Commercio e diplomazia ASEAN alla prova del Trump bis

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Articolo di Pierfrancesco Mattiolo

Donald Trump presta giuramento per la seconda volta, generando preoccupazione e incertezza tra i governi ASEAN. I dazi commerciali sembrano minacce più che promesse, utili per spingere i partner a fare concessioni senza dover arrivare alla loro adozione. Dopo gli sforzi di Joe Biden per rafforzare cooperazione e presenza americana nella regione, Trump potrebbe essere meno interessato al Sud Est asiatico e seguire una logica do ut des.

La nuova amministrazione Trump è pronta a entrare nella West Wing della Casa Bianca. Gli analisti e i paesi terzi si aspettano un secondo governo più aggressivo e preparato del primo. Trump promette di portare cambiamenti rapidi in certe regioni del mondo, chiudendo la guerra tra Russia e Ucraina e stabilizzando il Medio Oriente, e di tenere una linea dura verso la Cina. Su altre aree invece, come nel Sud Est asiatico, è più difficile fare previsioni su quali saranno gli impatti della nuova amministrazione. Hoang Thi Ha e William Choong, due Senior Fellow dell’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore, prevedono che l’ASEAN potrebbe scontare altri quattro anni di assenza e disinteresse da parte di Trump, come avvenuto durante il suo primo mandato, durante il quale non si era preoccupato neppure di nominare degli ambasciatori presso l’ASEAN e Singapore. Al contrario, Barack Obama e Joe Biden si erano contraddistinti per il loro impegno nell’intessere legami forti con l’Organizzazione e i suoi governi. 

Il punto chiave dell’agenda trumpiana, almeno in apparenza, sono i dazi e il riequilibrio delle bilance commerciali con i paesi che esportano negli USA più di quanto importino. Nella narrativa di Trump e dei suoi alleati più protezionisti, questa politiche dovrebbero riportare posti di lavoro sul suolo americano e avvantaggiare la classe lavoratrice penalizzata dalla globalizzazione. Il primo passo in questo senso prevede di terminare o ridurre i programmi con un effetto favorevole sugli scambi, come il Generalized System of Preferences (GSP, la stessa sigla che utilizza l’UE per il suo programma omologo) o l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF) promosso da Biden. Il GSP riduce i dazi sulle merci importate dai paesi in via di sviluppo e, durante la prima amministrazione Trump, India e Turchia erano state escluse dalla lista dei beneficiari a causa del loro surplus commerciale. Quasi il 60% delle merci coperte dal GSP esportate dall’ASEAN verso gli States è prodotto in Tailandia e Indonesia, quindi una revoca delle preferenze li colpirebbe duramente – insieme ai loro clienti americani, che dovrebbero pagare di più le forniture. L’IPEF invece mirava a stabilire regole comuni su certi ambiti, senza però ridurre le tariffe commerciali tra i membri. Trump ha bollato l’iniziativa come un “TPP due”, facendo riferimento alla ben più ambiziosa Trans-Pacific Partnership che aveva bloccato durante il suo primo mandato, quindi anche questo progetto verrà probabilmente accantonato.

Il secondo passo sarebbe poi ridurre gli scambi attraverso l’imposizione di nuove tariffe e altri strumenti protezionistici. Il programma elettorale di Trump prevedeva l’imposizione di dazi generalizzati tra il 10 e il 20% per tutti, salendo al 60% per le merci cinesi. Misure del genere avrebbero effetti negativi non solo sui partner commerciali, ma anche sull’economia e i consumatori americani. I dazi trumpiani dovrebbero essere considerati forse come una minaccia eventuale, più che come una promessa concreta. Gli analisti parlano di ritorno del “transazionalismo” a Washington (e nella politica internazionale). Per scongiurare il rischio di essere colpiti dagli ordini esecutivi di Trump, i paesi terzi (e le aziende, anche americane, rispetto alle politiche interne) preferiscono fare concessioni preventive al presidente-imprenditore, evitando così di doverle fare a seguito di un braccio di ferro commerciale costoso per entrambe le parti. In altre parole, la minaccia delle tariffe può essere più efficace e veloce delle tariffe stesse per ottenere i successi promessi da Trump agli elettori. Anziché un aumento dei dazi generalizzati, la nuova amministrazione potrebbe utilizzare questo strumento in modo piu’ flessibile (e imprevedibile). Un indizio in questo senso proviene dall’esclusione di Robert Lighthizer, Rappresentante per il Commercio (USTR) internazionale del primo governo Trump e influente “teorico” dei dazi orizzontali, dal suo nuovo gabinetto. Lighthizer era stato per mesi uno dei favoriti per la nomina a Segretario del Tesoro o del Commercio, ma alla fine sono stati scelti due esponenti di Wall Street, rispettivamente Scott Bessent e Howard Lutnick. Il nuovo USTR sarà Jamieson Greer, ex capo dello staff di Lighthizer, con l’insolita novità che il suo ufficio verrà posto sotto la “diretta responsabilità” del Segretario del Commercio Lutnick. Tale organigramma ha in parte allarmato gli alleati più protezionistici di Trump e rasserenato gli ambienti finanziari statunitensi sul fatto che i dazi saranno utilizzati in modo opportunistico più che ideologico.

Tornando al Sud Est asiatico e allo scenario ipotetico di dazi tra 10 e 20%, gli export dall’Asia (Cina esclusa) verso gli USA calerebbero del 3%, mentre quelli di segno opposto dell’8%, considerando che i prodotti americani verrebbero probabilmente colpiti da tariffe di pari entità come rappresaglia e ne calerebbe la domanda. Anche i flussi di investimenti potrebbero cambiare: Trump favorirà le aziende che investono in America, quindi parte dei capitali americani potrebbe rimanere da quel lato del Pacifico, anziché finanziare lo sviluppo in ASEAN. Anzi, le aziende ASEAN potrebbero investire sul suolo americano in modo da mantenere l’accesso al mercato USA. Sarà inoltre necessario diversificare la provenienza degli investimenti, guardando a partner alternativi come l’UE e il Giappone. Le sfide poste da Trump potrebbero però essere accompagnate anche da delle opportunità per i paesi ASEAN, considerando che la Cina sarà colpita più duramente e le aziende potrebbero spostarsi da lì verso sud per evitare i dazi più severi. Tale fenomeno si era verificato già durante il primo mandato di Trump ed era accelerato con Biden, promotore di una politica di friendshoring, ossia di spostamento delle catene di approvvigionamento a favore dei paesi alleati. 

Il possibile decoupling tra USA e Cina non è però privo di rischi per l’ASEAN, i cui prodotti destinati verso gli Stati Uniti hanno spesso componentistica cinese e che fornisce a sua volta a Pechino materie prime e parti per i prodotti da esportare in America. Una riduzione di export cinesi potrebbe avere impatti anche sull’export ASEAN. Inoltre, la crescita dell’import da Vietnam, Tailandia e Malesia, quasi o più che raddoppiato tra 2017 e 2023, potrebbe però spingere Washington a voler “riequilibrare” la bilancia commerciale rispetto a questi paesi stavolta. Ad Hanoi c’è una certa preoccupazione, dato che il paese è diventato il terzo esportatore verso gli Stati Uniti (dopo Cina e Messico) e nel 2019 Trump lo aveva definito il “peggior approfittatore” del commercio internazionale. Forse per ingraziarselo, il Partito Comunista Vietnamita ha favorito un investimento da 1.5 miliardi di dollari della Trump Organization per l’apertura di un campo da golf poco distante da Hanoi. 

Le tensioni tra America e Cina avranno anche grande impatto sulla sicurezza della regione e le nomine di Mike Walz a Consigliere per la Sicurezza nazionale e Marco Rubio a Segretario di Stato hanno portato i “falchi” sulla Cina alla ribalta nella nuova amministrazione repubblicana. Anche in questo settore Trump potrebbe seguire una logica di do ut des, come dimostra il suo paragone tra la Corea del Sud e una money machine: secondo il nuovo presidente, Seoul potrebbe pagare 10 miliardi di dollari l’anno in cambio della presenza dei soldati statunitensi sul proprio territorio. Anche in questo caso, è bastata una dichiarazione suggestiva di Trump per portare il governo sudcoreano ad alzare dell’8.3% il suo contributo annuale alle spese militari americane, arrivando a 1.13 miliardi di dollari nel 2026. Tra i paesi ASEAN, sono soprattutto le Filippine ad essere esposte ai possibili cambi di marcia USA, dato che dal 2022, con Ferdinand Marcos Jr. e Joe Biden alla guida dei rispettivi paesi, la cooperazione nella difesa è stata molto approfondita. Un’altra preoccupazione è che Trump, desideroso di dimostrare l’art of the deal su cui ha costruito il suo personaggio, offra gli interessi dei partner come contropartite alla Cina per chiudere gli accordi che gli premono personalmente, magari rispetto al Mar Cinese Meridionale o Taiwan. Infine, è molto probabile che Washington tagli i fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo, portando a un peggioramento delle condizioni delle comunità locali che beneficiano dei progetti americani.

In conclusione, la diplomazia transazionale del deal making di Trump presenta dei forti rischi (e qualche opportunità) per i paesi ASEAN. Di sicuro segna un cambio di passo con la strategia di Biden nella regione, basata sulla cooperazione e il sostegno politico ed economico agli alleati in cambio di un loro impegno contro la Cina. Se Biden è stato talvolta criticato per aver “chiuso un occhio” sulle violazioni dei diritti umani e politici nei paesi alleati, questo tema probabilmente neppure si porrà con Trump. La nuova amministrazione cercherà comunque di spingere gli attori regionali a seguire le sue iniziative per contenere la Cina. Per molti governi ASEAN sarà più complicato, ma ancora più importante, mantenere la propria strategia di “equilibrismo”  tra Washington e Pechino, considerati entrambi partner strategici ed economici necessari, anche se in contrapposizione e talvolta ingombranti. Inoltre, non rinunciare al multilateralismo ASEAN potrebbe metterli al riparo dalle tattiche divide et impera delle grandi potenze. Partner alternativi come UE e Giappone potrebbero acquisire un’importanza maggiore. Infine, rimarrà da osservare l’impatto di Trump nelle competizioni elettorali di certi paesi, con un suo possibile effetto galvanizzante sui movimenti populisti nelle Filippine o in Indonesia.

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