoro della biodiversità

I mari e le foreste della regione, se protetti in maniera pianificata e seguendo logiche scientifiche calate nella realtà ecosistemica locale, potrebbero diventare un motore della crescita economica regionale

Articolo di Chiara Suprani

A dicembre dell’anno scorso le Filippine e la Malesia sono state travolte da cataclismi naturali che hanno provocato ingenti fatalità e serie conseguenze sul territorio e la biodiversità dei due Paesi. Non solo Filippine e Malesia, ma l’intero Sud-Est asiatico è una delle zone più colpite dal cambiamento climatico al mondo. Eppure, il ruolo della regione è oltremodo cruciale nel progresso degli obiettivi di transizione energetica globale e il suo potenziale economico nel settore della protezione ambientale è stato valutato solo di recente. 

L’Accademia delle Scienze della Malesia ha pubblicato il 15 giugno uno studio commissionato dal gruppo Campaign for Nature, intitolato “The Nexus Of Biodiversity Conservation And Sustainable Socioeconomic Development In Southeast Asia”, che riconosce il valore, in termini sia ambientali sia economici, di investimenti in conservazione e protezione della biodiversità dell’estremità sudorientale del continente asiatico. Per di più, l’Accademia evidenzia il sostanziale contributo che la competenza nella salvaguardia degli ecosistemi dei Paesi ASEAN potrebbe dare ad altri, se fosse elevata a modello di sviluppo socio-economico. Difatti, sebbene il Sud-Est asiatico ricopra solamente il 4 per cento delle terre emerse globali, secondo l’Indice di Conservazione della Biodiversità (Biodiversity Intactness Index- BII) la regione, da sola, ospita l’80 per cento della diversità biologica mondiale. Ciò che fa spiccare il caso del Sud-Est asiatico quale ragionevole modello a cui ispirarsi è dato dal fatto che è la regione meglio capace al mondo di preservare la biodiversità che la caratterizza. Quindi se correttamente finanziato, il Sud-Est asiatico potrebbe essere la culla del nesso a lungo cercato tra crescita sostenibile e conservazione di fauna e flora locali. 

I mari e le foreste della regione, se protetti in maniera pianificata e seguendo logiche scientifiche calate nella realtà ecosistemica locale, potrebbero diventare un motore di crescita economica regionale, la quale non sarebbe più basata sullo sfruttamento ma bensì sull’arricchimento delle risorse naturali, facendo così della regione un modello di crescita economica basata sulla protezione ambientale. 

Lo studio malesiano ha colto l’importanza della protezione ambientale quale fattore economico attivo nella crescita di un Paese grazie ad un report del World Wide Fund for Nature (WWF) del 2018, che ha riconosciuto alla conservazione degli ecosistemi mondiali il valore di 125 trilioni di dollari americani. Di questi, considerato che il 57 per cento di aree marine e foreste protette globali mondiali è nel Sud-Est asiatico, 2,9 trilioni di dollari americani potrebbero finire ai Paesi ASEAN, il cui prodotto interno lordo (PIL) nel 2018 era di 3 trilioni di dollari americani. Quindi il potenziale economico della protezione e conservazione della biodiversità è, nelle premesse, molto allettante, soprattutto per dei Paesi in via di sviluppo. Ma per poter raccogliere questi benefici, i governi della regione devono essere disposti ad investire, a partire da oggi, 10 miliardi di dollari americani all’anno, che potrebbero diventare 46 miliardi annuali nel 2030. Inoltre, i finanziamenti devono essere destinati a progetti come il ripristino delle mangrovie, l’inverdimento delle città, la generazione di crediti di carbonio, l’educazione delle persone e la digitalizzazione. 

Un membro del comitato direttivo di Campaign for Nature, il professor Emil Salim, ha affermato che inquadrare la biodiversità come un’impresa generatrice di entrate è la chiave per coinvolgere le agenzie internazionali e locali nella conservazione. Per esempio il Rimba Raya Biodiversity Reserve Project in Indonesia è il più grande progetto per la riduzione delle emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado forestale (REDD+), che punta a preservare torbiere tropicali ad alta densità di carbonio e ha interrotto la deforestazione di 65 mila ettari che sarebbero stati adibiti alle coltivazioni di olio di palma. Grazie a questo progetto, finanziato anche dalla canadese Carbon Streaming, parte delle entrate derivanti dalla vendita dei crediti-carbonio è stata reimmessa nelle comunità locali e nelle infrastrutture. Questo è stato il primo progetto REDD+ ad aver contribuito a tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e l’interruzione della deforestazione di Rimba Raya ha permesso anche la salvaguardia di 105 mila orangotanghi, specie a rischio di estinzione. 

Tra gli ambienti ecosistemici, le foreste sono tra i più ricchi di biodiversità, e il loro valore non si misura solo nella loro ampiezza, ma anche nella loro rigogliosità e benessere. Trovare il giusto bilanciamento tra agricoltura, arboricoltura e foreste protette è chiave, ma la tutela del loro benessere ecosistemico è imperativo per la loro sopravvivenza, specialmente quando le conseguenze del cambiamento climatico colpiscono le piantagioni tanto quanto gli ecosistemi protetti. Oxford Economics, una società di previsione globale, ha evidenziato che in una prospettiva di lungo termine, Thailandia e Filippine sono sopra la media rispetto all’aumento delle temperature e nella frequenza e volume delle piogge torrenziali. La società ha notato che le ondate di caldo in Thailandia nel dicembre 2014 e in Vietnam nel febbraio 2019 hanno contribuito a far salire i prezzi dei generi alimentari tra il 5 e il 6% durante quei mesi. Quindi concentrare gli sforzi e gli investimenti per migliorare la resilienza climatica degli ecosistemi, ridurrebbe la vulnerabilità di questi a condizioni meteorologiche estreme e permetterebbe ai governi di avere più controllo sulle conseguenze economiche di questi eventi sul Paese. 

High Level Dialogue Italia-ASEAN

 “Gli interessi di Italia, ASEAN e Unione Europea coincidono”, sottolinea il Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, Romano Prodi

Si è svolta mercoledì 6 luglio a Kuala Lumpur, in Malesia, la sesta edizione dell’evento organizzato da The European House Ambrosetti con l’Associazione Italia-ASEAN e il patrocinio di Maeci e Confindustria. L’High-Level Dialogue on ASEAN-Italy Economic Relations è l’evento di riferimento nella regione ASEAN per il rafforzamento dei legami economici e strategici tra i Paesi ASEAN e l’Italia. Durante l’appuntamento ibrido fisico-digitale, sono stati affrontati i temi più all’avanguardia: prospettive macroeconomiche dell’ASEAN nello scenario post-pandemico, tecnologie verdi per un futuro sostenibile, e-economy, tecnologie intelligenti e catene di valore 4.0, aerospaziale e sicurezza per la resilienza, opportunità di investimento e strumenti di cooperazione tra Italia e Paesi ASEAN. L’evento è stato aperto virtualmente dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Rafforzare le relazioni con l’ASEAN è una priorità per l’Italia”, ha dichiarato. “Già più di 700 imprese italiane stanno facendo affari nel mercato ASEAN, terzo in Asia e quinto al mondo, ma c’è ancora un enorme potenziale inespresso sia in comparti tradizionali come quello dell’agroalimentare che nei settori innovativi delle rinnovabili e della transizione digitale”, ha detto invece il Sottosegretario Manlio Di Stefano. All’evento hanno preso parte, tra gli altri, il Ministro dell’Economia della Malesia Dato Sri Mustapa Mohamed, il Ministro presso l’Ufficio del Primo Ministro della Cambogia Sok Chenda Sophea,  il Vice Segretario generale dell’ASEAN Satvinder Sing. Sono intervenuti anche Romano Prodi (Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN), Ramesh Subramaniam (Direttore Generale per il Sud-Est asiatico della Asian Development Bank), Carlo Ferro (Presidente dell’Italian Trade Agency), Valerio De Molli (Managing Partner & CEO, The European House – Ambrosetti), Lorenzo Tavazzi (Responsabile per lo Sviluppo Internazionale di The European House – Ambrosetti) e i due Vicepresidenti di Associazione Italia-ASEAN, Michelangelo Pipan e Romeo Orlandi. “Gli interessi di Italia, ASEAN e Unione Europea coincidono: un ordine mondiale caratterizzato dalla cooperazione e non dal confronto”, ha dichiarato il Presidente Prodi. “Un mondo che promuova il commercio, faciliti l’approvvigionamento e prometta lo sviluppo globale, con l’obiettivo di tenere sotto controllo i rischi legati all’ambiente”.

Leggi subito il comunicato stampa

L’ASEAN e l’Indo-Pacific Economic Framework

Osservando la sua fase iniziale e i vari impegni lungimiranti, sarà fondamentale vedere come i paesi membri si adattano agli obiettivi chiave di questa partnership

Articolo di Aishwarya Nautiyal

    La strategia Indo Pacifica non ha solo portato a una nuova sinergia tra i partner QUAD, ma ha dato nascita anche all nuovo Indo Pacific Economic Framework lanciato di recente dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden consentendo a 12 nazioni come membri partecipanti di aprire anche le porte a tutte le nuove nazioni disposte a partecipare in futuro. Alcune tra le maggiori potenze economiche come Stati Uniti, Australia, India, Corea del Sud e Giappone e diversi Paesi membri dell’ASEAN come Malesia, Filippine, Singapore, Brunei, Indonesia, Thailandia e Vietnam sono stati in prima linea in questo framework recentemente lanciato. È fondamentale comprendere che l’economia collettiva dei Paesi membri rappresenta quasi il 40% del PIL mondiale. Ciò apre le porte a un’opportunità per i Paesi della regione del Pacifico e dell’Oceano Indiano che sono anche coinvolti in vari partenariati economici e di sicurezza verso uno sforzo collettivo per “crescere più velocemente e in modo più equo”. Sebbene sia interessante notare che non si tratta di un patto commerciale ufficiale, il commercio è diventato un “pilastro” in tutto questo quadro insieme ad altri elementi chiave.

      Sebbene siano nella fase iniziale, molti negoziati ed emendamenti possono essere successivamente discussi tra i Paesi membri. Gli scenari chiave si sono concentrati su alcuni temi come la catena di approvvigionamento, le infrastrutture, l’energia verde, la decarbonizzazione, la tassazione e la lotta alla corruzione e il flusso del commercio libero ed equo. Quindi questo può essere visto come un contrappeso alla RCEP. I Paesi dell’ASEAN che non sono stati inclusi sono Myanmar, Laos e Cambogia. Mentre la Cina ha sollevato le sue critiche per un ulteriore rischio di disaccoppiamento economico, è stata esclusa da questa partnership. È interessante notare che Paesi come gli Stati Uniti e l’India che non hanno partecipato alla RCEP sono stati in prima linea in questo nuovo framework. La visione dell’India caratterizzata dalla sua “Look East Policy” ha portato i membri dell’ASEAN al centro della politica estera, quindi questa nuova iniziativa porta la cooperazione tra l’India e l’ASEAN con una visione per rafforzare un quadro multilaterale con altre principali economie nella regione dell’Oceano Pacifico. 

        Guardando alla geoeconomia e alla geopolitica future, il pilastro fondamentale risiede verso un’economia resiliente ed equa, che è stata anche il punto culminante della dichiarazione del presidente Biden durante il vertice dell’Asia orientale. La nuova piattaforma può anche essere vista come una possibile sostituzione del partenariato globale e progressivo transpacifico (CPTPP). È interessante notare che il lancio dell’IPEF sia arrivato appena un giorno prima del vertice QUAD a Tokyo, il Giappone ha portato due piattaforme in cui la base economica insieme ai partner QUAD ha avviato un nuovo impegno guidato dagli americani per riprogettare la partnership a vari livelli tra partner regionali e globali che si estendono dal Mar Cinese Orientale al Sud Mar Cinese e oltre fino al Golfo del Bengala e al Mar Arabico. Il Golfo del Bengala è un punto fondamentale del rapporto tra l’India e le nazioni dell’ASEAN. Il cruciale stretto di Malacca è una chiave per vari beni e scambi di energia. Oltre alla partnership India-ASEAN, l’IPEF offre la possibilità di espandersi oltre la cooperazione regionale a quella globale.

     Si punta a un’integrazione economica attraverso la creazione di nuove innovazioni tecnologiche creando anche una catena di approvvigionamento industriale in cui l’India sta cercando attivamente di diventare un nuovo punto focale con la futura partecipazione di varie nazioni dell’ASEAN a numerosi investimenti industriali e tecnologici come i semiconduttori. Considerando che l’India ha lavorato intensamente per migliorare la connettività economica aumentando gli investimenti in vari progetti infrastrutturali che collegano le nazioni dell’ASEAN con la parte nord-orientale dell’India. D’altra parte, è molto forte la volontà degli Stati Uniti di estendere la cooperazione per rafforzare l’economia e il commercio basati sul digitale, inclusi acquisti, vendite, flusso di dati consentendo la catena del valore globale e servizi intelligenti attraverso diverse piattaforme e applicazioni. L’idea chiave è garantire i costi a valle per le imprese e migliorare la capacità di elaborazione di dati e analisi, assicurando una piattaforma sicura per la continuità aziendale mentre l’accesso a materie prime chiave come semiconduttori, minerali e tecnologia energetica che rafforza i pilastri dell’IPEF è la resilienza della catena di approvvigionamento.

       D’altra parte, la decarbonizzazione e la costruzione di nuove infrastrutture per superare i problemi del riscaldamento globale e dell’aumento dei livelli di inquinamento fornendo finanziamenti e tecnologia per condividere l’assistenza tecnica e mobilitare finanziamenti agevolati adottando infrastrutture durevoli per l’energia rinnovabile. Il focus sul lato fiscale e sull’anticorruzione ha lo scopo di promuovere una concorrenza libera e leale superando le questioni della tassazione, del riciclaggio di denaro e della corruzione attraverso standard e accordi multilaterali adottati dai membri dell’IPEF.  Osservando la sua fase iniziale e i vari impegni lungimiranti, sarà fondamentale vedere come le nazioni membri si adattano agli obiettivi chiave di questa partnership e il livello di fiducia che costruisce con vari impegni nel prossimo futuro garantendo obblighi geografici ed economici regionali e globali creando nuove opportunità e strade per le future nazioni disposte a far parte della cooperazione economica globale dell’IPEF.

Grab e la gig-economy alla prova dell’inflazione

L’aumento dei prezzi del carburante è il primo vero shock che gli unicorni asiatici devono affrontare. Un circolo vizioso che sfida la resilienza della gig-economy made in ASEAN

Anche nei paesi ASEAN l’inflazione non perdona. Soprattutto se il tuo modello di business ha sempre puntato sullo hype degli investitori e la convenienza per i consumatori. È quanto sta accadendo al gigante del ride-hailing Grab, ex unicorno oggi situato a Singapore e salita agli onori dell’indice Nasdaq. La mannaia sui prezzi del carburante, in particolare, sta mettendo a dura prova le entrate dell’azienda in tutta la regione. Il core business di Grab, infatti, sono il food delivery e i servizi taxi, entrambi dipendenti dall’uso di automobili e scooter.

Secondo il CEO e co-fondatore dell’azienda Anthony Tan “l’offerta di mobilità di Grab si stabilizzerà nella seconda metà dell’anno”. La soluzione? Incentivi per i lavoratori e la speranza che il mercato si riprenda. Un messaggio che prende tempo con gli investitori, ma che non rassicura i clienti: “”È stato così difficile trovare un’auto ultimamente, si arriva fino a mezz’ora di attesa”, lamenta un utente premium a Rest of World. Se in Occidente stiamo assistendo a un aumento dei lavoratori nella gig economy, perlopiù dipendenti che cercano di sbarcare il lunario con qualche entrata extra, in Asia – dove questo mercato è ancora acerbo, anche se in crescita – la professione diventa invece meno appetibile. Il fenomeno, infatti, si era invece rivelato un’alternativa valida ad altri impieghi tradizionali e molto redditizia. Ma i recenti shock hanno cambiato le carte in tavola.

L’inflazione colpisce i paesi ASEAN

Oggi un fattorino nelle Filippine spende il 67% in più per il carburante rispetto a febbraio, mentre le entrate sono minacciate dal generale rigonfiamento dei prezzi. In Malaysia si stima che i prezzi dei viaggi durante le ore di punta siano aumentati fino al 400%. Anche chi si affida ai servizi di delivery oggi trova tutto più costoso. Non solo sono aumentati i prezzi per le materie prime – a questo si aggiungono i cataclismi che stanno facendo alzare, per esempio, il prezzo del caffè filippino – ma anche le commissioni iniziano a diventare troppo onerose per le piccole realtà imprenditoriali

Dal punto di vista dei clienti, senza i vantaggi economici di prima anche il servizio taxi perde di appetibilità. Come rivela uno studio sulle tendenze del ride-hailing nel Sudest asiatico, l’utilizzo ai mezzi con conducente è spesso una valida alternativa per i pendolari per studio o lavoro. Una tendenza piuttosto comune a Manila, dove le app di ride-hailing permettono di evitare il caos (anche in termini di disservizi) della metro. In Indonesia sono i mezzi pubblici sovraffollati e radi che spingono gli utenti alle app per prenotare un taxi. Curioso, infine, che le ricerche nell’area abbiano rilevato come, in mancanza di questi servizi, molti clienti tornerebbero semplicemente…a muoversi a piedi. Secondo gli studi per la mobilità sostenibile esiste un limite, stimato tra i 2 e i 5 km, che non giustificherebbe l’utilizzo dell’auto come mezzo principale di trasporto: un possibile punto a sfavore del traffico in quelle città asiatiche dove è sempre più urgente imporre delle limitazioni alle emissioni climalteranti. E, dunque, un’altra sfida nell’orizzonte della mobilità modello Uber.

Non che i governi ASEAN siano mai stati aperti all’ingresso di Grab sui loro mercati. La concorrenza impari contro i taxi e i contratti con poche (o nulle) garanzie per i lavoratori sono solo alcuni dei fattori che impediscono un rapporto sereno tra queste aziende e le autorità regolatorie. Il sistema si è dimostrato fragile ai momenti di crisi e non è ancora chiaro se le strategie adottate riusciranno a tamponare il deficit fiscale.

Il circolo vizioso della gig economy

Meno entrate, più costi. Meno lavoratori, più disservizi. Grab non è in realtà l’unica compagnia a trovarsi incastrata nella trappola degli unicorni tech. Anche l’indonesiana Go-Jek deve fare i conti con prezzi alle stelle, pur resistendo grazie al forte supporto di Jakarta e dei clienti che vedono nella compagnia un baluardo di progresso made in Indonesia. FoodPanda è a sua volta vittima della corsa al ribasso tentata per penetrare nell’impero di Grab, tanto che oggi la strategia di espansione in Asia si è fatta più cauta mentre l’azienda cerca nuovi porti altrove (per esempio nell’Est Europa).

Il modello di espansione di Grab nel Sudest asiatico è stato spesso definito come “aggressivo”. La startup è riuscita a penetrare nei mercati della regione grazie ai prezzi competitivi, alla flessibilità delle condizioni lavorative e qualche lacuna normativa. In più, non è mai mancato il sostegno degli investitori, che hanno permesso all’azienda di passare da unicorno a leader del ride-hailing in meno di dieci anni. Tra il 2013 e il 2014, Grab è entrata nelle Filippine, in Thailandia, in Vietnam e Indonesia, battendo la multinazionale Uber nel giro di pochi mesi.  Nel 2021 la società è stata quotata in borsa per un valore di oltre 40 miliardi di dollari e le azioni sono subito aumentate del 21%. Ma non è tutto oro quel che luccica: l’azienda afferma che non prevede di fare profitti entro il 2023 e l’attuale crisi dei consumi potrebbe allontanare ulteriormente questo orizzonte.
Le ambizioni di Grab, e le sue promesse, rimangono alte: vorrebbe estendere a tutti i paesi dove opera anche i servizi più avanzati, come le assicurazioni e i pagamenti digitali (attualmente riservati solo ad alcune località). E spera di superare questo inverno inflazionistico con dei sussidi che trattengano i lavoratori e non facciano crollare la qualità del servizio. Soprattutto, le tariffe devono rimanere estremamente competitive – come suggeriscono gli studi sulle preferenze dei consumatori asiatici. Una serie di sfide, quelle del 2022, che mettono alla prova un intero (nuovo) modo di fare business e la cui sopravvivenza potrebbe determinare la riscrittura delle regole del fare impresa.

I nuovi “valori asiatici” e i diritti LGBTQIA+

Nell’area dei Paesi ASEAN sono state registrate alcune battute d’arresto ma anche numerosi passi avanti sul tema del riconoscimento giuridico e politico della comunità LGBTQIA+

Nel mese di giugno, le celebrazioni, le commemorazioni e le iniziative del Pride Month fioriscono in tutto il mondo. Molti paesi del Sud-Est asiatico hanno fatto passi avanti in materia di diritti civili per la comunità LGBTQIA+, mentre altri sono ancora reticenti ad accoglierne le rivendicazioni politiche e le istanze di riconoscimento identitario. Condizionamenti culturali e religiosi e leggi non accomodanti si intersecano con l’amara esperienza della colonizzazione occidentale, fornendo argomentazioni politiche ai detrattori dei movimenti sociali che lottano per la libera espressione dell’identità di genere e degli orientamenti sessuali. Ma recuperare i “valori asiatici”, secondo alcuni analisti, può portare a un’accelerazione delle aperture sui diritti civili.

Anche attraverso l’operato delle grandi organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, i diritti LGBTQIA+ sono stati riconosciuti come diritti umani nel quadro del diritto internazionale. Nel 2007 sono stati adottati i Principi di Yogyakarta, un compendio di linee guida rivolto agli Stati della comunità internazionale sulla prevenzione delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, per “un futuro diverso, in cui tutte le persone nate libere ed eguali in dignità e diritti” possano godere del diritto arendtiano di avere diritti. Ma a mano a mano che ci si avventura in contesti nazionali e locali sembra che le raccomandazioni dell’alta politica si facciano sempre più opache. Il Sud-Est asiatico è una delle regioni in cui questa contraddizione si esprime con più vigore. 

Nell’area dei Paesi ASEAN sono stati registrati numerosi passi avanti sul tema del riconoscimento giuridico e politico della comunità LGBTQIA+, ma anche diverse battute d’arresto. Nel Brunei e in Indonesia i rapporti tra persone dello stesso sesso sono vietati e nel Sultanato possono implicare anche la pena di morte. In Indonesia si registra uno dei livelli più alti di intolleranza dei confronti delle coppie omosessuali nel Sud-Est asiatico: secondo un sondaggio del Pew Research Center del 2019, l’80% degli intervistati era contrario all’accettazione dell’omosessualità nella società. Di recente, un programma giornalistico in onda su Youtube è stato al centro di uno scandalo per aver invitato una coppia gay in trasmissione: il talk show “Close The Door” di Deddy Corbuzier è spesso oggetto di polemiche per la presenza di figure pubbliche che intervengono su questioni sensibili, e stavolta ha fatto infuriare molti esponenti della grande comunità musulmana indonesiana. Il presidente del Consiglio indonesiano degli Ulema Cholil Nafis era molto contrariato quando ha affermato che “l’Islam proibisce le persone LGBT. È come una parte malata del corpo che deve essere amputata, non celebrata”. 

Anche Singapore non si annovera tra i Paesi più progressisti in tema di diritti LGBTQIA+. Nella città-stato asiatica è in vigore una legge che criminalizza ancora il sesso tra uomini, anche se “non viene applicata rigorosamente”. La Thailandia, spesso definita come un “paradiso LGBTQIA+” per via della relativa libertà con cui le persone possono esprimere genere e orientamento sessuale, potrebbe presto legalizzare l’unione matrimoniale tra coppie dello stesso sesso. Kittinun Daramadhaj, presidente dell’Associazione Rainbow Sky della Thailandia, ha affermato che l’uguaglianza di genere in Thailandia è “una finta uguaglianza, perché siamo contenti delle persone LGBT, ma non abbiamo alcun meccanismo legale per proteggere i loro diritti”. Solo di recente, dopo una sentenza della Corte costituzionale che ha stabilito che le leggi thailandesi dovrebbero essere ampliate per garantire maggiori diritti alla comunità LGBTQIA+, in Thailandia sembra muoversi qualcosa. Secondo alcuni osservatori il Paese si trova sulla buona strada per divenire il primo nel Sud-Est asiatico a legalizzare le unioni omosessuali, con un disegno di legge ora in fase di approvazione al Parlamento. La proposta non riguarda il matrimonio vero e proprio, ma consentirebbe alle coppie gay di adottare bambini e gestire il proprio patrimonio in comune.

Un altro esempio virtuoso del riconoscimento sociale delle persone LGBTQIA+ viene da un Paese insospettabile: le Filippine. Nonostante la storia di autoritarismo e la profonda pervasività della dottrina cattolica, l’arcipelago del Sud-Est asiatico ha un record di inclusività per le persone gender-fluid e queer. Questo primato deve molto anche all’eredità delle religioni tradizionali, che sopravvivendo all’avvento dell’imperialismo spagnolo e all’arrivo del Cattolicesimo, hanno continuato ad orientare le dinamiche relazionali della società. Il regista, produttore e scrittore Vonne Patiag, di origini filippine, si concentra molto nei suoi lavori sulle storie personali di identità marginalizzate. In un articolo apparso sul Guardian, riporta l’esempio dei bakla, spesso considerati un terzo genere nelle Filippine, definiti quasi “una celebrazione intersezionale delle culture asiatiche e queer”. Si tratta di un’identità di genere fondata su una pratica culturale performativa più che sulla sessualità, che trascende la dualità uomo-donna, in un rifiuto del binarismo ante-litteram. Secondo Vonne Patiag, “bakla è una parola tagalog che indica la pratica filippina del cross-dressing maschile, che indica un uomo che ha modi “femminili”, si veste come una donna “sexy” o si identifica come una donna”. I bakla, storicamente, rivestono anche ruoli di leadership importanti a livello sociale. Nonostante questo modello di fluidità di genere, e anche se l’omosessualità è legale nelle Filippine, il matrimonio per le coppie omosessuali non è ancora riconosciuto, e la legislazione per la conversione delle persone transessuali è ancora piuttosto ambigua. Secondo Brian Wong, dottorando in Teoria politica presso il Balliol College di Oxford e borsista Rhodes di Hong Kong, “è stato il contatto con l’Occidente a ridurre progressivamente la permissività dell’Asia nei confronti delle relazioni omosessuali”. Gli episodi di omofobia, secondo lo studioso, avrebbero una correlazione con l’esperienza coloniale, che comprometterebbe l’unicità del dibattito sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale in Asia orientale. Per questo, Wong invita la comunità del Sud-Est asiatico a recuperare quei “valori asiatici”, che qualche detrattore vorrebbe confondere con paradigmi di pensiero conservatori, ai quali invece bisognerebbe attingere per portare lo stato dei diritti delle comunità LGBTQIA+ nel Sud-Est asiatico ancora avanti.

Il rapporto Italia-ASEAN a una svolta

Editoriale a cura di Benedetto Latteri

Ambasciatore d’Italia in Indonesia, Timor-Est e ASEAN
* Pubblicato originariamente su The Jakarta Post

La recente visita del Vice Ministro degli Affari Esteri italiano Manlio Di Stefano a Giacarta e la sua partecipazione al secondo incontro del Comitato di partenariato per lo sviluppo ASEAN-Italia rappresenta un progresso fondamentale verso il consolidamento delle relazioni tra l’Italia e l’ASEAN. Le ragioni che hanno portato il mio Paese alla decisione di richiedere lo status di partenariato per lo sviluppo sono evidenti a chiunque abbia familiarità con le dinamiche internazionali: l’ASEAN è un partner chiave in una regione strategica, l’Indo-Pacifico, una regione che ospita le più grandi economie in più rapida crescita e una vasta quota del commercio globale che passa attraverso le sue acque. L’ASEAN è uno degli esempi di maggior successo di integrazione regionale, nonché un fornitore affidabile di stabilità e crescita economica. Il suo contributo alla difesa della libertà di navigazione, alla prevenzione dei conflitti e alla promozione del pluralismo e della tolleranza è stato senza precedenti. Allo stesso tempo, nell’Indo-Pacifico stanno emergendo sviluppi preoccupanti: crescenti tensioni sul commercio e sulle catene di approvvigionamento, nonché un’intensa concorrenza sul fronte politico e della sicurezza. Di conseguenza, le potenze regionali e globali, compresa l’Unione Europea ei suoi Stati membri, guardano all’Indo-Pacifico con crescente attenzione, cercando di rafforzare la cooperazione con l’ASEAN, che rappresenta un ottimo quadro per disinnescare le tensioni geopolitiche. Dal primo Comitato misto Italia-ASEAN nell’aprile dello scorso anno, abbiamo negoziato intensamente le aree di cooperazione congiunta. È stato un processo lungo e impegnativo, culminato ieri con l’adozione di un documento di 62 paragrafi, le Aree di cooperazione pratica (APC). Gli APC riaffermano il nostro impegno a lavorare insieme in un’ampia gamma di campi. Il documento definisce la direzione futura del partenariato di sviluppo delineando una strategia che richiede un impegno globale e quindi uno sforzo molto significativo da entrambe le parti. Giusto per dare un’idea della profondità e dell’entità della nostra futura cooperazione, i campi della cooperazione includono pace e sicurezza, cooperazione marittima, buon governo e diritti umani, commercio, investimenti e sviluppo del settore privato, energia, alimentazione, agricoltura e silvicoltura, turismo , scienza, tecnologia e innovazione, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, integrazione digitale e commercio elettronico, scambi interpersonali, gestione delle catastrofi e assistenza umanitaria, salute, ambiente e cambiamenti climatici, cultura, connettività e sviluppo sostenibile. Già prima dell’approvazione degli APC, l’Italia e l’ASEAN avevano lanciato o discusso una serie di iniziative in materia di patrimonio culturale, criminalità informatica, protezione ambientale, pesca sostenibile e sviluppo costiero e cooperazione spaziale. Inoltre, il 5 e 6 luglio si svolgerà a Kuala Lumpur la sesta edizione del Dialogo ad alto livello sulle relazioni economiche tra l’Italia e l’ASEAN, la prima che si terrà in presenza dall’inizio della pandemia di COVID-19. L’evento riunisce ministri, CEO e alti funzionari dell’Italia, degli Stati membri dell’ASEAN e del Segretariato dell’ASEAN con l’obiettivo di rafforzare i legami economici tra i nostri paesi. Riteniamo che questa iniziativa contribuirà a svelare le opportunità che il mercato dell’ASEAN offre ai nostri investitori ea costruire partnership economiche “win-win” con il Sud-Est asiatico. Come tutti possono vedere, la collaborazione che Italia e Asean prevedono per il prossimo quinquennio non si limiti a pochi temi o settori. Per avere successo, l’Italia e l’ASEAN dovranno impegnarsi pienamente nella loro partnership. In questo contesto, desideriamo elogiare la presidenza cambogiana dell’ASEAN per la fruttuosa collaborazione che siamo stati in grado di instaurare nel 2022. E non vediamo l’ora di lavorare con la presidenza dell’Indonesia nel 2023 con la quale, ne sono certo, continueremo a portare avanti con successo i nostri obiettivi comuni di pace e sviluppo attraverso la cooperazione e il sostegno reciproci. La presenza del Viceministro degli Affari Esteri italiano a Giacarta, soprattutto in un momento di estrema crisi in Europa, lancia un messaggio molto chiaro: l’Italia è pienamente impegnata nella regione e conta sui suoi amici dell’ASEAN per il successo della nostra cooperazione negli anni a venire.

La corsa delle imprese giapponesi al Sud-Est asiatico

La pandemia ha acceso una nuova consapevolezza sull’importanza dell’igiene personale e degli ambienti.Le aziende giapponesi di settore, potendo contare su un sempre più ampio bacino di consumatori appartenenti alla fascia di reddito medio, stanno espandendo le proprie attività nella regione ASEAN

Se da un lato la pandemia ha frenato la crescita di innumerevoli settori, dall’altro la situazione emergenziale ha dato impulso alla repentina espansione di alcuni specifici segmenti di mercato, tra cui spicca quello dei prodotti per l’igiene personale e la cura della casa. È il caso di alcune aziende giapponesi che hanno rilanciato le proprie attività dopo una prima fase di stallo, facendo leva sulle nuove consapevolezze portate dalla pandemia tra la crescente classe media. Takafumi Ohno, che dirige le attività internazionali di Lion, ha reso noto di voler puntare sul grande potenziale del mercato della bellezza nel Sud-Est asiatico.

A settembre, l’azienda, già affermata nel settore dei prodotti per la casa, ha lanciato Azzura, il suo primo marchio di cosmetici. Il brand ha esordito in Indonesia, ma l’intenzione è di raggiungere nei prossimi anni anche altri Paesi, come la Malesia. Proponendo un prezzo che si colloca nella fascia media e rivolgendosi a un numero sempre crescente di giovane donne lavoratrici, Lion si dice fiduciosa a conquistare anche questo nuovo segmento di mercato, in cui la domanda cresce rapidamente a fronte di una poco intensa concorrenza di marche locali e estere. Alla fine dello scorso anno, sempre grazie a Lion, a Singapore è arrivato SunoHada, marchio giapponese di prodotti per la cura della pelle, mentre in Thailandia approdava la skincare targata Rawquest, prodotto dalla filiale sudcoreana.

Anche per Earth Corporation, società leader nel settore degli insetticidi per uso domestico, si intravedono buone possibilità di accelerare l’espansione del business nel Sud-Est asiatico. Sfruttando la maggiore attenzione al rischio di trasmissione di malattie infettive attraverso gli insetti dovuta alla recente esperienza pandemica, il momento sembra adatto per arricchire la propria offerta di prodotti e ultimare le operazioni di espansione in paesi come Malesia, Cambogia e Filippine. L’obiettivo è quello di aumentare i ricavi provenienti dalla vendita di repellenti nella regione del 15% entro la fine del 2023, partendo dalla cifra attuale a 16 miliardi di yen (130 milioni di dollari), come dichiarato dal presidente di Earth, Katsunori Kawabata.

I recenti progetti di espansione delle imprese giapponesi nella regione lasciano intravedere non solo un allargamento del bacino dei consumatori, ma anche la partecipazione in iniziative virtuose a vantaggio delle comunità locali. Uno dei progetti più significativi vede Kao, azienda chimica e cosmetica, impegnata nel lancio di una collaborazione con Wota, una startup affiliata all’Università di Tokyo che ambisce a fornire soluzioni per combattere la crisi idrica mondiale. I due partner hanno reso noto che “Kao e WOTA uniranno le forze in una partnership commerciale volta a risolvere i problemi globali relativi all’acqua e ai servizi igienici” attraverso una serie di iniziative, tra cui l’installazione di lavamani in luoghi privi di accesso all’acqua corrente. “Espandiamo la nostra attività in modo che le persone in questi luoghi possano usare acqua e sapone per una migliore igiene”, ha affermato Atsushi Koizumi, amministratore delegato e direttore del centro di promozione aziendale globale della Kao. 

Attualmente, le due imprese sono impegnate in un test pilota in Indonesia che prevede l’installazione di stand WOSH, dotati di serbatoi d’acqua propri e di una tecnologia che sarebbe in grado di filtrare, disinfettare e rendere nuovamente potabile l’acqua precedentemente usata per lavarsi le mani. La speranza è che lo sforzo in direzione della risoluzione di un problema sociale diffuso in alcune aree del Sud-Est asiatico come l’assenza di sistemi di approvvigionamento idrico possa avere un impatto positivo anche sulla domanda di saponi e detersivi e premiare sul piano delle vendite.

La pandemia ha modificato profondamente la sensibilità e le esigenze dei consumatori asiatici, riaccendendo simultaneamente le ambizioni di quegli operatori che desiderano proporre prodotti ad alto valore aggiunto per soddisfare le sempre più esigente richieste della crescente classe media. Anche se di recente la Cina ha superato il Giappone come “top partner” nell’opinione dei cittadini della regione del Sud-Est asiatico, nel tentativo di espandere il proprio business e mitigare le conseguenze del calo demografico nel mercato interno, tante imprese giapponesi scelgono di scommettere sulle emergenti economie dell’ASEAN.