Asean

ASEAN centro della diplomazia globale

Dal summit del blocco in Cambogia ai vertici del G20 in Indonesia e APEC in Thailandia. Con sullo sfondo le elezioni in Malesia. Agenda fittissima col Sud-Est asiatico al centro

Editoriale a cura di Alessio Piazza

Mai si avrà dimostrazione più evidente come in queste settimane di come l’ASEAN e la regione del Sud-Est asiatico siano ormai al centro del mondo.  Un novembre in cui non solo i leader regionali ma quelli di tutto il mondo si danno appuntamento nell’area. Tra Phnom Penh, Giacarta e Bangkok una rapida e fondamentale successione di appuntamenti e vertici che possono delineare scenari diplomatici di importanza globale. In un momento in cui il mondo guarda con apprensione alla guerra in Ucraina e alle tensioni in Asia orientale, nonché all’aumento dell’inflazione e all’inasprirsi della competizione tra potenze, il Sud-Est asiatico può diventare la piattaforma da cui ripartire con prospettive più confortanti per il futuro. Il fitto programma di eventi comprende gli incontri in seno all’ASEAN, tra cui il vertice dell’Asia orientale in programma dall’8 al 13 novembre a Phnom Penh, con la Cambogia che detiene una Presidenza di turno e che nel 2023 passerà all’Indonesia. Proprio in Indonesia, per l’esattezza a Bali, si svolge il summit del G20 del 15 e 16 novembre. Solo due giorni dopo apre invece i battenti il forum della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC), in programma a Bangkok il 18 e 19 novembre. Questi incontri attireranno i leader di Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia, India e tanti altri Paesi importanti a livello regionale e globale. Italia compresa. È raro che nello stesso mese siano in programma così tanti consessi internazionali di questo livello nella stessa regione. C’è grande attesa per il possibile bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping a margine del G20. Mentre gli incontri del G20 e dell’APEC si concentreranno sulla cooperazione economica, i vertici dell’ASEAN si occuperanno anche di politica e sicurezza, ovvero dell’Ucraina e delle tensioni nel Mar Cinese Orientale e Mar Cinese Meridionale. Il Presidente indonesiano Joko Widodo mira a raggiungere risultati anche sul fronte dell’impennata dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, che stanno ostacolando la ripresa economica globale dopo lo stop causato dalla pandemia di Covid-19. Parola chiave: multilateralismo. ASEAN e Sud-Est asiatico possono diventare il motore propulsore di una ripartenza non solo economica ma anche diplomatica.

Il summit a Phnom Penh apre il mese del Sud-Est

Fino al 13 novembre in Cambogia va in scena il vertice annuale dell’ASEAN. È il primo dei tre grandi appuntamenti di novembre, insieme ad APEC e G20, che vedranno l’area al centro della scena politica internazionale. Tra divisioni e grandi temi, ecco l’agenda del summit del blocco regionale

Articolo di Francesco Mattogno

Un mese al centro della diplomazia mondiale. Sede di tre grandi eventi internazionali, per buona parte di novembre il Sud-Est asiatico è una tappa obbligata nelle agende dei leader delle grandi potenze. Il primo appuntamento è il 40° e 41° vertice annuale dell’Associazione del Sud-Est Asiatico (ASEAN) che si svolge a Phnom Penh, capitale della Cambogia, fino al 13 novembre. Il termine “vertice” è riduttivo. Sono sei giorni di incontri bilaterali e multilaterali senza sosta, dal summit sul Business e gli Investimenti (ABIS) al 25° vertice ASEAN-Cina e 10° ASEAN-USA. Tanti anche gli ospiti che hanno scelto di unirsi ai capi di stato o di governo dei Paesi membri dell’Associazione, tra cui figurano anche alti funzionari internazionali, come il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

Per quanto riguarda i paesi ASEAN, non è presente Min Aung Hlaing. È il secondo anno consecutivo che il generale e primo ministro golpista del Myanmar non è stato invitato al vertice, conseguenza della guerra civile scatenata a seguito del colpo di stato militare del 1° febbraio 2021. Per quanto riguarda la Cina, niente trasferta in Cambogia per Xi Jinping: al suo posto il premier cinese Li Keqiang. Li è arrivato in anticipo per incontrare sia il re cambogiano Norodom Sihamoni che il primo ministro Hun Sen. Joe Biden dovrebbe invece presenziare agli incontri del 12 e 13 novembre. Si tratta del primo viaggio in Cambogia di un Presidente statunitense dal 2012, quando Barack Obama visitò il Paese proprio in occasione dell’ultimo summit ASEAN presieduto da Hun Sen prima di questo.  

Le non-decisioni sul Myanmar hanno evidenziato le lacune nel processo decisionale dell’ASEAN e riacceso il dibattito sul superamento del “principio del consenso”, per il quale ogni stato membro deve essere d’accordo al momento di una risoluzione. Tutto materiale per il vertice di Phnom Penh, nel quale temi come ambiente, energia e ripresa post-covid faranno probabilmente solo da cornice alle questioni su politica e sicurezza. Tanto che lo stesso Hun Sen aveva cercato, senza successo, di rendere il vertice la sede di colloqui di pace tra Russia e Ucraina. 

E sempre la politica è al centro della presenza americana e cinese al summit. La Cina ha strizzato l’occhio all’ASEAN concludendo, a pochi giorni dal vertice, una serie di accordi con Vietnam e Singapore (il segretario generale del Partito comunista vietnamita, Nguyen Phu Trong, è stato il primo a incontrare Xi Jinping dopo il 20° Congresso). Il 26 ottobre il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha inoltre ricevuto i diplomatici ASEAN a Pechino, dicendosi speranzoso che l’Associazione possa mantenersi “indipendente” anche in futuro.

A sua volta Biden aveva invitato i leader del blocco a Washington lo scorso maggio, inaugurando una “nuova era” delle relazioni tra Stati Uniti e ASEAN. Per questo il Presidente statunitense potrebbe concentrarsi sul sottolineare i vantaggi della cooperazione in ambito di sviluppo economico, digitale e ambientale, cercando di mostrarsi come un’alternativa alla Repubblica Popolare. USA e ASEAN potrebbero infatti stabilire un Partenariato Strategico Globale, lo stesso firmato al summit dello scorso anno tra l’Associazione e il suo principale partner commerciale: la Cina. È un po’ la condizione di normalità del Sud-Est asiatico, tirato da una parte e dall’altra. Lo scopo della regione è quello di rimanere in equilibrio tra le grandi potenze, proprio mentre tutte bussano alla sua porta.

Che cosa aspettarsi dal summit del G20 di Bali

L’obiettivo dichiarato della presidenza indonesiana era quello di riportare l’attenzione verso i Paesi emergenti e in via di sviluppo, ma purtroppo si sono messe di mezzo la geopolitica e la guerra in Ucraina

Articolo di Ilaria Zolia

L’Indonesia sta finalizzando i preparativi per ospitare il summit G20 del 15-16 novembre a Bali. Joko Widodo, Presidente indonesiano e Presidente di turno del G20, ha visitato Kiev e Mosca a fine giugno per incontrare Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, diventando il primo leader asiatico ad incontrare entrambi i capi di Stato dall’inizio della guerra. La visita di Widodo, ha sottolineato il Ministro degli Esteri indonesiano Retno Marsudi, “sottolinea la preoccupazione per le questioni umanitarie, nel tentativo di contribuire a risolvere la crisi alimentare causata dalla guerra, così come le sue conseguenze”. In diversi forum a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Marsudi ha ripetuto lo stesso mantra: “In qualità di nazione ospitante, l’Indonesia è intenzionata a far progredire il multilateralismo e a promuovere la crescita economica post-pandemia”. 

All’alba della presidenza di turno del G20 e raccogliendo il testimone dall’Italia, Widodo aveva affermato che l’Indonesia, durante la sua presidenza, sperava di offrire una piattaforma per partenariati globali e finanziamenti internazionali per sostenere la transizione energetica verso fonti rinnovabili più pulite. Giacarta conosce bene le difficoltà delle economie emergenti davanti alle trasformazioni che la transizione energetica richiede. Quella che viene considerata una delle principali soluzioni sul tavolo è, per i Paesi in via di sviluppo, una sfida che richiede innanzitutto l’accesso universale all’energia elettrica di qualità. La sola Indonesia ha la sovranità su 17,500 isole e una capitale che sta sprofondando, mentre la politica economica è profondamente radicata intorno alle fonti fossili. I progetti sono tanti e ambiziosi, come un parco solare a Java che verrà completato entro la fine del 2022 e sarà, con i suoi 145 Megawatt, il più grande del Paese. 

L’obiettivo dichiarato della presidenza indonesiana era quello di riportare l’attenzione verso i Paesi emergenti e in via di sviluppo, ma purtroppo si sono messe di mezzo la geopolitica e la guerra. La gran parte delle discussioni nei mesi prima del summit si è concentrata sulla presenza di Vladimir Putin, Xi Jinping e Joe Biden e sugli eventuali incontri bilaterali fra i tre leader di Russia, Cina e Stati Uniti. Nelle sue osservazioni al Global Governance Group Forum tenutosi a New York, Marsudi ha sottolineato la necessità del vertice del G20 di produrre risultati che vadano a beneficio di tutti, senza lasciarsi sovrastare dalle questioni geopolitiche attuali. L’ex leader indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha invitato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden a incontrare gli omologhi russo e cinese Vladimir Putin e Xi Jinping al vertice del G20 di Bali il mese prossimo per scongiurare la “reale possibilità di una terza guerra mondiale”. Si tratterebbe del primo incontro di Biden con entrambi i leader di Mosca e Pechino dall’inizio della guerra in Ucraina. “L’Europa e l’Asia orientale potrebbero tirare un sospiro di sollievo” se il summit di Bali fosse un successo, dice Yudhoyono.

In questo scenario di tensioni, la presidenza indonesiana del G20 sta da tempo camminando sul filo del rasoio per difendere la sua posizione neutrale circa la guerra in Ucraina. Le rivalità tra l’Occidente e il Cremlino rappresenteranno una sfida per il Paese ospitante del summit, il quale non si è mai schierato apertamente mantenendo la linea della “terza via” dell’ASEAN basata su neutralità e pacifismo. Nonostante le pressioni, l’Indonesia ha finora “gestito con successo le pressioni”, secondo Ina Hagniningtyas Krisnamurthi, Ambasciatore indonesiano in India. “Speriamo di avere un comunicato congiunto… e speriamo di essere un buon ospite per tutti coloro che verranno a Bali”, ha dichiarato al quotidiano indiano The Economic Times

Per Giacarta il G20 rappresenta ancora un forum che ha come fulcro lo sviluppo economico che dia impulso alla cooperazione tra economie emergenti e potenze globali. Secondo Teuku Rezasyah, esperto di relazioni internazionali dell’Università di Padjadjaran a Giava Ovest, è probabile che il vertice si concluda senza un comunicato congiunto a causa delle accese tensioni tra i membri, il che sarebbe lo stesso risultato dell’incontro preparatorio al Vertice dei Ministri degli Affari Esteri che si è tenuta dal 7 all’8 luglio a Bali. “Se non c’è un comunicato congiunto, ci dovrebbe essere una dichiarazione del Presidente che illustri le questioni contestate dai membri del G20, in modo da poter vedere quali membri violano i principi del G20 e quali li sostengono”, ha aggiunto. Infatti, alla riunione i Ministri degli Esteri dei Paesi del G20 partecipanti non sono riusciti a trovare un punto di incontro sulla guerra in Ucraina e sul suo impatto globale. Alla riunione era presente anche il Ministro Russo Sergei Lavrov, il quale ha lasciato la sessione ministeriale mentre la sua omologa tedesca Annalena Baerbock stava criticando Mosca per la guerra in Ucraina. Widodo ha sempre sottolineato l’importanza della partecipazione di tutti i leader. In un’intervista rilasciata a Bloomberg il 19 agosto, ha dichiarato: “Stiamo attraversando una crisi alimentare e una crisi energetica. L’Indonesia vuole essere amica di tutti i Paesi, non abbiamo problemi con nessuno. Quello che vogliamo è che questa regione sia stabile, pacifica, in modo da poter costruire una crescita economica. E penso che non solo l’Indonesia, ma anche i Paesi asiatici vogliono la stessa cosa”, ha concluso. Durante la sua presidenza del G20, l’Indonesia ha elaborato un’agenda che riflette gli interessi dei Paesi in via di sviluppo in materia di architettura sanitaria globale, trasformazione dell’economia digitale e transizione energetica. Giacarta spera che in qualche modo la sua agenda non venga del tutto cancellata dalla geopolitica.

Come migliorare ancora l’ASEAN

Il blocco del Sud-Est asiatico ha già tanti punti di forza, ma anche le potenzialità per rinsaldare ulteriormente il suo funzionamento e il suo ruolo

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico svolge un ruolo fondamentale a livello regionale e globale. Ma ci sono ancora dei margini di miglioramento per rendere l’ASEAN sempre più integrato ed efficace su tutti i livelli. In che modo? Riuscendo a integrare e coinvolgere nei processi decisionali e organizzativi i vari organismi collaterali che possono contribuire a portare una guida strategica e intellettuale alle azioni del blocco. Un caso positivo è quello del Consiglio per la cooperazione in materia di sicurezza nell’Asia del Pacifico (CSCAP), un’organizzazione regionale creata nel 1993. Si tratta di un meccanismo informale che comprende i centri di studi strategici degli Stati membri dell’ASEAN e dei 17 Stati non-ASEAN del Forum Regionale ASEAN (ARF), permettendo dunque a intellettuali, studiosi e politici di scambiarsi informazioni e opinioni sul futuro della regione. In un editoriale pubblicato nei giorni scorsi, il The Diplomat mette in fila una serie di esempi dove invece si può fare di più e che vale la pena citare. Secondo l’autore, Teh Pi Li, vi è uno scarso coordinamento tra i think tank nazionali, i ministeri e le istituzioni ASEAN, con la maggior parte degli istituti di ricerca si occupano per lo più di questioni di sicurezza nazionale e le questiono sociali o culturali regionali non rappresentano una priorità. “In senso più ampio, l’ASEAN non ha chiarito come gli studiosi o gli stakeholder possano essere coinvolti nei meccanismi a guida ASEAN menzionati nell’ASEAN Outlook on the Indo-Pacific (AOIP), attraverso i quali l’ASEAN spera di coinvolgere gli stakeholder delle regioni dell’Asia-Pacifico e dell’Oceano Indiano”, si legge sul The Diplomat, secondo cui “mancano meccanismi formali attraverso i quali le parti interessate possano scambiare idee e informazioni”. Viene poi menzionato il fronte economico, con i collegamenti tra i diversi consigli commerciali dell’ASEAN e quelli dei partner esterni del blocco che necessitano di un grande rafforzamento. L’ASEAN si vede come una “comunità” e lo è già sotto tanti punti di vista. Ma per navigare le movimentate acque del presente, serve forse rafforzare ulteriormente una nave già salda ma che può diventare ancora più sicura nel suo procedere verso il futuro.

Il futuro dell’ASEAN Way

All’interno del blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico è nato un dibattito sui meccanismi decisionali dell’Associazione

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro

Direttore Associazione Italia-ASEAN

Quello del consenso “è il principio fondamentale dell’ASEAN per una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e per garantire la continuità dell’Associazione nell’integrare pienamente il blocco, così da realizzare la costruzione della comunità ASEAN”. È la cosiddetta “ASEAN way” caratterizzata da neutralità e pacifismo di cui abbiamo parlato diverse volte. E di cui parla anche il cambogiano Chun Sovannarith. Ovvero la chiave, a suo parere, dello “straordinario successo” dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico nel rendere la regione “stabile, pacifica, inclusiva, sostenibile, resiliente e prospera per oltre cinque decenni”. Da 55 anni l’ASEAN prende le proprie decisioni basandosi sul modello del consenso, citato 6 volte all’interno dei 55 articoli della Carta dell’associazione. Attraverso questo processo decisionale condiviso, alternativo al principio della maggioranza, si è dunque prodotto un meccanismo di integrazione e consultazione continua tra tutti gli stati membri. Ultimamente, però, circola un’idea che se applicata potrebbe apportare qualche modifica a questa storica unità d’intenti. Sul modello dell’“ASEAN Minus X” (una formula che permetteva ad alcuni stati del gruppo di non attuare delle politiche tariffarie e commerciali adottate in sede comune), c’è chi immagina la creazione di un modello di “maggioranza con super voto” volto a migliorare l’efficacia istituzionale dell’associazione nei casi in cui non si raggiungesse il consenso su questioni regionali o internazionali di interesse comune. Una posizione sulla quale può valere la pena aprire un dibattito, ma secondo Chun Sovannarith “bisogna chiedersi se un eventuale nuovo modello si adatti al contesto attuale o meno, considerando che il principio del consenso funziona già efficacemente per l’unità nella diversità dell’ASEAN, sotto il motto di una visione, un’identità e una comunità”. In tal senso, si può anche dire che questa idea “potrebbe non essere coerente con la natura stessa dell’ASEAN”, aggiunge esprimendo una posizione che si sposa con quella del governo cambogiano. Sulla base degli articoli della Carta dell’associazione, continua Chun, “la personalità giuridica dell’ASEAN deve prevalere di gran lunga sulla decisione politica, poiché la decisione dei leader è giuridicamente vincolata dal principio del consenso”. Al di là delle opinioni, va considerato che per cambiare il modello decisionale ed emendare la Carta servirebbe proprio il consenso di tutti gli stati ASEAN. 

Il pragmatismo dei Paesi ASEAN sulla Russia

Le nazioni del Sud-Est asiatico condannano l’offensiva russa in Ucraina ma non possono permettersi di compromettere l’economia per sanzionarla

Il Sud-Est asiatico si tiene stretti i rapporti commerciali con Mosca, mentre l’Occidente e alcuni partner asiatici continuano a imporre sanzioni e a condannare la Russia per la sua offensiva nel territorio ucraino. Le scosse geopolitiche scaturite dall’invasione si sono propagate rapidamente a livello internazionale. Ma se tra le file dei detrattori di Mosca è la Cina ad essere descritta (a torto) come l’unica “disertrice”, i Paesi del Sud-Est asiatico hanno optato per una loro “terza via”. Da una parte, in sede multilaterale si sono uniti al coro delle condanne; dall’altra, Singapore è il solo rappresentante della regione ad aver imposto sanzioni a Mosca. Paesi come Thailandia, e Vietnam, oltre che l’Indonesia, preferiscono mantenersi prudenti per non compromettere la tenuta delle rispettive economie, mentre la giunta militarista birmana non può permettersi di rinunciare alle armi russe che fluiscono nel Paese. 

La crisi economica post-pandemica ha costretto alcuni Stati Membri dell’ASEAN a fare il conto delle risorse a disposizione prima di adottare una posizione diplomatica insostenibile rispetto alla Russia. Buona parte delle nazioni del Sud-Est asiatico, infatti, considera la guerra in Ucraina una crisi regionale che non li riguarda. Inoltre, il paradigma di valori dell’ASEAN si impernia sul principio di neutralità, mutuato dall’esperienza coloniale alla quale questi territori sono stati sottoposti per decenni. Per questa ragione, il Sud-Est asiatico è restio a chiudere i rapporti commerciali e politici con la Federazione Russa e a condannarla all’isolamento politico-economico.

La Thailandia ha dichiarato che ripristinerà il servizio aereo regolare tra Mosca e Phuket alla fine di ottobre, una mossa per rinvigorire il settore turistico duramente colpito dalla pandemia. Tra gennaio e febbraio, prima dell’invasione, i russi rappresentavano la maggior parte dei turisti in viaggio in Thailandia. Ma il popolare servizio Mosca-Phuket è stato sospeso appena dopo lo scoppio del conflitto. Poiché la politica “zero-Covid” di Pechino sta frenando i turisti cinesi dall’organizzare viaggi nel Sud-Est asiatico, e i voli dalla Cina rappresentavano un’entrata importante per Bangkok, la Thailandia si concentrerà sull’attrarre almeno un milione di turisti russi quest’anno. Inoltre, Mosca e Bangkok mirano ad espandere il commercio bilaterale per raggiungere un volume di scambi di 10 miliardi di dollari nel 2023 (circa quattro volte superiore a quello del 2021), come ha affermato il Ministro del Commercio thailandese Jurin Laksanawisit a margine degli incontri APEC a maggio. 

Il Vietnam punta invece sull’approvvigionamento alimentare. Il 18 agosto scorso si sono tenuti colloqui per l’espansione del commercio di grano, il cui flusso dalla Russia nel 2021 era già sceso sotto le 190.000 tonnellate – dai 2,6 milioni circa del 2018 – a causa della presenza di semi di cardo potenzialmente invasivi. Il 6 settembre è stato poi lanciato un nuovo collegamento tra le rotte marittime e ferroviarie per il trasporto di merci tra Russia e Vietnam, che faciliterà le interazioni logistiche e consentirà il trasferimento diretto di merci. Anche la cooperazione finanziaria è un tema cruciale per le relazioni tra Russia e Paesi ASEAN, che hanno discusso della possibilità di passare ai pagamenti tramite valute nazionali, in particolare con il dong vietnamita e la rupia indonesiana. Sarebbe in ballo anche la possibilità di individuare sistemi di pagamento alternativi a quelli tradizionali, come il circuito russo MIR. 

Mosca è poi la prima fornitrice di armi nel Sud-Est asiatico. Il presidente Vladimir Putin ha sempre riconosciuto il grande potenziale politico e commerciale della regione, e ha optato per il ricorso alla diplomazia della difesa per rafforzare la cooperazione con gli attori della regione. Una delle principali destinazioni di equipaggiamenti militari e armamenti russi è il Myanmar. In un incontro a margine dell’Eastern Economic Forum che si è tenuto a Vladivostok a inizio settembre, il capo della giunta militare golpista birmana Min Aung Hlaing si è rivolto al presidente Putin con queste parole: “Dovremmo chiamarti non solo leader della Russia, ma anche leader del mondo, perché controlli e organizzi la stabilità del mondo intero”. Come ha suggerito Channel News Asia, il commento di Min Aung Hlaing arriva in un momento in cui entrambi i governi si trovano isolati a livello diplomatico: Mosca per il suo intervento militare in Ucraina, Naypyidaw per un colpo di stato militare lo scorso anno. Nei rapporti ASEAN-Russia emerge con chiarezza la complessità delle relazioni internazionali nell’epoca dell’economia globalizzata. La maggior parte del commercio dell’ASEAN con la Russia vede coinvolti Indonesia, Thailandia, Vietnam. È in aumento anche la crescita dei prodotti ad alto valore aggiunto venduti dall’ASEAN, anche per via del vuoto lasciato dai fornitori europei che hanno lasciato il mercato russo. Queste performance economiche sembrano in contraddizione con la condanna quasi unanime della comunità internazionale nei confronti dell’offensiva in Ucraina. A livello multilaterale, i Paesi ASEAN si sono uniti alle invocazioni di pace dell’ONU. Ma quando l’Assemblea Generale ha votato per la sospensione della Federazione Russa dai membri del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, ad aprile, molti Paesi del Sud-Est asiatico si sono astenuti. Tra questi anche Singapore, oltre a Thailandia, Malaysia, Indonesia e Cambogia, mentre il Vietnam e il Laos hanno votato contro. Questo progressivo ammorbidimento nei confronti di Mosca trova ragione in valutazioni di pragmatismo economico e politico. Le diverse posture adottate in ambito multilaterale da una parte confermano comunque l’adesione degli attori regionali alle regole del diritto internazionale. Dall’altra manifestano il rifiuto di isolare la Russia, con un messaggio che implica che il sistema multilaterale si orienti – nonostante le crisi o proprio in virtù delle stesse –  verso una maggiore inclusività.

Monarchie asiatiche: il ruolo delle famiglie reali nei Paesi ASEAN

Alcuni Paesi ASEAN ospitano ancora alcune delle famiglie reali più ricche al mondo. Come vivono i monarchi del Sud-Est asiatico oggi e quale ruolo rivestono?

Elisabetta II è morta, Rama IX è morto…e anche io non mi sento molto bene. Nel mondo dei Paesi ASEAN sono diverse le monarchie che continuano ad avere, in maggiore o minor parte, una certa influenza sulle dinamiche politiche, sociali ed economiche del proprio paese. Con la sola eccezione del Brunei, dove permane un regime di monarchia pressoché assoluta, gli altri stati della regione hanno iniziato da tempo un lungo processo di ridefinizione del proprio ruolo in un mondo sempre più moderno.

Alle famiglie reali sono ancora riservate molte prerogative di potere e rappresentanza, oltre a rimanere delle figure influenti in virtù delle enormi ricchezze possedute. Le dinastie asiatiche fanno parte dell’identità nazionale e ne riflettono alcuni tratti distintivi, come la religione e le consuetudini dell’etnia maggioritaria. L’opinione pubblica sui sovrani ASEAN è altrettanto varia, tra monarchi messi in cattiva luce da corruzione ed eccessi, e figure più apprezzate dalla popolazione per i loro passi avanti nel campo dei diritti civili e sociali.

Thailandia

Il colpo di stato del 2014 non è stato l’unico evento che ha scombussolato l’ordine pubblico thailandese negli ultimi anni. La morte di re Rama IX (Bhumibol Adulyadej), avvenuta nel 2016 dopo 70 anni di reggenza, è stata oggetto di uno dei più spettacolari lutti nazionali. Oltre 250 mila persone si sono riversate nella capitale per celebrare i funerali del monarca, che è stato cremato in un edificio appositamente costruito per l’occasione. Ne è seguito un intero anno di lutto nazionale, che per i primi 30 giorni comprendeva anche il divieto a organizzare feste o accendere la musica nei locali pubblici.

La dinastia Chakri è salita al trono nel 1782 e ha vissuto anni di prosperità e allargamento della propria influenza nella regione. Nel XIX secolo re Rama IV riuscì anche a negoziare degli accordi con il Regno Unito che permisero al paese di mantenere una certa indipendenza (a differenza del vicinato) e avviarsi verso la costruzione di uno stato moderno. L’ascesa di re Rama IX al trono nel 1946 gioca un ruolo fondamentale nella storia thailandese in virtù dei suoi tentativi di tenere insieme il paese davanti a numerosi colpi di stato. Rama IX è stato il “re del popolo” per le sue attività filantropiche e di sostegno alla democratizzazione del Paese, mentre il successore Maha Vajiralongkorn (Rama X) ha dovuto subire delle critiche in questi anni. Come stimò Forbes nel 2011, la casa reale thailandese è la più ricca al mondo, con un patrimonio stimato di almeno 30 miliardi di dollari. La Thailandia possiede una delle più severe leggi sulla Lesa maestà, che negli ultimi anni è stata utilizzata spesso per contrastare le proteste contro il governo che hanno talvolta sfociato in posizioni anti monarchiche.

Cambogia

Anche la Cambogia ha introdotto una legge sulla lesa maestà nel 2018, A partire dal 1993 il re della Cambogia viene eletto dal Consiglio reale del trono, un gruppo di nove autorità cambogiane che comprende il Presidente del Consiglio, il Presidente dell’Assemblea nazionale e il Presidente del Senato. Il criterio per accedere alla selezione? Avere almeno trent’anni e discendere dalla famiglia del re Ang Duong (1796-1860), che oggi si divide nelle casate di Norodom e Sisowath.

Re Norodom Sihamoni continua ad avere un certo potere decisionale nella scelta di alcune cariche governative, tra cui il primo ministro. Sihamoni gode di un certo rispetto anche all’estero, contrariamente al resto della famiglia reale, che nel 2006 i funzionari Usa nel paese avevano definito “una tragedia, una commedia e un melodramma messi insieme che sarebbero in grado di ispirare almeno una mezza dozzina di opere shakespeariane” (commento reso noto al pubblico solo con la diffusione dei cablaggi da parte di Wikileaks).

Malesia

La Cambogia non è l’unico paese ad aver adottato una monarchia costituzionale diversa dallo standard ereditario di una sola dinastia. Anche la Malesia adotta un sistema di governance che prevede l’elezione di un monarca ogni cinque anni, secondo una turnazione che interessa i sultani di nove dei tredici stati in cui è suddiviso il paese. Lo Yang di-Pertuan Agong (“Colui che è fatto Signore”) svolge soprattutto un ruolo di rappresentanza della comunità malese e musulmana. A partire dagli anni Novanta, infatti, i sultani hanno perso gradualmente i propri poteri, fino all’eliminazione della stessa immunità politica.

Lo Yang di-Pertuan Agong può scegliere il primo ministro, ma non può destituirlo. Svolge un ruolo di rappresentanza nelle missioni diplomatiche e viene considerato il capo simbolico delle forze armate. I sultani, in virtù del loro ruolo di “guardiani dell’Islam”, si sono esposti spesso sui temi della corruzione della classe dirigente e dell’estremismo islamico (i cui valori spesso si intrecciano con il suprematismo malese). Negli ultimi anni, per esempio, si sono opposti all’implementazione dello Hudud, un sottogruppo di normative della Sharia (il corpus di precetti derivati dal Corano e che alcuni paesi islamici integrano nel proprio sistema di leggi).

Indonesia

Ancora più marginale è il ruolo delle famiglie reali indonesiane, che non detengono ufficialmente il potere ma mantengono uno status di rappresentanza. La connotazione identitaria, in questo caso, è ancora forte: in alcune aree del paese, come a Giava, Bali e nel Borneo. Ne è un esempio la sopravvivenza della cultura giavanese Halus (“raffinata”) che ruota tutta intorno ai cerimoniali del sultanato di Yogyakarta. Il re Hamengkubuwono X è l’unico sultano riconosciuto dal governo ed è salito agli onori della cronaca per aver rimosso l’obbligatorietà della discendenza maschile al trono. Un decreto del 2015, infatti, ha reso neutrale il titolo di sultano, aprendo così la carriera reale alle sue cinque figlie. Ha anche messo fine alla tradizionale poligamia dei sultani di Giava, sempre in un’ottica di modernizzazione del sultanato e per conferire maggiori diritti alle donne.

Brunei

Ben diversa è l’influenza del sultano del Brunei, unico monarca che ancora oggi detiene il potere assoluto nel Sud-Est asiatico. E non è l’unico record: il Guinness del primati classifica l’Istana Nurul Iman (“Palazzo della luce della fede”) come la residenza reale più grande al mondo. L’edificio occupa oltre 200 mila metri quadri con le sue 1788 stanze, 257 bagni, una sala dei banchetti in grado di ospitare fino a 5mila persone e una stalla climatizzata che ospita 200 pony da polo. Hassanal Bolkiah, oltre a essere uno dei sovrani più ricchi al mondo, è anche diventato il monarca più longevo dopo la morte di Elisabetta II e regna ininterrottamente dal 1967.

Il Consiglio legislativo del Brunei è stato istituito con la Costituzione del 1959 ma, di fatto, i suoi membri hanno solo poteri consultivi. In occasione delle rivolte del 1962, infatti, il re ottenne i pieni poteri dichiarando lo stato di emergenza, tuttora in vigore. Diversamente dalla Malesia, le leggi della Sharia fanno parte del corpus normativo del Brunei insieme ad alcune leggi ereditate dal periodo coloniale.

ASEAN patria globale della resilienza

Il Sud-Est asiatico continua a dare segnali positivi sulle catene di approvvigionamento ma anche sulla solidità del suo mercato azionario

Editoriale a cura di Alessio Piazza

Avviso ai naviganti: le catene di approvvigionamento non sono ancora distrutte, quantomeno non in Asia e in particolare nel Sud-Est asiatico. In un mondo in cui le tensioni geopolitiche e militari si moltiplicano, gli scambi commerciali tra le principali nazioni asiatiche sono in piena espansione e le imprese continuano a perseguire crescita. Non è certo un caso che, mentre altrove spirano venti di protezionismo, i Paesi dell’ASEAN abbiano appena ratificato la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) e siano al centro di molteplici iniziative regionali. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel prossimo futuro i Paesi dell’ASEAN cresceranno più velocemente della Cina. Le classi medie di questi Paesi sono al centro di una fortissima crescita, il che li rende potenziali mercati, non solo centri di produzione. La popolazione della regione è superiore a quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, è più giovane e offre manodopera poco costosa, abbinando competenze in continua evoluzione. Lo dimostra lo spostamento di segmenti produttivi sempre più sofisticati come quello dell’Apple Watch. Il settore tecnologico è pronto a un vero e proprio boom. Recenti report individuano i comparti di elettronica, componentistica aerospaziale e semiconduttori come quelli potenzialmente più promettenti. Ma i Paesi ASEAN forniscono segnali di resilienza anche sul mercato azionario. Soprattutto grazie a un netto aumento dei consumi guidato dal turismo e dalle industrie connesse, i titoli del Sud-Est asiatico si stanno rivelando più solidi rispetto a quelli dell’Asia settentrionale. La regione, tuttavia, non è immune dalla pressione inflazionistica globale e dagli aggressivi rialzi dei tassi della Federal Reserve statunitense, che hanno provocato una fuga di capitali. Secondo gli analisti, però, la regione resisterà grazie agli ampi mercati interni e all’ulteriore diversificazione della catena di approvvigionamento dalla Cina. A fine settembre, l’indice MSCI ASEAN – un indicatore dei titoli azionari più seguiti della regione – era in crescita dell’1,4% rispetto al trimestre precedente in termini di valuta locale. La pressione inflazionistica nel Sud-Est asiatico è stata meno acuta rispetto a quella di tanti altri mercati. Ulteriore segnale di una regione destinata a rivestire un ruolo sempre più centrale dal punto di vista commerciale.

La terza via di difesa asiatica

Si moltiplicano sigle e acronimi per le politiche nell’Indo-Pacifico. Ma mentre Cina e Stati Uniti cercano di consolidare la propria influenza in Asia, i Paesi del continente provano a ripararsi dalle conseguenze di questo antagonismo istituendo accordi bilaterali che aiutino a mantenere un certo grado di interoperabilità senza essere costretti a prendere apertamente le parti di una o dell’altra potenza

Articolo di Lucrezia Goldin

O con me, o contro di me. A meno di trovare una terza via per consolidare la difesa. Nella sempre più polarizzata competizione tra Cina e Stati Uniti, crescono i rapporti bilaterali in materia di sicurezza tra diversi paesi asiatici, che con un approccio fatto di singoli accordi di cooperazione militare provano a svincolarsi dal magnetismo di Washington e Pechino, sfruttando l’interoperabilità regionale come chiave per l’indipendenza dalle due potenze. Un approccio che operando senza fragore e senza evidenti finalità anti-Cina o anti-Usa (come invece vengono percepite alcune iniziative multilaterali come Quad e Aukus da parte cinese e Global Security Initiative da parte statunitense) si presenta nella forma di un’architettura alternativa che consente ai paesi asiatici di munirsi di strumenti di deterrenza senza il rischio di infastidire le due potenze.

Dal Giappone alla Corea del Sud, passando per Singapore e Filippine, gli scambi bilaterali in materia di tecnologie di sicurezza ed equipaggiamenti per la difesa mostrano un’Asia che preferirebbe non rimanere incastrata nel fuoco incrociato a colpi di acronimi altisonanti in corso tra Cina e Stati Uniti. Un muoversi nelle retrovie fatto di accordi apparentemente di secondo piano ma strategici, soprattutto se pensati come strumento di indipendenza a lungo termine dall’ottica dei grandi blocchi antagonisti.  

Capofila indiscusso di questa tendenza è il Giappone. Da diversi anni Tokyo sta provando a risollevare la propria industria della difesa e per farlo sta intensificando i rapporti con diversi paesi del Sud-Est asiatico. Già nel 2016 Giappone e Filippine firmavano un accordo per la difesa, con il quale Tokyo si impegnava a fornire equipaggiamento e tecnologia in ambito di sicurezza a Manila. Sotto la presidenza di Rodrigo Duterte poi, un aggiornamento dello stesso accordo nell’estate 2020 ha portato alla vendita di sistemi di controllo radar della Mitsubishi Electric al governo filippino, segnando la prima vendita di tecnologia di difesa di fattura totalmente giapponese verso un paese del Sud-Est asiatico. Con la Malesia esiste invece il Japan-Malaysia Defense Pact  del 2018, mentre sui rapporti con Indonesia e Vietnam l’attenzione dell’ex premier giapponese Yoshihide Suga ha portato alla firma di due accordi per il trasferimento di equipaggiamento e tecnologia per la difesa (rispettivamente a marzo e settembre 2021). Anche provando a non attirare troppo l’attenzione politica internazionale con questi accordi, l’obiettivo dichiarato di Tokyo è quello di promuovere la propria visione di un Indo-Pacifico “libero e aperto”. Visione confermata anche dal ministro della Difesa Kishi Nobuo lo scorso settembre durante una visita ad Hanoi, nella quale ha parlato della cooperazione con il Vietnam come di un intervento finalizzato a  “contribuire alla pace e alla stabilità della regione e dell’intera comunità internazionale”.

Su questo fronte anche il nuovo primo ministro Fumio Kishida non sta perdendo tempo. Lo scorso maggio il premier giapponese e il suo omologo thailandese Prayut Chan-o-cha hanno firmato un accordo per il trasferimento di equipaggiamento militare verso la Thailandia, seguito poco dall’annuncio del governo giapponese di voler riformare la normativa sull’export di materiali militari così da consentire l’esportazione di missili e caccia verso 12 paesi tra cui India, Vietnam, Thailandia, Malesia, Filippine e Australia a partire dal 2023.  Anche con Singapore, come annunciato durante un incontro a margine del summit asiatico sulla sicurezza, lo Shangri-La Dialogue, saranno presto avviati i negoziati per raggiungere un accordo sul trasferimento di equipaggiamenti e tecnologia per la difesa che includono anche le aree di sicurezza informatica e armi esplosive di natura chimica, biologica, radiologica e nucleare (CBRNE). Un Memorandum sugli scambi per la Difesa potenziato, firmato dai rispettivi ministri della difesa Kishi Nobuo e Ng Eng Hene, che va a integrare quello stipulato tra i due paesi nel 2009. L’obiettivo: muoversi verso “una cooperazione in materia di sicurezza più concreta”. Meno chiacchiere, più accordi. Senza Cina e Usa di mezzo.

Partecipazione attiva anche da parte dell’India, che con l’India Act East Policy ha creato piattaforme di dialogo e di esercitazioni marittime congiunte con Singapore e Thailandia, le SIMBEX e SITMEX, con la finalità di mantenere la sicurezza regionale. Alle Filippine Nuova Delhi ha fornito i suoi sistemi missilistici Brahmos e ha predisposto lo spostamento di diverse navi del comando orientale dell’India per favorire le esercitazioni bilaterali con la marina filippina. Anche con il Vietnam il dialogo è stato produttivo e privo dell’ingerenza statunitense o cinese. Nel 2016 tra Hanoi e Nuove Delhi veniva istituita una linea di credito di 500 milioni di dollari per l’acquisto di nuove piattaforme di difesa e oggi la maggior parte dei piloti vietnamiti viene formata presso le basi di addestramento indiane in cambio dell’accesso alle basi navali e aeree di Cham Ranh Bay. Con la Thailandia infine, l’India condivide obiettivi in ambito marittimo legati a tematiche quali pesca illegale, traffico di droga, contrabbando e pirateria, confermando un’interoperabilità che rimane forte tra i due paesi sia per i loro trascorsi storico-culturali che per i loro interessi comuni legati al confine marittimo nel Mar delle Andamane, punto di accesso fondamentale per il commercio nello Stretto di Malacca.

Anche la Corea del Sud ha dato segnali di voler aderire a questa strategia del “dietro le quinte”. L’amministrazione di Moon Jae-in aveva cominciato a intensificare i rapporti con India e paesi ASEAN tramite la New Southern Policy del 2017, senza riuscire però a concretizzare molti accordi e cooperazioni indipendenti dalle piattaforme di sicurezza già esistenti. Il caso della mancata partecipazione indonesiana nella realizzazione dei nuovi caccia Kf-X/IF-X ne è un esempio. Dopo un accordo di difesa tra Corea del Sud e Indonesia stipulato nel 2013, i due paesi hanno “riscontrato diverse complicazioni” nella realizzazione congiunta di nuovi equipaggiamenti, ma ad oggi mantengono buone relazioni e alla presentazione dei nuovi caccia coreani KF-X del 2021 era stato invitato anche il ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto. Sempre nell’ambito degli incontri a margine del Shangri-La Dialogue invece, Singapore e Corea del Sud hanno aggiornato il loro Memorandum of Understanding in materia di cooperazione sulla difesa, aggiungendo tra le priorità di collaborazione la sicurezza informatica e la cooperazione marittima.

L’Asia si muove anche senza Cina e Stati Uniti, consapevole che una eccessiva dipendenza da una delle due parti in materia di sicurezza può rivelarsi controproducente. Per le dispute in essere con Pechino da una parte, per la recente imprevedibilità mostrata da Washington da Donald Trump in poi all’altra. Piccoli accordi in tempi di grandi patti multilaterali segnano quindi una terza via per provare a mantenere una stabilità regionale senza essere semplici pedine nel gioco di altri. Ma gli accordi cominciano a essere tanti. E se considerati come fili sottilissimi di una più ampia e distesa tela strategica, la formula dell’accordo bilaterale come mezzo inoffensivo di manovra potrebbe essere rimessa in discussione. 

Una moneta comune per l’ASEAN?

Con le pressioni inflazionistiche globali torna d’attualità l’ipotesi di una valuta unica per i Paesi della regione del Sud-Est asiatico. Ma restano degli ostacoli

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

Una moneta comune per l’area ASEAN. Tra i primi a lanciare la proposta fu l’ex Premier della Malesia, Mahathir Mohamad, dopo la crisi finanziaria asiatica. Proposta reiterata nel 2019, quando parlò di una valuta commerciale comune agganciata all’oro, “non da utilizzare a livello locale ma per regolare gli scambi”. L’ipotesi è tornata di attualità in queste settimane caratterizzate da turbolenze economiche globali e pressioni inflazionistiche. A rilanciarla è stato in particolare Vijay Eswaran, uomo d’affari malese e Presidente Esecutivo della multinazionale QI Group, con sede a Hong Kong ma operativa in circa 30 Paesi. “Perché la spinta per una moneta comune nell’ASEAN? Basta guardare all’Europa, dove l’euro è il miglior esempio di moneta comune. Nei 20 anni trascorsi dalla sua introduzione, l’euro ha contribuito alla stabilità, alla competitività e alla prosperità delle economie europee. La moneta unica ha contribuito a mantenere i prezzi stabili e ha protetto le economie dell’area dell’euro dalla volatilità dei tassi di cambio”, sostiene Eswaran in un commento pubblicato nei giorni scorsi sul Jakarta Post. Molte economie di mercato emergenti asiatiche detengono ingenti attività di riserva denominate in dollari USA come strumento di autoassicurazione contro la potenziale instabilità finanziaria. Secondo l’uomo d’affari, “con questa dipendenza dal dollaro, i Paesi asiatici sono altamente esposti agli shock derivanti da cambiamenti nella politica economica e nelle condizioni relative agli Stati Uniti”. Una moneta comune, prosegue Eswaran, “potrebbe aiutare a eliminare l’incertezza dei tassi di cambio, a difendersi dagli attacchi speculativi e ad aumentare il potere contrattuale dell’ASEAN”, coi tassi di interesse a lungo termine che “potrebbero diminuire e diventare meno volatili” e i flussi commerciali intraregionali facilitati. I benefici potrebbero esserci anche per i singoli individui, con maggiore accessibilità per i servizi come l’assistenza sanitaria, l’istruzione e il turismo. “Manodopera e talenti potrebbero essere scambiati più facilmente, portando a maggiori opportunità di lavoro e a una maggiore integrazione economica tra i Paesi ASEAN”, conclude Eswaran. Il maggiore ostacolo a sviluppi concreti in materia resta però la grande diversità di sviluppo economico tra i Paesi membri. Basti pensare che Singapore ha un reddito pro capite 60 volte superiore a quello del Myanmar.

L’arte del telaio: il futuro della moda sostenibile

L’industria della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di carbonio e del 20% delle acque reflue. Questo dato non deve sorprendere, visto che i tessuti sintetici sono il pilastro dell’industria del fast fashion. Ma Bangkok sta lavorando duramente per renderla sostenibile.

Article by Dr. Vilawan Mangklatanakul

Quante volte si indossa un capo di abbigliamento prima di gettarlo via?

Uno studio condotto su 2.000 donne dall’associazione benefica britannica Barnado’s rivela che un capo di abbigliamento viene indossato in media sette volte prima di essere buttato. La moda veloce ha reso possibile cambiare costantemente il proprio look a basso costo. La cultura di Instagram alimenta la spinta a comprare spesso nuovi vestiti. Gli abiti che “non danno più gioia” possono essere facilmente scartati. Ma questa mentalità “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” sta rapidamente inondando le discariche di tutto il mondo di capi non amati.

L’industria della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di carbonio e del 20% delle acque reflue. Questo non deve sorprendere, visto che i tessuti sintetici sono il pilastro dell’industria del fast fashion. Tessuti come il poliestere e filati da fili di plastica si decompongono in microplastiche che finiscono nel suolo e nell’acqua, entrando infine nella catena alimentare. Infatti, microplastiche sono diventate uno dei principali inquinanti marini. Anche se i Paesi hanno una buona gestione dei detriti marini e delle acque reflue, le microplastiche provenienti dalle fibre sintetiche presenti nella biancheria potrebbero ancora minacciare il benessere della vita sott’acqua.

Al contrario, i filati naturali utilizzati per gli indumenti in seta e cotone thailandesi sono biodegradabili e quindi non biodegradabili e quindi non si decompongono in microplastiche.

I consumatori thailandesi sono altrettanto assuefatti alla fast fashion. Ma c’è speranza all’orizzonte perché un numero crescente di thailandesi amanti della moda sta scegliendo stilisti nostrani che che realizzano abiti con tessuti tradizionali thailandesi. 

Per i clienti attenti all’ambiente e alla società, i tessuti artigianali thailandesi sono una parte della risposta. I tessuti tradizionali thailandesi sono realizzati in seta, cotone o canapa. Inoltre, sono prodotti in modo etico e contribuiscono allo sviluppo delle comunità. In Thailandia, i telai a mano sono fortemente radicati nei villaggi locali e sono organizzati intorno a iniziative guidate dalle donne. Infatti, le donne hanno la possibilità di essere le responsabili delle decisioni e di provvedere al sostentamento delle loro famiglie. Il reddito generato da queste imprese è direttamente destinato a migliorare l’istruzione e l’assistenza sanitaria dei membri della comunità.

 

Ban Hat Siew, nella provincia di Sukhothai, Thailandia settentrionale: una donna Tai Phuan modella meticolosamente un “Pha Sinh Teen Chok”, un tipo di sarong per uso cerimoniale. 

“Pha Sinh Teen Chok”, una sorta di sarong per uso cerimoniale. 

Crediti: sito web takemetour

Ban Phon nella provincia di Kalasin, Thailandia nord-orientale: una donna Phu Tai tesse la seta Phrae Wa a Kalasin. 

 

Anche la produzione di tessuti artigianali thailandesi è strettamente legata alla natura.  

Per la seta, gli abitanti dei villaggi coltivano alberi di gelso e raccolgono le foglie per nutrire i bachi da seta. Gli scarti della coltivazione dei bachi da seta diventano fertilizzanti di buona qualità. A differenza dei coloranti chimici, i colori derivati da fonti naturali come l’indaco per il blu, i semi di ebano per il grigio e il nero, il lac per il rosso, sono atossici, quindi possono essere scartati senza causare un inquinamento nocivo. Le vecchie tecniche tradizionali, quindi, continuano a dimostrarsi migliori sia per il pianeta che per le persone. 

Tuttavia, l’industria tessile tradizionale tailandese potrebbe non aver visto la luce, se non fosse per una donna e la sua potente visione. 

Mentre accompagnava Sua Maestà il defunto Re Bhumibol il Grande nei suoi numerosi viaggi verso villaggi lontani della Thailandia, Sua Maestà la Regina Sirikit, la Regina Madre, riceveva molti doni di tessuti tradizionali tessuti a mano dalle donne del luogo.

I disegni intricati e meticolosi fecero un’impressione duratura sulla Regina, il cui apprezzamento per l’arte del telaio apprezzamento per l’arte del telaio divenne ben noto e, ovunque andasse, gli abitanti dei villaggi venivano a presentare le loro creazioni. Si informava su ogni pezzo, prestando molta attenzione alle loro storie. 

Sua Maestà si preoccupò di sentire che questa forma d’arte tradizionale thailandese rischiava di 

di scomparire. I contadini erano più interessati a mandare i loro figli in città per avere migliori opportunità. Il telaio a mano era un’abilità e una conoscenza trasmessa da una generazione all’altra. 

E se queste donne si organizzassero intorno a un’industria artigianale per tessere tra le stagioni di coltivazione tra le stagioni di coltivazione come modo per integrare il reddito delle loro famiglie? Potrebbe essere un modo di salvare questo patrimonio culturale dall’estinzione, sostenendo al tempo stesso l’occupazione nelle comunità rurali. 

Sua Maestà la Regina Sirikit ha lanciato la Fondazione SUPPORTO per istituzionalizzare l’iniziativa reale di iniziativa reale di sviluppare le industrie artigianali in tutto il Paese. Fornendo uno sbocco al mercato per prodotti per raggiungere il mercato, la Fondazione SUPPORT ha svolto un ruolo cruciale nel garantire che gli abitanti dei villaggi avessero effettivamente mezzi di reddito alternativi all’agricoltura. Di conseguenza, alcuni di loro hanno iniziato a sviluppare seriamente l’attività dei tessuti fatti a mano.

 

La Fondazione SUPPORT di Sua Maestà la Regina Sirikit di Thailandia 

Credit: Pagina Facebook della Fondazione SUPPORT

 

Nel frattempo, Sua Maestà è diventata la trendsetter della moda tradizionale tailandese. I suoi eleganti abiti realizzati con tessuti tradizionali provenienti da diverse regioni del Paese hanno ispirato le signore di città a inviare tessuti di seta e cotone thailandesi alle loro sartorie. Ha fondato un movimento alla moda che ha suscitato un senso di orgoglio per il patrimonio culturale della nazione. A sua volta, la domanda di tessuti tradizionali thailandesi trasformò i piccoli telai domestici in imprese commercialmente redditizie. In seguito, politiche governative, come One Tambon One Product (OTOP), avrebbero formalizzato il sostegno statale per le microimprese che si occupano di arti e mestieri tradizionali, con i telai a mano come prodotto principale. 

Questa è la storia di Baan Hua Fai, un villaggio della provincia di Khon Kaen, nella regione di Isan, o nord-est della Thailandia. Il celebre motivo locale del mudmee, o ikat, della seta thailandese è stato tramandato di madre in figlia, realizzato per occasioni speciali come i matrimoni o dati in regalo. Quando Sua Maestà la Regina Madre visitò la regione nel 1983, rimase molto colpita dalla maestria unica della seta di Baan Hua Fai e li invitò a inviare dei campioni a Palazzo Chitralada. Poco dopo, agli abitanti del villaggio è stato concesso il patrocinio reale nell’ambito della Fondazione SUPPORTO.

 

Esempi di mudmee locali del villaggio di Baan Hua Fai. 

Credito: Sito web del turismo in Isan http://i-san.tourismthailand.org/6906/

 

Nel corso degli anni, Baan Hua Fai è diventata una cooperativa di villaggio con quasi 200 membri, la maggior parte dei quali donne. Oggi è diventata un’impresa modello OTOP che accoglie i visitatori e funge da luogo di apprendimento e collaborazione per le tecniche di progettazione e produzione. Le generazioni più giovani stanno adottando nuovi modelli di business in base al cambiamento dei gusti e dell’ambiente di marketing. Vendono prodotti online tramite Facebook e Instagram e collaborano con i migliori designer thailandesi.

La prossima fase della traiettoria di crescita della moda tradizionale tailandese è quella di una vera e propria “globalizzazione”. Seguendo le orme di sua nonna, Sua Altezza Reale la Principessa Sirivannavari Nariratana ha guidato la creazione del Thai Textiles Trend Book. In qualità di redattore capo, Sirivannavari ha supervisionato la compilazione di “toni thailandesi”, nonché di modelli e materiali che avrebbero reso i tessuti tradizionali thailandesi commerciabili al di fuori della Thailandia. Disponibile gratuitamente in versione cartacea ed elettronica sul sito web del Ministero della Cultura, il Trend Book offre un pronto per tessitori, designer, studenti e chiunque stia sviluppando nuove idee per i tessuti thailandesi.

 

Evento di lancio del libro: “Thai Textiles Trend Book SS 2022”. 

Crediti: sito web di Hommes Thailandia https://hommesthailand.com/2020/12/thai-textiles-trend-book-ss-2022/

 

Oltre ad ispirarsi all’eredità di Sua Maestà la Regina Madre, la Principessa Sirivannavari intende intrecciare la sostenibilità con l’artigianato tradizionale tailandese e la saggezza locale. L’uso di pigmenti naturali, fibre e tecniche di produzione a basso contenuto di carbonio corrisponde al modello di economia verde bio-circolare di consumo e produzione sostenibile promosso dal governo thailandese. Le imprese thailandesi di telai a mano rappresentano anche storie di successo nel raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite. Questi includono, tra gli altri, l’SDG 1 (No alla povertà), l’SDG 5 (Uguaglianza di genere), l’SDG 8 (Lavoro dignitoso e crescita economica) e l’SDG 12 (Consumo e produzione responsabili).

La storia dell’industria della moda sostenibile tailandese ci dà una lezione importante: possiamo guardare al nostro passato per trovare risposte per il futuro. In Thailandia, la famiglia reale è stata determinante nel preservare le conoscenze tradizionali e la saggezza locale, che per secoli hanno mostrato la via per la nostra gente di vivere in equilibrio con l’ambiente naturale.

Ecco perché il concetto di sostenibilità trova un pubblico pronto in Thailandia. È quasi innato nel vero stile di vita thailandese.

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La dott.ssa Vilawan Mangklatanakul, Vice Segretario Permanente per gli Affari Esteri della Thailandia, diplomatica di carriera dal 1995, ha maturato la sua esperienza nella politica estera e nel diritto internazionale della Thailandia, avendo ricoperto il ruolo di Direttore dell’Ufficio di Politica e Pianificazione, di Direttore Generale del Dipartimento degli Affari Economici Internazionali e di Direttore Generale del Dipartimento dei Trattati e degli Affari Legali.

Nel novembre 2021, la 76a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha eletto la dott.ssa Vilawan come uno dei 34 membri della Commissione di diritto internazionale (ILC) per il periodo 2023-2027. È la prima e unica donna thailandese candidata dal Gruppo Asia-Pacifico e la prima donna giurista internazionale dell’ASEAN a essere eletta a tale carica. Durante la sua campagna elettorale per l’ILC, la dott.ssa Vilawan ha sostenuto l’emancipazione femminile e la necessità di preparare meglio le comunità alle sfide future.

Spazio per Italia e UE nella rivoluzione green dell’ASEAN

I Paesi del Sud-Est asiatico devono e vogliono accelerare sulla transizione green. Una grande opportunità da cogliere anche dalle imprese italiane

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro

I Paesi del Sud-Est asiatico devono accelerare la transizione energetica e restare fedeli agli obiettivi per il contenimento del cambiamento climatico. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), è necessario un investimento medio annuo di 210 miliardi di dollari da investire nei settori delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica e delle relative infrastrutture entro il 2050 per limitare un aumento della temperatura globale a 1,5 gradi C. Un investimento di questo tipo sarebbe più di due volte e mezzo l’importo attualmente pianificato dai governi dei Paesi ASEAN. La regione del Sud-Est asiatico ospita il 25% della capacità di generazione geotermica mondiale, ma la regione possiede anche importanti riserve di carbone. L’Indonesia, ad esempio, ha emanato un nuovo regolamento per l’energia pulita. Si tratta di uno dei maggiori esportatori mondiali di carbone, che alimenta attualmente il 60% circa del fabbisogno elettrico del Paese. La recente misura è pensata per diversificare il mix energetico e aumentare la quota delle energie rinnovabili al 23% entro il 2025. Finora si trova al 12% circa. Il regolamento stabilisce inoltre che non verranno costruite nuove centrali a carbone, anche se quelle già attive potranno continuare a rimanere in funzione. Le emissioni di queste centrali, tuttavia, dovranno essere contenute. Il governo ha anche stabilito un nuovo sistema di prezzi per le fonti energetiche pulite, per incoraggiare gli investimenti. Per aumentare gli investimenti, il governo fornirà anche incentivi fiscali, inclusi finanziamenti. Secondo il rapporto, se i Paesi del Sud-Est asiatico desiderano realmente contribuire alla lotta al cambiamento climatico, è necessaria un’azione collettiva e concertata: di recente i passi in tal senso appaiono concreti. Secondo IRENA la regione punta a ricavare il 23% della sua energia primaria da fonti rinnovabili entro il 2025. E gli investimenti sono in aumento, con ampi spazi di cooperazione anche per i governi e le imprese internazionali, a partire da Europa e Italia.