La transizione energetica è un dovere di tutti, ma forse per il continente asiatico lo è un po’ di più. Perché lo sviluppo dei paesi asiatici interessa così tanto gli osservatori?
Il mondo di domani è già in Asia. Ma anche la crisi climatica, le disuguaglianze economiche e sociali, lo sfruttamento delle risorse. La ricerca di soluzioni immediate e concrete per contrastare la crisi ambientale è un imperativo assodato, e nessun luogo al mondo ha gli occhi puntati addosso più dell’Asia. Sebbene i grandi inquinatori risiedano nel nord del mondo e in Cina, anche il resto di quell’Est più arretrato preoccupa gli osservatori. In questa parte di mondo la popolazione aumenta, crescono gli standard di benessere individuale e piovono i finanziamenti nell’edilizia civile e nelle infrastrutture: tutti elementi che rischiano di riproporre i modelli di inquinamento degli ultimi decenni.
L’energia è presto diventata la chiave di volta sul tavolo di quelle “risposte concrete” che i governi devono sviluppare entro i prossimi decenni, pena l’aumento delle emissioni che stanno alla base del riscaldamento globale. Le cosiddette emissioni climalteranti sono responsabili dell’effetto serra e sono riconducibili solo in minima parte alle normali funzioni dell’ecosistema terrestre. Escludendo la curiosità per cui il vapore acqueo è classificato come il gas serra più presente in atmosfera (effetto generato a sua volta dall’innalzamento delle temperature), si parla soprattutto di anidride carbonica (CO2) e metano (CH4). Queste emissioni sono in larga parte riconducibili ai sistemi produttivi e agli standard di vita dei paesi avanzati, che dipendono a loro volta dalle fonti energetiche.
Fonte: International Energy Agency (Iea)
Per quanto semplice possa suonare, affrontare una rivoluzione dei sistemi energetici è un’operazione molto complessa e che si snoda oltre il puro campo dell’innovazione tecnologica. Si tratta di cambiare paradigma in nome dell’efficienza e di spingere “artificialmente” diplomazia, mercati e comunità verso un unico obiettivo: lo sviluppo senza emissioni. O quasi. L’obbiettivo di oggi, consolidato dai tavoli internazionali sul clima, è quello di riuscire a compensare l’output di gas climalteranti compensandone l’impatto (con soluzioni naturali o tecnologiche), e abbassandone la quantità nei settori più inquinanti. Nella regione asiatica il processo di transizione verso forme di energia più sostenibili e pulite diventa un discorso ancora più sfaccettato, dove la (quasi) tabula rasa della rete elettrica in Myanmar condivide lo stesso continente della Cina dei reattori nucleari di quarta generazione.
La domanda energetica in Asia è destinata a raddoppiare entro il 2030, e già oggi rappresenta circa la metà (53%) della domanda globale. Se nel 1966 il Pil pro capite dell’Asia in via di sviluppo era di 330 dollari, oggi si è arrivati a sfiorare i 5 mila dollari. Sono solo due dei dati che spostano l’attenzione degli osservatori sul continente asiatico, dove alla leva produttiva rispondono nuove esigenze di consumo. Ma solleva anche le preoccupazioni degli esperti, che temono possa ospitare gli escamotages delle grandi multinazionali per ridurre la propria impronta carbonica nel paese d’origine. L’Asia oggi continua a puntare sulla crescita economica trainata da esportazioni e modelli di sviluppo tradizionali, e con lentezza sta cercando di uscire dalla stagnazione della crisi Covid: presupposti che per gli scettici convalidano un futuro ancora incerto per il passaggio allo sviluppo “veramente” sostenibile.
Fonte: International Energy Agency (Iea)
Nonostante la battuta d’arresto della pandemia le emissioni continueranno a salire, e oggi sono circa quattro volte maggiori rispetto al 1960. Per tornare a livelli accettabili, secondo gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), tutti i paesi dovrebbero subire lo stop del 2020 ogni anno, per i prossimi decenni. Questo fa entrare sul piatto della bilancia i grandi inquinatori, come Cina e Stati Uniti, ma anche i paesi che più velocemente stanno crescendo secondo gli stessi paradigmi: il Sudest asiatico, l’Asia centrale interessata dai progetti della Belt and Road Initiative (Bri) e ovviamente l’Asia orientale che traina il successo economico del “Far East” da trent’anni. La storia delle Quattro tigri asiatiche è emblematica di questa parabola crescente, che insieme ai profitti ha ospitato e rilanciato i grandi centri di produzione globali. Oggi in questa parte di mondo cresce anche la richiesta di alzare gli standard di vita dei cittadini, che agli occhi dei governi si traduce spesso in ambiziose prospettive di crescita dei consumi interni. Per produrre, e per vivere la vita del “consumatore ideale” serve energia.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale (Fmi)
In questo grande mosaico composto da 4,4 miliardi di persone e 58 paesi la sola presenza della Cina deforma i dati sull’impatto ambientale dei sistemi energetici in Asia. Dall’altro lato dello spettro abbiamo invece 1/10 della popolazione che non ha ancora accesso all’energia elettrica, e che si affida alla combustione di biomasse per cucinare e riscaldare gli ambienti. E lo step successivo viene concesso dall’accesso alle fonti fossili: dal 2010, per esempio, oltre 450 milioni di persone in India e Cina sono passate al Gpl.
Infine, rimane il miraggio dell’efficienza energetica da fonti rinnovabili, già da tempo considerata una delle soluzioni necessarie dalle grandi agenzie come l’International Renewable Energy Agency (Irena) e l’international Energy Agency (Iea). In un rapporto congiunto le due istituzioni hanno denunciato come la maggior parte dei paesi stia ancora sottovalutando l’aspetto dell’efficienza applicato a sistemi di riscaldamento e raffreddamento civili e industriali, che rappresentano il 40% delle emissioni globali. È una delle tante sfaccettature della transizione energetica che potrebbe vedere in vantaggio quelle nazioni asiatiche che non hanno ancora sistemi energetici consolidati e una rete elettrica più da estendere che da rifare. Ma pone anche nuove sfide: i cambiamenti climatici metteranno sempre più alla prova la resilienza delle nuove infrastrutture, in una parte di mondo dove l’innalzamento del mare minaccia milioni di persone e interi stati (soprattutto nelle isole). I picchi di calore e siccità sempre più frequenti mandano in tilt la rete elettrica laddove viene a mancare la capacità idroelettrica o il network non riesce a sostenere la domanda di energia per il raffreddamento.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali e multilaterali per implementare nuovi sistemi energetici più sostenibili, mentre i paesi promettono di raggiungere le emissioni nette entro i prossimi 30-40 anni. Ecco, quindi, che sono nate legislazioni sempre più definite per abbassare le emissioni, efficientare l’accesso a tecnologie più sostenibili e proporre misure di mercato in grado di deviare gli investimenti verso la transizione energetica. L’Asia rimane la regione dove il carbone continua a espandersi, anziché ridursi, ma presto l’abbassamento dei prezzi dell’energia rinnovabile, la spinta degli investitori e la pressione legislativa potrebbe invertire questa tendenza. Non mancano, e non mancheranno, casi di scompenso sulle reti energetiche e sui mercati (compreso quello del lavoro): la transizione energetica non è un pranzo di gala.