L’economia indonesiana cresce a ritmi elevati, seguendo un modello economico che unisce libero mercato e pianificazione. Durante il governo di Jokowi le società statali hanno acquisito ancora più centralità. Come intenderà usare questo strumento il suo successore Prabowo?
Nei prossimi vent’anni, l’Indonesia potrebbe diventare la quarta economia mondiale. Al momento si trova al settimo posto, se misuriamo il suo PIL a parità di potere d’acquisto. L’arcipelago dispone di risorse naturali in abbondanza e di forza lavoro giovane e numerosa. Due fattori chiave per la crescita, ma che da soli non bastano. Serve anche aprire la porta agli investimenti stranieri e rimuovere gli ostacoli all’attività di impresa. L’amministrazione Jokowi ha provato a farlo in un colpo solo, e deciso. Nel 2020 è approvata la Omnibus Law, un testo legislativo monstre di circa mille pagine che ha toccato moltissimi settori. Anche la politica commerciale segue il solco del liberismo economico. Giacarta ha intensificato i suoi sforzi diplomatici per concludere un ambizioso accordo di libero scambio con l’Unione Europea e alza la voce ogni volta che delle misure straniere minacciano i suoi export, come quelle di Bruxelles sull’olio di palma.
Eppure, nonostante la decisa spinta liberalizzatrice, le imprese statali continuano ad avere un ruolo centrale nell’economia indonesiana, un ruolo che si è ulteriormente rafforzato negli ultimi dieci anni. Il Jokowismo, come viene chiamata la dottrina economica del governo uscente, è una fusione di libero mercato e robusto intervento statale. In Europa o negli Stati Uniti, dove il mercato è per principio più efficiente dello Stato, tale mix apparirebbe contraddittorio e persino economicamente irrazionale. Non agli indonesiani e nemmeno agli altri Paesi del Sud Est asiatico. Tale modello economico, premiato negli ultimi decenni da una stabile e vigorosa crescita del PIL, precede Widodo e, come accennato, si manifesta anche nel resto della regione. In forme diverse, come ha descritto Gianmatteo Sabatino, ricercatore della Zhongnan University of Economics and Law di Wuhan, nell’eccellente articolo The emerging trends of the modernization of state-controlled economy in the ASEAN space. The case of Indonesian State-Owned Enterprises (Rivista di Diritti comparati, numero 1/2023).
Sabatino ricostruisce come il modello indonesiano di impresa statale si sia evoluto partendo dal diritto commerciale dei Paesi Bassi, trapiantato in Indonesia nel periodo coloniale, passando poi dai regimi di opposto segno di Sukarno e Suharto. Il processo di indipendenza, ufficialmente sancito dalla Costituzione del 1945, prevedeva anche la nazionalizzazione delle proprietà del Regno e dei cittadini neerlandesi. L’articolo 33 della Costituzione indonesiana, tuttora in vigore, sancisce che “i settori di produzione (…) importanti per il Paese e (che) influenzano la vita del Popolo devono essere sotto il potere dello Stato”, come anche l’acqua e le risorse naturali, che devono essere “sfruttate per il massimo beneficio del Popolo”. Sempre l’articolo 33 fissa la “democrazia economica” come stella polare dell’economia indonesiana. Per declinare tali principi, Sukarno guardava al modello di pianificazione economica socialista, in linea anche con la sua politica estera di graduale avvicinamento all’Unione Sovietica. Tale corso è bruscamente interrotto dal golpe di Suharto, supportato dagli Stati Uniti per evitare che l’Indonesia entrasse definitivamente nell’orbita sovietica.
Dopo aver brutalmente eliminato ogni esponente socialista (o presunto tale), Suharto inverte la rotta promuovendo un modello economico liberista, senza però molto successo. Le sue riforme introducono schemi giuridici di governo d’impresa più vicini a quelli europei e americani, ma si scontrano con il corporativismo radicato nella società indonesiana. La caduta di Suharto apre per l’Indonesia la fase di Reformasi politico-economica, con il principio costituzionale della democrazia economica che torna in auge e l’emergere di un nuovo modello di sviluppo “nazionale”. Nonostante le richieste da più parti, in particolare dal Fondo Monetario Internazionale, di proseguire con liberalizzazioni e privatizzazioni, a Giacarta preferiscono mantenere forte il ruolo dello Stato nell’economia. Una azienda pubblica ben amministrata può stimolare lo sviluppo e anche facilitare la nascita di nuove aziende private. Jokowi lo sa bene. La sua carriera di imprenditore di successo è iniziata come manager di una fabbrica statale di cellulosa e, dopo essersi messo in proprio, il futuro presidente è stato più volte aiutato da aziende pubbliche nel momento del bisogno.
Il capitalismo di Stato indonesiano è però esposto a due gravi rischi. Le imprese private hanno bisogno di contatti personali e politici nel governo per poter fare affari e cooperare con le loro controparti statali. Una buona rete di contatti può tenere a galla un’azienda altrimenti destinata a fallire. Questa dinamica produce poi il secondo problema: il rischio che sorgano coalizioni di interessi tra ministeri e aziende che degenerano in corruzione o paralizzano i processi decisionali. Un problema non da poco, visto che un sistema politico corrotto e instabile può dissuadere gli investitori stranieri, così preziosi per il Paese. Un ministero potrebbe dimenticare i suoi obiettivi politici e privilegiare la protezione delle aziende che possiede, anche a costo di scontrarsi con gli altri ministeri. Per esempio, i negoziati con l’UE per l’accordo commerciale sono stati molto rallentati dalle divisioni interne al gabinetto di Widodo, con ciascun ministero schierato pro o contro certe questioni, a sostegno dell’elettorato di riferimento del ministro e delle sue aziende. Magari il ministero dell’agricoltura vorrebbe respingere ogni richiesta europea sull’olio di palma, anche a costo di bloccare interamente i negoziati. Il ministro dell’industria invece avrebbe fretta di chiuderli favorevolmente per conquistare maggiore accesso al mercato europeo per le sue aziende manifatturiere.
Il successore di Widodo, l’ex generale Prabowo Subianto, potrà contare sulle aziende statali per promuovere le sue politiche, a meno che non intenda cambiare dottrina economica. È improbabile che lo faccia, visto che il Jokowismo è estremamente popolare e permettere di mobilitare le crescenti risorse economiche del Paese per altri scopi. Più difficile anticipare quali saranno tali scopi. Realizzare il principio costituzionale della democrazia economica? Far crescere l’economia, in modo equo e sostenibile oppure badando solo alla crescita percentuale del PIL? O magari, rafforzare il proprio sistema di potere? Il moltiplicarsi delle imprese di Stato sotto Jokowi ricorda la tendenza simile osservata nella Cina di Xi Jinping. Con la differenza chiave che, in Indonesia, l’operato dei ministeri, quindi delle loro aziende, può essere oggetto di dibattito politico e cambiare da una legislatura all’altra. Come rileva sempre Sabatino, i tempi della pianificazione dello sviluppo sono opportunamente sincronizzati dalla legge indonesiana con le elezioni. I risultati elettorali hanno un impatto nelle scelte imprenditoriali delle aziende statali. Prendendo in prestito una celebre espressione legata proprio alla Cina, il “capitalismo con caratteristiche indonesiane” presenta elementi unici e di sicuro interesse, dato che è alternativo e quasi opposto alle pratiche del capitalismo “occidentale”, nonché destinato a guidare l’arcipelago verso il podio delle economie mondiali.