Asean

L’alleanza Chip4 e il suo impatto sui semiconduttori ASEAN

La partita (politica) dei semiconduttori diventa gioco di squadra. Almeno da un lato del campo. L’alleanza a quattro voluta dagli USA mira contenere la Cina. Da che lato giocheranno i Paesi ASEAN?

I semiconduttori sono essenziali per la vita e la crescita della società digitale. L’approvvigionamento “sicuro” di questi prodotti rappresenta ormai una priorità – e un grattacapo – per i governi di tutto il mondo. È tuttora in corso una crisi globale delle supply chain del settore – una crisi che si inserisce in un più ampio contesto di “globalizzazione in affanno” – che rende difficile per le altre industrie procacciarsi i componenti necessari. Il problema è reso ancora più complesso dalle sue ricadute politiche. Stati Uniti e Cina infatti gareggiano anche nello sfruttamento dei dati e nello sviluppo di nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Questo porta i due giganti a richiedere un enorme quantità di chip e provare a limitare la presa del rivale sul mercato. Nei mesi scorsi, Washington ha mosso i primi passi verso la formazione di un’alleanza a quattro sui semiconduttori con i suoi partner storici affacciati sul Mar cinese – Giappone, Corea del Sud e Taiwan –  per poter sviluppare catene di approvvigionamento “democratiche”, dalla fabbrica al consumatore, senza dover coinvolgere necessariamente la Cina. Pechino guarda con sospetto all’iniziativa americana, temendo di finire “esclusa” dalle value chain più importanti del mondo globalizzato.

La fragilità e l’importanza strategica delle supply chain dei semiconduttori hanno spinto i governi ad attivarsi per mettere in sicurezza la propria sovranità tecnologica. Molti Paesi si sono attivati per rafforzare la produzione di chip nel proprio territorio, in collaborazione con i colossi del settore: solo per menzionare due iniziative, la taiwanese TSMC sta costruendo un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona con il supporto dello Stato e del Governo federale; Intel e il Governo italiano stanno chiudendo le trattative per la creazione di un sito produttivo in Veneto. Ciononostante, la value chain dei semiconduttori non può essere rinchiusa nei confini di un singolo Paese, né riorganizzata così facilmente. Ogni fase della filiera produttiva richiede una forte specializzazione di interi distretti industriali e attrezzature ad altissima tecnologia. Al momento, non sembra possibile fare a meno dei Paesi dell’Asia orientale. Pertanto, i governi cercano anche di rafforzare le proprie partnership internazionali, in modo da rendere più sicuri gli approvvigionamenti e superare certi colli di bottiglia nella produzione. Ciascuna economia del Chip4 è particolarmente forte in uno degli “anelli” della catena e l’alleanza riuscirebbe ad organizzare gli approvvigionamenti tra partner in modo quasi autonomo da attori esterni. Non ci sono solo considerazione economiche dietro l’iniziativa di Washington, però. I quattro Paesi sono democrazie like-minded che guardano con una certa attenzione alla influenza cinese crescente non solo nella regione, ma anche nell’economia digitale e in alcuni suoi settori d’avanguardia. In uno scenario di crescenti tensioni con Pechino, i Paesi Chip4 potrebbero avere interesse a non dipendere dall’industria dei semiconduttori cinese. 

Eppure, non è così facile estromettere la Cina dalla value chain, soprattutto per la Corea del Sud. Il 60% dell’export dei chip di Seul infatti va verso il vicino. Partecipare a un’alleanza che potrebbe essere percepita come anticinese esporrebbe i produttori coreani alla rappresaglia commerciale, quindi all’esclusione da un mercato di notevoli dimensioni. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe non essere in grado di rinunciare ai semiconduttori Made in Korea, dato che certe tecnologie avanzate sono sviluppate solo lì o negli Stati Uniti – e Washington ha imposto sanzioni e misure di export control contro le aziende cinesi ancora nel 2020. In altre parole, provare a escludere un Paese dalla supply chain e, più in generale, intervenire nel settore con obiettivi politici comporterà sempre dei pesanti costi e potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi degli approvvigionamenti. La sovranità tecnologica potrebbe rivelarsi un obiettivo irraggiungibile e, appunto, costoso – non ci sono solo i dazi imposti dai governi, ma anche la spesa in sussidi per attirare le aziende private sul proprio territorio – dato che il ritardo anche in una fornitura di secondaria importanza potrebbe paralizzare l’intero settore a livello mondiale.L’iniziativa statunitense potrebbe coinvolgere a un certo punto anche alcuni Paesi ASEAN. L’industria dei semiconduttori si sta sviluppando velocemente nella regione e alcuni Paesi giocano già una parte fondamentale – soprattutto Malesia e Singapore. In alcuni casi, si tratta di partner riconosciuti da Washington anche sul piano politico. Prima o poi, gli USA potrebbero provare a coinvolgerli in iniziative come Chip4. Tutte le principali economie ASEAN hanno un rapporto ambivalente con la Cina: da un lato, partner economico fondamentale; dall’altro, vicino sempre più assertivo. Pertanto, per i loro governi potrebbe porsi lo stesso dilemma affrontato oggi da Seul. In ogni caso, occorre ricordare che l’industria mondiale dei semiconduttori non può prosperare senza un sistema commerciale liberalizzato e schermato, quanto più possibile, dalle tensioni politiche, a causa della fitta rete di interdipendenze tra Paesi. L’acuirsi delle tensioni tra Washington e Pechino in questo campo avrebbe, in ogni caso, effetti profondamente negativi sul settore e ne renderebbe ancora più complicata la crisi.

La rivoluzione del caffè in ASEAN

Articolo di Chiara Suprani

Mentre continua ad aumentare il consumo locale della bevanda, i produttori regionali a partire da quelli del Vietnam sono preoccupati per l’incombente carezza di caffè che rischia di far volare i prezzi

L’Asia è la rinomata patria delle piantagioni e dei rituali del tè, tuttavia secondo l’Organizzazione Internazionale del Caffè, la regione dell’Asia-Oceania ha accresciuto il suo consumo di caffè del 1,5% negli ultimi cinque anni, superando di un punto in percentuale la crescita del consumo in Europa (che resta comunque per il momento più alta) nello stesso periodo. Per alcuni la questione è da rifarsi all’ascesa della classe media, che sarebbe più incline ad esplorare nuove tendenze e a consumare prodotti occidentali. Per altri, invece, l’inclinazione andrebbe ben oltre la semplice curiosità: si tratterebbe ormai di una questione culturale tale da provocare nei consumatori la ricerca e l’attenzione verso i “chicchi” locali. Non solo, al caffè gli abitanti del Sud-Est asiatico attribuiscono un retaggio coloniale. Nel XIX secolo, la Francia raccoglieva nel Vietnam semi conosciuti con il nome di “boccioli di ciliegio”, dal colore cremisi, e i Paesi Bassi ne esportavano grosse quantità dall’Indonesia.

Sebbene la caffeicoltura, specialmente quella della più pregiata varietà di caffè arabica, sia notoriamente legata alle economie del Sud America, le alluvioni in Colombia e i raccolti carenti del 2021 di Honduras, Guatemala e Nicaragua, hanno negli ultimi due anni riorientato le catene di approvvigionamento.

Per alcuni Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, gli ultimi anni sono stati propizi per il commercio del caffè. Il Vietnam a gennaio 2022 era il secondo Paese per export di caffè al mondo, dopo il Brasile. L’Indonesia da febbraio 2021 a gennaio 2022 ha esportato sette milioni di sacchi da 60 kg di caffè, superando l’Uganda. 

I “boccioli di ciliegio” del Vietnam

Anche nel Vietnam, il caffè è radicato nella cultura. Nel lessico, le tangenti sono chiamate “soldi del caffè” mentre socializzare si dice andare a “ca phe ca phao”. Famoso per la sua varietà di caffè robusta, il Vietnam ha esportato 1,24 milioni di tonnellate di caffè per un valore di 2,82 miliardi di dollari durante i primi otto mesi del 2022, registrando aumenti del 14,7% in volume e del 39,6% in valore rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Eppure, Hanoi guarda preoccupata alle prospettive dei prossimi mesi. Il rialzo dei prezzi globali sta già colpendo il settore, che vedrà un calo nella produzione dei semi di caffè il prossimo anno. La disponibilità locale verrà ridotta a sua volta, con le ritenute dei coltivatori che crolleranno dal 13 al 2% della loro produzione annua. Il crollo dell’approvvigionamento della varietà di robusta, che rappresenta il 90 per cento della produzione nazionale, ha spinto i prezzi nella provincia di Dak Lak, che copre un terzo del raccolto del Paese, fino a 49.100 dong vietnamiti (US$ 2.10) per chilogrammo. Un prezzo da record.

Indonesia: la mecca del caffè

L’Indonesia è il secondo Paese in Asia per produzione di caffè. Iman Kusumaputra è uno dei co-fondatori di Kopikalyan, la risposta indonesiana a Starbucks, e ha sottolineato in un’intervista a Nikkei che “se una volta la produzione era principalmente orientata all’esportazione, ora i contadini si tengono la miglior qualità di caffè per sé”. Inoltre, la conformazione geografica dell’Indonesia, ossia la più grande nazione arcipelago al mondo, permette al Paese di coltivare numerose varietà di caffè, ciascuna che rispecchia le caratteristiche dell’isola in cui viene piantata. Un altro aspetto che ha probabilmente contribuito a portare il consumo di caffè in Indonesia a 5 milioni di sacchi da 60 kg nel 2020/21 è la ricerca di una bevanda non alcolica da condividere in momenti di socialità in un Paese a maggioranza musulmana.

I weed cafè thailandesi

L’8 giugno di quest’anno il governo thailandese ha dichiarato che non è più illegale coltivare e commerciare marijuana e prodotti alla canapa. Era stato previsto che questa mossa, in un Paese conservatore e di religione Buddhista, avrebbe avuto conseguenze limitate per il commercio, dato il divieto sull’uso ricreativo e la produzione di droghe con un livello di THC maggiore dello 0,2 per cento. Negli ultimi mesi, tuttavia, nel tentativo di riattivare il turismo post pandemico, a Bangkok sono spuntati numerosi weed cafè. Nel biennio 20/21 il consumo di caffè in Thailandia ammontava a quasi un milione e mezzo di sacchi da 60kg. L’allentamento delle misure anti-Covid assieme alla legalizzazione della marijuana ha incentivato i giovani imprenditori nazionali all’apertura di nuovi locali che potessero combinare questi due settori.

Resta da vedere se le previsioni per settembre si confermeranno corrette. In tal caso, in Paesi come Germania, Stati Uniti ed Italia, tra i principali importatori di caffè dal Vietnam, i prezzi subiranno un’impennata. E la disponibilità del prodotto diminuirà data anche la tendenza in crescita del consumo domestico di caffè nei Paesi del Sud-Est asiatico.

L’ASEAN guida del commercio globale

Tra il 2021 e il 2026 il Sud-Est asiatico sembra destinata a essere la regione con la più forte crescita di esportazioni al mondo

Tutti gli indicatori confermano: il motore della crescita dei prossimi anni sarà sempre di più il Sud-Est asiatico. Secondo il rapporto Trade Growth Atlas del fornitore di logistica globale DHL, il blocco dei Paesi ASEAN dovrebbe infatti guidare il mondo in termini di crescita delle esportazioni dal 2021 al 2026. Alle spalle della regione del Sud-Est si dovrebbero affermare Asia meridionale e centrale. Si prevede che l’ASEAN registrerà una crescita del volume delle esportazioni del 5,6% nel quinquennio, seguita dall’Asia meridionale e centrale con il 5% e dall’Africa sub-sahariana con il 4,4%, con la prosecuzione della riscrittura degli equilibri commerciali globali. Il Sud-Est asiatico e l’Asia meridionale e centrale sono dunque destinati a essere sempre di più “nuovi poli” di crescita del commercio. In primissimo piano Vietnam e Filippine, che hanno stime di crescita del PIL e delle esportazioni elevatissime nei prossimi anni, anche grazie alla diversificazione della produzione e delle catene di approvvigionamento globali. Sempre più colossi internazionali, a partire da quelli tecnologici e digitali, stanno rafforzando la loro presenza in una regione dove la classe media è in costante ampliamento.

Secondo la ricerca DHL, per altro, la pandemia non rappresenterà una battuta d’arresto tanto grave come previsto inizialmente per il commercio globale. E anche nonostante la guerra tra Russia e Ucraina, le recenti previsioni indicano che nel 2022 e 2023 il commercio globale dovrebbe crescere leggermente più veloce rispetto ai dati degli anni pre pandemici. Il tutto anche grazie all’impennata delle vendite dell’e-commerce, la cui crescita transfrontaliera dovrebbe proseguire. Le vendite globali potrebbero raggiungere il trilione di dollari nel 2030, rispetto ai 300 miliardi di dollari del 2020. E anche su questo fronte l’ASEAN può giocare un ruolo fondamentale, visto il netto aumento del settore nella regione. Il Sud-Est asiatico sta diventando un esportatore sempre più importante di beni strumentali sofisticati, come attrezzature industriali e motori. Insomma, la crescita non è solo quantitativa ma anche qualitativa.

Dal durian una lezione su pro e contro del libero commercio

Da quando il  Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) è entrato in vigore lo scorso primo gennaio, per i Paesi ASEAN esportare è diventato indubbiamente più facile. Il recente boom di vendite del durian in Cina offre importanti spunti di riflessione sulla sostenibilità dell’accordo e sulle sfide che derivano dalla creazione di una zona di libero scambio con un mercato grande come quello cinese.

Il RCEP rappresenta attualmente il 30% del PIL mondiale, nonché il più grande blocco commerciale del mondo. Per le dieci economie ASEAN, l’adesione all’accordo ha costituito un forte impulso all’esportazione dei propri prodotti. Accanto al quasi totale abbattimento delle barriere tariffarie, le più rapide tempistiche di sdoganamento delle merci deperibili costituiscono un grande vantaggio quando la freschezza è fondamentale a garantire l’alta qualità e la competitività del prodotto. È il caso del durian, diventato il frutto più importato in Cina, sia in termini di volume che di valore.

Stando alle statistiche delle dogane cinesi, nel 2021 le importazioni di durian fresco hanno raggiunto le 821.600 tonnellate, per un totale di 4.205 miliardi di dollari, registrando significativi incrementi rispetto agli anni precedenti. Paragonate a quelle del 2017, le importazioni del “re dei frutti” sono cresciute di ben quattro volte e un’ulteriore accelerazione delle vendite è prevista quest’anno.

Sebbene i costi si siano ridotti in seguito all’entrata in vigore del RCEP, questo non ha impattato sui prezzi, i quali seguono in crescita, parallelamente all’impennata della domanda del prodotto da parte dei consumatori cinesi. Ad oggi, un durian costa generalmente più di 7 dollari al pezzo, ma il prezzo elevato non ha fermato la richiesta nei supermercati e la diffusione di piatti a base di durian, come torte, crepes al latte di durian e addirittura hotpot al durian, recensiti con entusiasmo dai consumatori sui social media cinesi e popolari nei ristoranti di lusso.

In risposta, i Paesi produttori del Sud-Est asiatico stanno provvedendo ad ampliare la propria capacità produttiva. Solo dal 2019 al 2021, la Thailandia ha aumentato di circa il 30% la sua produzione di durian. “Le importazioni cinesi sono già elevate, ma si prevede che il consumo pro capite della Cina crescerà ulteriormente. Gli agricoltori thailandesi sono molto motivati a espandere la produzione”, ha spiegato a Nikkei un funzionario dell’ambasciata thailandese in Cina. 

La Malesia sta disboscando parte delle sue foreste pluviali tropicali per fare spazio a piantagioni di durian “Musang King”, la varietà più pregiata e in voga, non senza causare conseguenze irreversibili sull’ecosistema e sulle comunità locali, secondo alcuni esperti. Una dichiarazione congiunta firmata da trentasei organizzazioni della società civile e promossa dal gruppo ambientalista B.E.A.CC..H individua nel disboscamento la causa principale delle recenti inondazioni nell’area di Gunung Inas, nel distretto di Baling, le quali hanno travolto 42 villaggi e aree residenziali, colpendo 1.500 abitanti del villaggio e causando la perdita di 3 vite umane. Anche Laos e Vietnam stanno ricevendo flussi crescenti di investimenti su larga scala, anche da parte cinese, destinati all’espansione della coltivazione del durian.

Il timore condiviso è che la moda del durian in Cina possa un giorno scemare, o che Pechino possa usare misure di restrizione delle importazioni come strumento diplomatico, come già avvenuto lo scorso marzo con il divieto di importazione di ananas taiwanesi. In altre parole, l’inclusione della Cina nella principale piattaforma di integrazione economica regionale, in nome di una maggiore cooperazione in tema di commercio e investimenti, è parsa auspicabile agli occhi di molti. D’altra parte, esiste il rischio che questo possa accrescere la dipendenza economica dei Paesi ASEAN dalla Cina, lasciando spazio a improvvise perturbazioni, anche nelle nicchie di mercato attualmente più redditizie, come quella del durian.

Il Sud-Est asiatico al centro

Prima la ministeriale dell’IPEF, poi il China-ASEAN Expo: la regione porta avanti la sua linea di neutralità e cooperazione internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

La guerra in Ucraina ha acuito una tendenza che era in atto già da qualche tempo: la richiesta, implicita o meno, di scegliere “da che parte stare”. Non solo sulla Russia, ma anche in riferimento alla Cina. L’ASEAN sembra però aver scelto da tempo da che parte stare, vale a dire da quella di neutralità e pacifismo. Una strada che sta ponendo il Sud-Est asiatico, una delle regioni in più rapida crescita al mondo, al centro delle relazioni commerciali (e non) internazionali. La dimostrazione plastica arriva nel corso di questo mese di settembre, con due eventi rilevanti nel giro di una settimana. Tra l’8 e il 9 settembre i rappresentanti di Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam hanno partecipato a Los Angeles alla prima riunione ministeriale dell’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF), la piattaforma di cooperazione commerciale lanciata qualche mese fa dagli Stati Uniti del Presidente Joe Biden. Al termine del summit, i 14 Paesi che fanno parte del progetto hanno concordato sulle linee guida fondamentali per negoziare i quattro principali “pilastri” di un futuro accordo: il commercio (compresi i flussi di dati e i diritti dei lavoratori), la resilienza della catena di approvvigionamento, l’energia verde e gli standard ambientali, le misure anticorruzione e fiscali. Da venerdì 16 a lunedì 19 settembre è invece in programma la 19esima edizione del China-ASEAN Expo e del China-ASEAN Business and Investment Summit. L’evento si svolge a Nanning, nella regione autonoma del Guangxi, con la partecipazione fisica di oltre 300 imprese e di altre duemila imprese in modalità virtuale. La Malesia, in qualità di Paese d’onore, ospiterà una serie di attività sul tema del 10° anniversario dello sviluppo di due parchi industriali (a Qinzhou nel Guangxi e a Kuantan in Malesia), chiamati ad approfondire ulteriormente gli scambi economici e commerciali e la cooperazione tra Cina e ASEAN, anche nell’ambito della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Pechino è da tempo il principale partner commerciale dell’ASEAN. Nei primi sette mesi del 2022, l’interscambio è ulteriormente aumentato. Segnale di un legame importante per entrambe le parti. La possibilità di “aggiungere”, per altri attori internazionali, è concreta. E lo dimostra la cooperazione in fase di approfondimento tra ASEAN e Unione Europea. “Sostituire”, invece, appare molto più complicato.

La locomotiva ASEAN accelera

Con una contingenza globale a dir poco complessa, il Sud-Est asiatico è una delle regioni più attraenti per gli investitori internazionali

Editoriale a cura di Alessio Piazza

Boom del turismo, ripartenza robusta della domanda interna, ricchezza di materie prime e regole sempre più accoglienti per gli attori internazionali. Il Sud-Est asiatico è una delle regioni più attraenti per gli investimenti globali. Lo era prima, lo è ancora di più nell’attuale contingenza, resa ancora più complessa dall’inflazione diffusa e dalle incognite sulle catene di approvvigionamento. A partire da quella energetica. Mentre i titoli azionari globali sono in difficoltà dopo le ultime mosse della Federal Reserve statunitense, le prospettive di crescita del Sud-Est asiatico rendono infatti l’area ASEAN una delle preferite dagli investitori. Secondo le stime di Bloomberg, la maggior parte delle maggiori economie della regione dovrebbe crescere di almeno il 5% nel 2022, grazie all’abolizione delle restrizioni imposte durante la pandemia di Covid-19. E i fondi globali hanno versato un importo netto di 2,4 miliardi di dollari nella regione, senza peraltro contare Singapore. Secondo il South China Morning Post, la composizione dei benchmark azionari del Sud-Est asiatico, con una percentuale relativamente alta di azioni bancarie, è inoltre favorevole in un contesto di rialzo dei tassi d’interesse globali. Mentre la maggior parte delle banche centrali mondiali è stata costretta a inasprire la politica di bilancio per far fronte a un’inflazione in crescita, in parte determinata da anni di stimoli pandemici, il problema è stato meno acuto nel Sud-Est asiatico. L’Indonesia, il cui mercato azionario è tra i più performanti al mondo quest’anno, ha iniziato ad alzare i tassi solo in agosto. E, in generale, i tassi sono ancora molto più abbordabili rispetto a diversi altre zone del mondo. La Malesia ha più che raddoppiato il suo target annuale per i turisti in seguito alla ripartenza sopra le stime degli ultimi mesi, mentre la Thailandia prevede di raccogliere addirittura 11 miliardi di dollari grazie al forte aumento degli arrivi dei visitatori stranieri nel secondo semestre dell’anno. Ma anche l’Indonesia sta accelerando e, da ultimo, ha attratto anche l’attenzione dell’Arabia Saudita sulle sue startup con un potenziale futuro da unicorni. Per non parlare del Vietnam, che sta diventando destinazione della produzione di sempre più colossi internazionali. La locomotiva ASEAN è ripartita.

ASEAN e agricoltura 4.0: tra sfide globali e insicurezza alimentare fiorisce il mercato dell’agtech

L’Asia, il continente più popoloso del mondo, è anche quello che ospita più della metà (425 milioni) delle persone che ancora soffrono la fame. Le recenti sfide ambientali, sanitarie e politiche sono servite come “campanello d’allarme”, sottolineando la necessità di ripensare le catene di produzione e approvvigionamento. Nel Sud-Est asiatico, questo ha dato un forte impulso alla trasformazione digitale già in corso nel settore agricolo, innescando una vera e propria rivoluzione dell’agricoltura 4.0.

“L’agricoltura è uno stile di vita nell’ASEAN”. Nella regione 8 Paesi su 10 dipendono dall’agricoltura e dalla sua produzione e in alcuni, come Myanmar e Laos, il settore arriva a rappresentare oltre il 40% del PIL. Tuttavia, le tecniche di produzione tradizionali non riescono a far fronte alla domanda sempre più sofisticata di beni alimentari di una popolazione in continua crescita. L’Asian Development Bank stima che per tenere il passo con l’espansione della classe media e la crescita della domanda di alimenti, la produzione dovrebbe aumentare del 60-70% rispetto a dieci anni fa. I Paesi del Sud-Est asiatico si stanno dunque orientando sempre più verso soluzioni agtech che permettano di produrre di più (e in maniera sostenibile) con meno risorse, al fine di garantire la sicurezza alimentare in un contesto di crescente instabilità.

Singapore, una delle zone più densamente popolate del pianeta, punta sull’agricoltura verticale per ovviare alla scarsità di terreni da destinare all’uso agricolo. Sono ormai più di una decina i tetti adibiti all’agricoltura urbana, pensati per garantire un raccolto di 2.000 tonnellate di verdure all’anno. Utilizzando la tecnologia idroponica, la società ComCrop riesce a produrre ortaggi senza l’uso di pesticidi o erbicidi dannosi, riducendo contemporaneamente i consumi di acqua del 90% rispetto all’agricoltura tradizionale. Decisamente inferiori sono anche i costi di produzione, trasporto e stoccaggio: i prodotti coltivati sui tetti della città sono disponibili nelle rivendite locali in tempi più rapidi e a prezzi più convenienti. 

Oltre a limitare l’insicurezza dovuta alla forte dipendenza esterna in termini di approvvigionamento alimentare, le nuove tecnologie permettono anche di proteggere colture e animali da potenziali rischi ambientali. La Blue Ocean Aquaculture Technology (BOAT) ha trasformato uno spazio industriale nell’area di Tuas a Singapore in un sistema di “allevamento ittico futuristico” al coperto. Sfruttando la tecnologia del nano-ossigeno, l’azienda riesce a produrre in maniera sostenibile fino a 18 tonnellate di pesce all’anno, al riparo da problemi quali l’inquinamento delle acque e la fioritura del plancton.

L’operato di imprese pioniere come ComCrop e BOAT si allinea perfettamente con la Food Security Roadmap, il piano del governo di Singapore pensato per provvedere autonomamente al 30% del fabbisogno nutrizionale della città-stato entro il 2030, il quale prevede lo stanziamento di oltre 40 milioni di dollari finalizzate a garantire la resilienza dell’industria agricola e la gestione efficiente delle risorse.

Il successo dell’agtech sta anche trasformando le vite di molti lavoratori della regione. Pham Thi Huong ha raccontato a Nikkei Asia di aver abbandonato il lavoro nelle piantagioni di caffè sugli altipiani centrali del Vietnam per dedicarsi alla coltivazione di fragole sulle rocce in una serra di Orlar. La società australiana, in collaborazione con l’Associazione imprenditoriale olandese del Vietnam, ha infatti ideato una nuova forma di agricoltura verticale che utilizza rocce trattate con un mix brevettato di microbi per fornire nutrienti alle coltivazioni, in assenza di terreno e con un utilizzo minimo di acqua. 

Nella provincia thailandese di Prachuap Khiri Khan, Kirana Leesakulpran, 48 anni, nel settore dell’allevamento dei gamberi da quasi 30, ha dato una svolta alla propria attività integrando alcuni alimentatori automatici e un sistema di aeratori a pale nel suo stabilimento. “Da quando abbiamo implementato questa nuova tecnologia e questo sistema, siamo in grado di produrre di più. Guadagniamo di più e questo rende la nostra vita di agricoltori più sostenibile”, ha commentato, spiegando come le tempistiche di purificazione delle acque si siano ridotte da tre a sette giorni e la produttività sia aumentata in maniera significativa, riducendo al contempo gli scarti di mangimi, i quali rappresentano uno dei maggiori costi nel settore.Per le persone il cui sostentamento dipende dalle attività di agricoltura e allevamento, l’equilibrio tra produttività e sostenibilità gioca un ruolo chiave nel garantire l’accesso a cibo nutriente e in quantità sufficienti. Sullo sfondo di una generalizzata impennata dei prezzi dei beni alimentari e al rincaro di carburante e fertilizzanti dovuti al conflitto tra Russia e Ucraina, gli operatori del settore nel Sud-Est asiatico si trovano a fronteggiare eventi meteorologici estremi e problemi endemici legati all’insicurezza alimentare. Questo spinge i governi e le imprese locali a ripensare i sistemi di produzione e approvvigionamento, optando per l’integrazione delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale nelle filiere produttive. Data la forte vocazione tecnologica della regione, il Sud-Est asiatico costituisce un terreno fertile per lo sviluppo dell’innovazione nel settore agroalimentare; le sfide globali e regionali costituiranno un importante banco di prova per i nascenti mercati dell’agtech e del foodtech.

La corsa alla digitalizzazione del Sud-Est asiatico

I Paesi ASEAN crescono rapidamente sul fronte digitale, ma allo stesso tempo cercando di tenere sotto stretto controllo la vita su internet dei propri cittadini

Nel campo della tecnologia e della digitalizzazione vari governi dei Paesi ASEAN hanno due obiettivi che competono tra loro. Da una parte promuovono e sostengono una maggior digitalizzazione, soprattutto in un’ottica di espansione delle proprie economie. “Essere al passo con i tempi” dal punto di vista della digitalizzazione è un requisito fondamentale per queste economie in crescita. Dall’altra parte però c’è una forte tendenza di alcuni governi nel limitare l’accesso a internet alla popolazione. 

Dimostrazione concreta di questo comportamento la si può trovare nell’esempio del Vietnam. L’economia del Vietnam è in forte crescita; le esportazioni vietnamite nel primo trimestre del 2022 sono cresciute del 12.9 percento rispetto all’anno passato. Per sostenere questa forte crescita è necessaria una modernizzazione dei sistemi di digitalizzazione del Paese. Per questo motivo il primo ministro vietnamita Pham Minh Chinh il mese scorso ha avuto diversi incontri con rappresentanti di compagnie come Apple, Google e Facebook. In realtà, il rapporto tra il governo vietnamita e questi colossi della tecnologia è tutt’altro che semplice e lineare. Da una parte, infatti, il mercato del Vietnam è una grande fonte di guadagno per queste compagnie tech. Dall’altra parte però, esistono paletti che spesso vengono imposti alle società digitali internazionali e le restrizioni di accesso alle piattaforme digitali. 

Secondo quanto scritto dal giornalista Lien Hoang in un articolo su Nikkei Asia le stesse società che il Primo Ministro vietnamita Phạm Minh Chính ha incontrato nella Silicon Valley stanno facendo attività di lobbying in Vietnam per evitare ulteriori restrizioni nel campo digitale. Infatti, l’amministrazione vietnamita vorrebbe apportare delle modifiche ancora più stringenti al Decreto 72 che regola la gestione, la fornitura e l’utilizzo di servizi Internet, informazioni e giochi online. Le novità più stringenti sarebbero due. La prima riguarda l’introduzione di multe nel caso un contenuto non considerato idoneo dal governo vietnamita non venga bloccato dalle piattaforme online nel giro di 24 ore. La seconda novità sarebbe quella di imporre alle società di archiviare i dati raccolti online in Vietnam entro i confini nazionali. Questo provvedimento introdurrebbe dunque il divieto di trasferire questi dati fuori dai confini dello Stato. Hanoi è pronta a fare affari con le grandi compagnie tech ma vuole allo stesso tempo mantenere un saldo controllo sulla vita digitale dei propri cittadini.

Il problema della libertà in rete non è presente solo in Vietnam, ma è un problema più generalizzato e rilevante in altri Paesi dell’ASEAN. Come si può vedere dal grafico riportato in basso, molti Paesi del Sud-Est asiatico non ottengono punteggi elevati nel grado di “libertà di Internet” (internet freedom). Il Myanmar si attesta penultimo tra i Paesi asiatici con un indice di libertà di internet di 17, solo 7 punti in più rispetto alla Cina. Il Vietnam si aggiudica invece un indice di libertà di internet di 22 su 100, rappresentando il terzultimo Paese in Asia in termini di libertà digitale. Anche Thailandia e Cambogia non raggiungono indici molto elevati di libertà dei propri cittadini in rete. Dall’altra parte le Filippine con uno score di 65 su 100, che viene valutato dunque come il Paese in cui i cittadini hanno più libertà di usufruire liberamente delle piattaforme digitali. Per avere un metro di paragone stati come Italia, Francia, Germania hanno una “internet freedom” index intorno al 76-78 su 100. In generale, come dichiarato da vari esperti, pesanti restrizioni nel contesto delle piattaforme digitali potrebbero in futuro dimostrarsi estremamente controproducenti e contraddittorie rispetto all’obiettivo di molti Paesi ASEAN di sviluppare delle economie digitali. Per questo è probabile che il tema della “internet freedom” sarà di estrema importanza per i Paesi del Sud-Est asiatico nei prossimi anni. 

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Fonte grafico: https://www.statista.com/statistics/373347/degree-of-internet-freedom-in-asia/ 
Per approfondire e vedere sulla mappa: https://freedomhouse.org/explore-the-map?type=fotn&year=2021

 

ASEAN e UE ancora più vicine

A dicembre in programma un summit dal formato inedito tra i due blocchi per discutere di cooperazione commerciale e catene di approvvigionamento

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

Guerra in Ucraina, tensioni in Asia-Pacifico, inflazione e dilemma energetico. Le ombre sul futuro prossimo preoccupano tanti e diventa ancora più urgente la cooperazione multilaterale. Unione Europea e ASEAN hanno dimostrato già più volte in passato di aver compreso questa necessità e ora si muovono per accelerare la collaborazione bilaterale. Con questo spirito, il 14 dicembre è stato organizzato per la prima volta un vertice dei leader nazionali dei due blocchi per discutere dell’espansione del commercio e dell’assistenza infrastrutturale. Ai precedenti vertici tra i due gruppi hanno partecipato capi e alti funzionari dell’organo esecutivo dell’UE, ma stavolta saranno coinvolti direttamente i capi di Stato e i leader nazionali dei Paesi dell’ASEAN e dell’UE. Segnale che si vuole garantire un maggiore allineamento politico, oltre a quello già esistente a livello economico e commerciale. L’obiettivo è quello di sviluppare e mettere al sicuro le catene di approvvigionamento globali minacciate dalle turbolenze economiche e geopolitiche degli ultimi mesi. L’Europa incoraggerà il Sud-est asiatico a svolgere un ruolo centrale nella catena di approvvigionamento dell’Occidente, sulla base dell’idea di “friend-shoring” tra nazioni con valori condivisi. In cambio dovrebbe offrire aiuti infrastrutturali e accordi di cooperazione economica. Magari proseguendo i negoziati per nuovi accordi di libero scambio coi Paesi membri dell’ASEAN. Sono già in essere accordi con Singapore e Vietnam ma si cerca di accelerare anche con Indonesia, Filippine, Malesia e Thailandia. Una rete di libero scambio ampliata permetterebbe di diversificare le catene di approvvigionamento e di ridurre la dipendenza dalle risorse energetiche di altri Paesi come la Russia. Nel 2021, UE e ASEAN hanno scambiato merci per 250 miliardi di dollari, ma il margine di miglioramento è ancora ampio. Non più tardi del 4 agosto scorso, l’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borrell ha ribadito l’impegno ad approfondire i rapporti con l’area ASEAN. Necessità sempre più chiara ai governi dei vari Paesi europei, che come quelli delle controparti asiatiche non hanno nessuna intenzione di tornare a un mondo diviso in blocchi. 

La corsa ai Green Bonds dei paesi del Sud-Est asiatico

La regione, particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico, investe nella finanza verde

Il Sud-Est asiatico punta alla finanza verde per rilanciare l’economia e tutelare l’ambiente in questo periodo difficile. Già 10 paesi dell’ASEAN hanno emesso obbligazioni verdi (i cosiddetti “green bonds”) per finanziare progetti ecologici, nella speranza di rendere sempre più concreti i piani per salvaguardare il pianeta. I green bond sono obbligazioni la cui emissione è legata a progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente, come per esempio l’efficienza energetica, la produzione di energia da fonti pulite o l’uso sostenibile dei terreni. Questi temi sono molto cari alla regione, particolarmente soggetta a fenomeni meteorologici estremi e vulnerabile all’innalzamento dei livelli del mare. 

Il mercato del debito sostenibile dell’ASEAN ha raggiunto nel 2021 un record annuale di emissioni di obbligazioni e prestiti verdi, sociali e sostenibili, per un valore di 24 miliardi di dollari, a cui si aggiungono ulteriori 27,5 miliardi di dollari se si considerano obbligazioni e prestiti legati alla sostenibilità in senso più ampio.

Molti Paesi hanno infatti già preso impegni molto ambiziosi per ridurre, o addirittura azzerare, le emissioni di carbonio. Thailandia, Vietnam e Malesia per esempio, hanno fissato l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, l’Indonesia entro il 2060. Queste ambizioni sono concretizzate anche grazie alla mobilitazione di capitali attraverso il mercato della finanza sostenibile. Secondo un rapporto di giugno dell’Asian Development Bank, l’ammontare delle obbligazioni sostenibili emesse dai mercati principali dell’ASEAN e dell’Asia orientale ha raggiunto i 478,7 miliardi di dollari alla fine di marzo, registrando un’espansione del 51,3% su base annua.

In particolare la Thailandia risulta particolarmente attraente per gli investitori, grazie al suo mercato obbligazionario maturo, il secondo più grande del Sud-Est asiatico dopo la Malesia. Dal 2020 il governo e le imprese statali hanno emesso più di 127 miliardi di baht, secondo il rapporto annuale del Thai Public Debt Management Office. Tra i fondi raccolti, una grossa fetta (circa 30 miliardi di baht) ha finanziato in parte la nuova linea arancione, una linea ferroviaria che collega i sobborghi esterni di Bangkok da est a ovest fino al centro della città. Questo progetto infrastrutturale dovrebbe alleviare i problemi di traffico e dell’inquinamento atmosferico persistenti nella capitale thailandese e peggiorati in seguito alla pandemia di COVID-19, dato che i pendolari hanno ripreso ad usare veicoli privati per evitare l’affollamento dei mezzi pubblici.

Singapore ha annunciato che le agenzie governative emetteranno fino a 35 miliardi di dollari  di green bond entro il 2030. Anche in questo caso, lo scopo è quello di finanziare progetti infrastrutturali ecologici, come i  trasporti pubblici, al fine di incoraggiare un maggior numero di pendolari a prendere il treno e ridurre la loro dipendenza dalle automobili. Tra i progetti che il governo della città-stato intende implementare c’è la rete ferroviaria della regione di Jurong nella parte occidentale del Paese, che ambisce a ridurre le emissioni del trasporto terrestre dell’ 80% intorno alla metà del secolo. Singapore sta anche esplorando l’uso di obbligazioni per l’adattamento ai cambiamenti climatici, per esempio per la protezione delle coste. Anche le Filippine hanno emesso i loro primi green bond per finanziare progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

La Malesia e l’Indonesia invece, che hanno grandi popolazioni musulmane, hanno introdotto obbligazioni islamiche verdi, anche dette sukuk. L’obiettivo di questi strumenti è in linea con il principio islamico della tutela dell’ambiente, consentendo agli emittenti di attingere al prospero mercato della finanza islamica. Fanno parte di questo trend  l’emissione di sukuk verdi da parte della Malesia per finanziare la costruzione di impianti solari su larga scala.
Anche il Vietnam, infine, sta approfittando del mercato dei green bonds, in particolare per il finanziamento di progetti nel settore dei trasporti e dell’energia come il parco solare di Dau Tieng.

Non solo affari: l’UE si lancia in Asia-Pacifico

L’Ue guarda con sempre maggiore attenzione all’Asia-Pacifico. Di recente anche con un inedito focus sugli aspetti securitari, in aggiunta e non in sostituzione dell’approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica 

L’Indo-Pacifico rappresenta “il centro di gravità economico e strategico del mondo”. Così Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europa per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, ha definito la regione nel marzo 2021, sottolineando l’urgenza per l’Unione Europea di dotarsi di un approccio strategico verso quell’area di mondo che sta catalizzando l’attenzione e gli sforzi dei principali attori internazionali.

La macro-regione che si estende dalla costa orientale dell’Africa agli stati insulari del Pacifico e l’Asia Orientale contribuisce per due terzi al tasso di crescita globale e con una quota pari al 62% al PIL mondiale e ospita quattro dei dieci maggiori partner dell’UE (Cina, Giappone, Corea del Sud e India), nonché più della metà della popolazione mondiale. Al contempo, rappresenta il principale teatro della competizione geopolitica tra Cina e Stati Uniti. Consapevoli della sua rilevanza strategica, già da tempo diversi paesi europei, come Germania, Francia e Paesi Bassi, hanno messo in atto iniziative e strategie autonome per proteggere gli interessi nazionali nella regione, nel tentativo di attenuare le conseguenze della rivalità sino-americana e dalle frizioni tra le potenze regionali, le quali si riverberano sulle catene di approvvigionamento globale, sugli scambi commerciali e sulla libera navigazione nei mari.

Ma la crisi pandemica e l’intensificarsi delle tensioni politiche e delle dispute territoriali nella regione hanno reso palese l’esigenza di una maggiore concertazione degli sforzi. Il 19 aprile 2021, il Consiglio Europeo ha annunciato l’approvazione delle conclusioni su una strategia per la cooperazione nell’Indo-Pacifico, che mira ad armonizzare i diversi orientamenti nazionali degli Stati membri in una visione comune che possa guidare il futuro impegno europeo a lungo termine nell’area. I 27 Ministri degli Esteri hanno concordato sull’obiettivo di rafforzare l’impegno europeo per “contribuire alla stabilità, alla sicurezza, alla prosperità e allo sviluppo sostenibile della regione”, in linea con  i valori comuni di sostegno alla democrazia, ai diritti umani, allo Stato di diritto e di rispetto del diritto internazionale.

Come tipicamente accade, l’impegno europeo passa per l’approfondimento delle relazioni economiche con i paesi dell’area e per il rafforzamento della posizione commerciale strategica vis-à-vis gli imponenti blocchi commerciali esistenti nell’area, riflesso degli accordi siglati negli ultimi anni, il partenariato economico regionale globale (RCEP) e l’accordo globale e progressivo di partenariato transpacifico (CPTPP). Tra gli obiettivi, il raggiungimento di accordi di libero scambio con Australia, Indonesia e Nuova Zelanda e il rilancio dei negoziati con l’India, sulla scia degli ambiziosi accordi commerciali e di investimento già siglati con Vietnam, Giappone, Repubblica di Corea e Singapore.

La strategia per l’Indo-Pacifico introduce anche un inedito focus sugli aspetti securitari, distanziandosi da un approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica e in tema di diritti umani. Il rafforzato ingaggio europeo si sostanzia in una serie di iniziative che spaziano dalla difesa e sicurezza tradizionale, come esercitazioni militari congiunte con i partner regionali, fino a raggiungere i domini più innovativi della cyber sicurezza, e arriva in risposta alla sempre crescente assertività cinese nella regione.

Nel quadro del progetto European Critical Maritime Route Indian Ocean (CRIMARIO II), l’UE ha deciso di allargare l’ambito di applicazione geografica delle sue operazioni di protezione delle rotte marittime critiche. La portata del progetto, inaugurato nel 2015 con un focus su alcuni particolari Paesi e arcipelaghi dell’Africa Orientale e attualmente nella sua seconda fase, si estende oggi fino ad includere tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano e il Sud-Est asiatico e le autorità europee stanno vagliando la possibilità di replicare l’esperienza nel Pacifico meridionale. In aggiunta, sono stati ampliati gli ambiti di cooperazione: accanto alla condivisione di informazioni e ad iniziative di formazione e rafforzamento delle capacità, sono state previste alcune componenti aggiuntive di comunicazione tra le forze dell’ordine e la magistratura a livello nazionale, internazionale e regionale e il rispetto delle normative internazionali, da implementare esclusivamente nelle aree del Sud e Sud-Est asiatico.

Azioni coordinate di questo tipo si affiancano al dispiegamento autonomo di forze navali da parte di Stati membri (ed un ex Stato membro, ovvero il Regno Unito), alcune delle quali precedono temporalmente qualsiasi strategia integrata a livello europeo e si devono alla presenza storica di alcuni Paesi nella regione. In primis, la Francia, unico Paese europeo con una presenza militare permanente nell’area, a fronte di imponenti interessi strategici, a partire dalla presenza di alcuni territori d’oltremare, tra cui l’isola di Reunion nell’Oceano Indiano e gli arcipelaghi della Polinesia Francese nel Pacifico Meridionale. Significativo è anche il contributo della Royal Navy, che a partire dal 2021 ha inaugurato un significativo rafforzamento della sua presenza navale nell’area con lo schieramento della mastodontica portaerei HMS Queen Elizabeth (R08) e il relativo Carrier Strike Group (CSG). Anche Olanda e Germania hanno concorso a fortificare l’impegno militare europeo nell’area con l’invio, rispettivamente, delle fregate HNLMS Evertsen e Bayern.

Il piano per l’Asia Pacifico si allinea alla Global Gateway, il modello europeo di partenariati globali per la “connettività affidabile” e sostenibile. Questa più ampia strategia si sostanzia in investimenti infrastrutturali “intelligenti, puliti e sicuri” nei paesi partner, con un focus sui settori-chiave del digitale, dell’energia e dei trasporti, della sanità e dell’istruzione della ricerca, per i quali l’Unione e gli Stati membri prevedono di mobilitare fino a 300 miliardi di euro. 

Seppur non esplicitato nel documento, secondo alcuni osservatori il progetto potrebbe rispecchiare la volontà europea di smarcarsi dalla competizione sino-statunitense offrendo ai Paesi partner un’alternativa (seppur non perfettamente sovrapponibile in termini di modalità e fondi investiti) a simili iniziative di connettività: la Belt and Road Initiative cinese e la Build Back Better World (B3W) a guida statunitense. Tuttavia, l’approccio dell’Unione alla regione resta “improntato alla cooperazione, non alla ricerca di uno scontro”, come chiarito dalla portavoce dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Nabila Massrali e più volte sottolineato dalle autorità europee. Nella nuova strategia per l’Indo-Pacifico, viene rimarcata apertamente la volontà di mantenere un atteggiamento aperto e inclusivo nei confronti di tutti gli attori regionali che condividono preoccupazioni, interessi e valori con l’Unione. La stessa presidentessa della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha commentato su Twitter: “Vogliamo un Indo-Pacifico sereno e prospero. Deve essere libero, aperto, interconnesso, prospero, con un’architettura di sicurezza basata su regole che serva tutti gli interessi. Continueremo a incoraggiare Pechino a fare la sua parte in una regione indopacifica pacifica e prospera”.

Resta da vedere se l’Europa sarà davvero in grado di farsi largo tra le due superpotenze in competizione per perseguire la propria ambiziosa agenda, offrendo una reale alternativa ai partner regionali, o se la recente volontà di accrescere la propria proiezione politica, militare ed economica non farà che esacerbare il clima di tensione nell’area. 

La visione razionale dell’ASEAN

Si innalzano le tensioni nel Pacifico: il Sud-Est asiatico offre il suo modello come soluzioni di salvaguardia della pace

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro

Nell’ultimo mese, l’ASEAN si è tornata ancora una volta ad essere un crocevia per la diplomazia mondiale. Luglio è iniziato con l’ormai abituale High Level Dialogue tra ASEAN e Italia, a Kuala Lumpur. L’occasione ha messo in rilievo la competenza italiana nell’ambito della transizione energetica e sono stati delineati i cinque punti su cui la partnership bilaterale Italia-ASEAN concentrerà gli sforzi. Si sta valutando una partnership tra i governi ASEAN e le imprese private italiane, per rendere gli investimenti più attraenti. In questi giorni si è invece svolto il summit dei Ministri degli Esteri dell’ASEAN nella capitale cambogiana Phnom Penh. E, ancora una volta dopo il recente viaggio del Presidente indonesiano Joko Widodo tra Kiev e Mosca, il Sud-Est asiatico si erge a possibile mediatore di conflitti seguendo la sua linea di neutralità e pacifismo. Il forum di Phnom Penh si è svolto infatti nel mezzo delle tensioni tra Stati Uniti e Cina per il viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. Il mondo pare essersi retoricamente diviso in due, con Washington e G7 a condannare la dura reazione di Pechino che comprende esercitazioni militari intorno all’isola, e la Russia che invece sostiene la Cina insieme alla Corea del Nord. L’ASEAN, invece, adotta una sua terza via sperando di poter indicare un metodo diverso per le relazioni internazionali. In una rara presa di posizione ufficiale in merito alle questioni inerenti Taipei, l’ASEAN ha diramato una nota sollecitando sia Usa sia Cina a placare le tensioni e ad astenersi da provocazioni. L’ASEAN ha affermato che “la comunità globale ha urgente bisogno della saggezza e responsabilità di tutti i leader per tutelare il multilateralismo e i partenariati, la cooperazione, la coesistenza pacifica e una leale competizione per salvaguardare i comuni obiettivi della pace, della stabilità, della sicurezza e dello sviluppo inclusivo e sostenibile”. Un invito rivolto a entrambe le superpotenze. L’ASEAN ha anche espresso l’impegno a giocare un ruolo costruttivo nella “facilitazione del dialogo pacifico tra tutte le parti, anche tramite il ricorso a un meccanismo a guida ASEAN per placare le tensioni, salvaguardare la pace, la sicurezza e lo sviluppo nella nostra regione”. Dalle crisi attuali, l’ASEAN sta uscendo con un’immagine più forte, fatta di razionalità e diplomazia.