Il Vietnam leader della delocalizzazione

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Ma sviluppare un’industria high-tech autoctona non è così semplice

Il futuro della Apple potrebbe essere in Vietnam. Da più di dieci anni il Paese del Sud-Est Asiatico è un leader assoluto nell’attrarre i più grandi brand della tecnologia: da Samsung, a Xiaomi, a Intel. E anche la compagnia di Steve Jobs sta producendo qui i componenti per gli AirPods, oltre a testare la produzione di smartwatch e laptop. Riuscire a inserirsi nella filiera di questi dispositivi più complessi sarebbe un grande successo per l’industria manifatturiera di Hanoi.

Il Vietnam ha infatti registrato una crescita dell’esportazione di beni tecnologici ineguagliata da qualunque altro Paese asiatico. Dal 13% del 2010, in appena dieci anni i componenti high-tech sono diventati il 42% dell’export. Del resto, negli ultimi anni il crescente costo dell’inflazione nei centri manifatturieri cinesi ha spinto molti produttori a spostare le loro fabbriche in Vietnam, dove i salari dei lavoratori sono più bassi. Prima la guerra commerciale tra Washington e Pechino e poi i continui e serrati lockdown in Cina, hanno incentivato le aziende, inclusa Apple, a trasferirsi nel Paese. Ma la capacità di Hanoi di attrarre imprese estere per lavorare i componenti dei dispositivi tecnologici in loco va di pari passo con la difficoltà a far emergere un’industria propria. Secondo i report pubblicati dal Ministero dell’Industria e del Commercio nel 2019, il Vietnam è rimasto indietro rispetto alla maggior parte dei suoi vicini nel settore tecnologico. 

Negli anni precedenti le cosiddette “tigri asiatiche” hanno dimostrato che il salto di qualità, da pezzo della catena di montaggio a produttore vero e proprio, è possibile. Un esempio sono le economie di Cina, Taiwan e Corea del Sud, che partendo da una base di prodotti a basso costo, hanno virato le loro industrie verso l’automobilistica e la robotica. Il Vietnam presenta caratteristiche simili a questi Paesi: bassi costi di produzione, forza lavoro a disposizione e una politica industriale coordinata dallo Stato. Tuttavia, incombono due grandi criticità: la mancanza di infrastrutture adeguate e di manodopera altamente qualificata. Manager e lavoratori qualificati costituiscono, infatti, solo il 10,7% dell’intera forza lavoro del Vietnam, la percentuale più bassa di tutte le grandi economie del Sud-Est Asiatico. Inoltre, in Cina ad esempio, intere zone sono dedicate alla creazione di un solo prodotto; il Vietnam, invece, non dispone di questi agglomerati. Le sue industrie sono sparse nel Paese e poco integrate.

Resta, poi, da chiarire se il successo raggiunto dalle “tigri asiatiche” decenni fa sia replicabile ancora oggi, con un’economia globalizzata trasformata dal dominio del settore manifatturiero cinese. Il ruolo di Hanoi rimane quindi ancora incerto: in bilico tra continuare a essere una parte affidabile della filiera produttiva e, allo stesso tempo, pronto a elaborare una strategia per entrare nel mercato internazionale. Certo, il successo nell’high-tech significherebbe diventare competitivi con i grandi brand asiatici, come la cinese Oppo o la malese Silterra. Ma un eventuale fallimento, fa notare il direttore del Mekong Development Research Institute Phung Tung, condannerebbe il Paese a essere “per sempre una componente della catena di approvvigionamento”, con le disastrose conseguenze della stagnazione, la disuguaglianza sociale e le crisi di debito.

La soluzione per continuare ad attrarre aziende estere sul territorio e, al contempo elaborare una strategia di crescita autonoma, pone il Vietnam di fronte a un dilemma: la formazione della manodopera aumenterà le possibilità del Paese di lanciarsi nell’industria dell’high-tech, ma porterà anche a un incremento dei salari, incoraggiando i produttori esteri a delocalizzare altrove, come nella vicina Cambogia.

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