Bruxelles vuole rendere le sue politiche climatiche più ambiziose ed evitare il carbon leakage, imponendo ai prodotti importati lo stesso prezzo per le emissioni pagato sui beni made in EU.Quale impatto avrà il Meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (CBAM) europeo sui rapporti commerciali – e diplomatici – con l’Asia?
Anche se gli sviluppi recenti della diplomazia climatica globale non sono stati soddisfacenti, a livello interno l’Unione Europea prosegue con l’attuazione del suo European Green Deal. La Commissione ha adottato lo scorso luglio il pacchetto Fit for 55 e si è prefissata degli obiettivi ambiziosi: ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e portarle a zero entro il 2050, raggiungendo la cosiddetta carbon neutrality. Una delle misure di questo pacchetto è il Meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM), uno strumento che mira ad imporre a certe merci importate nell’UE lo stesso prezzo delle emissioni di carbonio (carbon pricing) pagato per produrre gli stessi beni in Europa sotto il Sistema per lo scambio delle quote di emissione europeo (EU Emissions Trading System, EU ETS). Per raggiungere gli obiettivi di Fit for 55 e spingere i produttori europei a rendere più “verdi” i loro processi industriali, Bruxelles dovrà rendere più ambizioso il suo ETS, esponendosi quindi al rischio di carbon leakage, ossia di rilocalizzazione delle emissioni fuori dall’Unione. Infatti, le aziende potrebbero scegliere di smettere di produrre in Europa i beni colpiti dal carbon pricing per acquistare le stesse merci a prezzo minore dai Paesi terzi con una legislazione climatica meno rigorosa. Il carbon leakage, oltre a danneggiare l’economia europea, renderebbe meno efficaci le politiche climatiche, dato che spingerebbe le imprese a spostare le loro emissioni, non a ridurle.
Al momento, l’UE affronta il rischio di carbon leakage prevedendo l’erogazione di quote a titolo gratuito nell’EU ETS, riducendone così l’efficacia. Il CBAM permetterebbe di superare le quote a titolo gratuito, portando a una più netta riduzione delle emissioni nell’UE tramite l’EU ETS, e avrebbe effetti anche nei Paesi terzi. Per evitare di pagare il prezzo del carbonio in Europa, i partner commerciali potrebbero dotarsi di un proprio strumento di carbon pricing oppure innovare i loro processi produttivi per ridurre le emissioni, quindi il costo al momento dell’esportazione. Pur essendo una politica climatica interna, il CBAM riesce a influenzare i rapporti commerciali internazionali e l’impegno dei Paesi terzi nel raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. I risultati sono già visibili, anche prima dell’approvazione definitiva dello strumento: la Turchia ha ratificato l’Accordo e ha ammesso che il CBAM, con i suoi potenziali effetti sull’export turco verso l’Europa, rappresenta una delle ragioni dietro tale scelta.
Ma come funziona esattamente il CBAM? La Commissione si è mossa con molta cautela nella progettazione del Meccanismo. Nell’ultimo decennio, l’accademia e le organizzazioni internazionali hanno discusso approfonditamente sulle possibili forme di border adjustment mechanism, un innesto necessario per i sistemi di carbon pricing ormai diffusi in molti Paesi del mondo. L’UE ha sviluppato per prima questo strumento, sulla spinta dell’Accordo di Parigi e fissando un modello per gli altri Stati interessati a sviluppare regimi simili – Canada, Stati Uniti e Giappone hanno espresso la volontà di sviluppare i propri CBAM e cooperare con l’UE sul punto; il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha espresso il proprio supporto per la misura europea, in attesa di un accordo internazionale sul punto. Con il CBAM, Bruxelles ha ripetuto quanto aveva fatto quasi vent’anni fa con l’EU ETS – strumento a sua volta figlio di un lungo dibattito scaturito da un accordo internazionale, il Protocollo di Kyoto –, confermandosi la standard-setter globale per le politiche climatiche. Essere la capofila però comporta dei rischi: le misure che impongono costi maggiori all’importazione delle merci non sono mai apprezzate dai partner commerciali, in particolare da quelli che ne vengono maggiormente colpiti – o pensano di esserne colpiti, come vedremo –, e sono spesso oggetto di azioni legali presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Coerentemente con il suo impegno a favore del multilateralismo, l’UE ha posto quale principio base del suo CBAM il rispetto delle obbligazioni OMC. Analizzando la proposta di Regolamento della Commissione, sembra non essere presente alcuna discriminazione sanzionabile dall’OMC: le merci importate sono sottoposte a un regime che riproduce quello in vigore per i prodotti europei. Inoltre, il prezzo del carbonio eventualmente pagato nel paese di origine del bene è tenuto da conto e dedotto dalla cifra da pagare all’UE. Le quote a titolo gratuito dell’EU ETS verranno gradualmente ridotte, riflettendo la graduale entrata in vigore del CBAM. Al momento, i settori oggetto della misura sono cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità. In una seconda fase, la portata del CBAM sarà estesa anche ad altri settori.
Pur rispettando il diritto OMC, il CBAM potrebbe comunque essere impugnato dai Paesi che si considereranno indebitamente colpiti. I critici della misura parlano di “protezionismo verde” per schermare le aziende europee dalla competizione esterna. Se, da un lato, tale valutazione appare eccessiva – il CBAM non favorisce le aziende europee, semmai riduce il vantaggio che i produttori stranieri traggono da politiche climatiche troppo poco incisive, sottoponendole agli stessi oneri dell’EU ETS –, dall’altro, è vero che la cooperazione è uno strumento di diplomazia climatica più efficace delle azioni unilaterali. In astratto, un prezzo del carbone globale sarebbe molto più efficace di una moltitudine di sistemi che richiedono ciascuno un CBAM, come ha osservato l’IMF. La proposta europea ha il merito di aver reso più concreto il dibattito su questo tipo di misura.
La fondazione tedesca Konrad Adenauer ha mappato la posizione dei Paesi asiatici e dei loro stakeholder sul CBAM prima della pubblicazione della proposta della Commissione nel luglio 2021, quindi prima che se ne conoscesse l’architettura di massima. Le opinioni appaiono molto diverse. All’interno di ASEAN, Singapore e Thailandia non esprimono particolari preoccupazioni, mentre Malesia e Indonesia sono più critiche. Non c’è da stupirsi: l’import di Kuala Lumpur e Giacarta è già stato colpito in passato dalla politica ambientale UE – la famosa controversia sull’olio di palma – e i due Paesi farebbero fatica a sviluppare un sistema di carbon pricing per ridurre gli adempimenti del CBAM. Osservando i dati dei flussi commerciali tra i due blocchi, nessuno dei settori coperti dal CBAM è particolarmente rilevante per l’export dei Paesi ASEAN – con l’eccezione forse proprio della Malesia, ma sempre in misura ridotta. Il problema non sembra tanto l’effettivo impatto della misura, ma una mancanza di fiducia da parte degli stakeholder dei due Paesi verso la politica ambientale UE. Bruxelles potrebbe superare queste perplessità supportando la transizione ambientale e cooperando con i Governi locali sulla politica climatica.
Anche in India e Cina i prossimi passi dell’UE saranno importanti per far prevalere una percezione positiva del CBAM. Nuova Delhi è, al momento, l’unico governo G20 sulla buona strada per raggiungere i suoi obiettivi di contenimento delle emissioni, ha già sviluppato degli strumenti di carbon pricing e le sue aziende attive nei settori coperti dal CBAM impiegano metodi di produzione avanzati ed efficienti. Questi fattori rendono probabile un effetto positivo del CBAM sull’export indiano verso l’UE, favorito da una minore competizione da parte di altri Paesi con politiche climatiche e processi industriali meno avanzati. Eppure, dal già menzionato rapporto della fondazione Konrad Adenauer emerge che una maggioranza degli stakeholder indiani è particolarmente critica rispetto al CBAM e ritiene la misura incompatibile con il diritto climatico internazionale e le norme OMC, nonché “punitiva” verso i Paesi in via di sviluppo. La Cina per ora non ha espresso una posizione negativa rispetto al CBAM, anche perché al momento sta cooperando con l’UE per sviluppare un proprio, ambizioso, ETS. Se la cooperazione proseguirà in modo proficuo, il CBAM finirà per favorire gli esportatori cinesi, anziché svantaggiarli. Pechino si aspetta che i suoi sforzi climatici siano riconosciuti da Bruxelles e che le sue aziende non siano colpite negativamente dal CBAM. Se la disponibilità cinese a collaborare sulla misura fosse disattesa dal lato europeo, il rischio di un’azione legale OMC riemergerebbe. In conclusione, l’UE deve tenere fede ai suoi propositi di cooperazione con i partner per evitare che il CBAM appaia come un’imposizione unilaterale restrittiva del commercio internazionale.
Se i malumori nei Paesi che abbiamo menzionato possono essere affrontati e superati facilmente, non è altrettanto facile rispondere alle preoccupazioni dei Paesi in via di sviluppo più poveri, privi della capacity per sviluppare strumenti di carbon pricing e delle risorse per avviare la propria transizione ecologica. Il CBAM colpirebbe soprattutto i loro prodotti. Da quanto emerge dal rapporto di valutazione d’impatto della proposta, Bruxelles è consapevole di tale rischio e intende aumentare il suo impegno per supportare questi sforzi. Eppure, l’UE e gli altri Paesi ricchi devono ancora dare seguito alle loro promesse di finanziamenti per il clima. Forse, proprio le entrate del CBAM potrebbero andare a finanziare la cooperazione tra l’UE e questi Paesi per raggiungere gli obiettivi di Parigi.