Nell’area dei Paesi ASEAN sono state registrate alcune battute d’arresto ma anche numerosi passi avanti sul tema del riconoscimento giuridico e politico della comunità LGBTQIA+
Nel mese di giugno, le celebrazioni, le commemorazioni e le iniziative del Pride Month fioriscono in tutto il mondo. Molti paesi del Sud-Est asiatico hanno fatto passi avanti in materia di diritti civili per la comunità LGBTQIA+, mentre altri sono ancora reticenti ad accoglierne le rivendicazioni politiche e le istanze di riconoscimento identitario. Condizionamenti culturali e religiosi e leggi non accomodanti si intersecano con l’amara esperienza della colonizzazione occidentale, fornendo argomentazioni politiche ai detrattori dei movimenti sociali che lottano per la libera espressione dell’identità di genere e degli orientamenti sessuali. Ma recuperare i “valori asiatici”, secondo alcuni analisti, può portare a un’accelerazione delle aperture sui diritti civili.
Anche attraverso l’operato delle grandi organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, i diritti LGBTQIA+ sono stati riconosciuti come diritti umani nel quadro del diritto internazionale. Nel 2007 sono stati adottati i Principi di Yogyakarta, un compendio di linee guida rivolto agli Stati della comunità internazionale sulla prevenzione delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, per “un futuro diverso, in cui tutte le persone nate libere ed eguali in dignità e diritti” possano godere del diritto arendtiano di avere diritti. Ma a mano a mano che ci si avventura in contesti nazionali e locali sembra che le raccomandazioni dell’alta politica si facciano sempre più opache. Il Sud-Est asiatico è una delle regioni in cui questa contraddizione si esprime con più vigore.
Nell’area dei Paesi ASEAN sono stati registrati numerosi passi avanti sul tema del riconoscimento giuridico e politico della comunità LGBTQIA+, ma anche diverse battute d’arresto. Nel Brunei e in Indonesia i rapporti tra persone dello stesso sesso sono vietati e nel Sultanato possono implicare anche la pena di morte. In Indonesia si registra uno dei livelli più alti di intolleranza dei confronti delle coppie omosessuali nel Sud-Est asiatico: secondo un sondaggio del Pew Research Center del 2019, l’80% degli intervistati era contrario all’accettazione dell’omosessualità nella società. Di recente, un programma giornalistico in onda su Youtube è stato al centro di uno scandalo per aver invitato una coppia gay in trasmissione: il talk show “Close The Door” di Deddy Corbuzier è spesso oggetto di polemiche per la presenza di figure pubbliche che intervengono su questioni sensibili, e stavolta ha fatto infuriare molti esponenti della grande comunità musulmana indonesiana. Il presidente del Consiglio indonesiano degli Ulema Cholil Nafis era molto contrariato quando ha affermato che “l’Islam proibisce le persone LGBT. È come una parte malata del corpo che deve essere amputata, non celebrata”.
Anche Singapore non si annovera tra i Paesi più progressisti in tema di diritti LGBTQIA+. Nella città-stato asiatica è in vigore una legge che criminalizza ancora il sesso tra uomini, anche se “non viene applicata rigorosamente”. La Thailandia, spesso definita come un “paradiso LGBTQIA+” per via della relativa libertà con cui le persone possono esprimere genere e orientamento sessuale, potrebbe presto legalizzare l’unione matrimoniale tra coppie dello stesso sesso. Kittinun Daramadhaj, presidente dell’Associazione Rainbow Sky della Thailandia, ha affermato che l’uguaglianza di genere in Thailandia è “una finta uguaglianza, perché siamo contenti delle persone LGBT, ma non abbiamo alcun meccanismo legale per proteggere i loro diritti”. Solo di recente, dopo una sentenza della Corte costituzionale che ha stabilito che le leggi thailandesi dovrebbero essere ampliate per garantire maggiori diritti alla comunità LGBTQIA+, in Thailandia sembra muoversi qualcosa. Secondo alcuni osservatori il Paese si trova sulla buona strada per divenire il primo nel Sud-Est asiatico a legalizzare le unioni omosessuali, con un disegno di legge ora in fase di approvazione al Parlamento. La proposta non riguarda il matrimonio vero e proprio, ma consentirebbe alle coppie gay di adottare bambini e gestire il proprio patrimonio in comune.
Un altro esempio virtuoso del riconoscimento sociale delle persone LGBTQIA+ viene da un Paese insospettabile: le Filippine. Nonostante la storia di autoritarismo e la profonda pervasività della dottrina cattolica, l’arcipelago del Sud-Est asiatico ha un record di inclusività per le persone gender-fluid e queer. Questo primato deve molto anche all’eredità delle religioni tradizionali, che sopravvivendo all’avvento dell’imperialismo spagnolo e all’arrivo del Cattolicesimo, hanno continuato ad orientare le dinamiche relazionali della società. Il regista, produttore e scrittore Vonne Patiag, di origini filippine, si concentra molto nei suoi lavori sulle storie personali di identità marginalizzate. In un articolo apparso sul Guardian, riporta l’esempio dei bakla, spesso considerati un terzo genere nelle Filippine, definiti quasi “una celebrazione intersezionale delle culture asiatiche e queer”. Si tratta di un’identità di genere fondata su una pratica culturale performativa più che sulla sessualità, che trascende la dualità uomo-donna, in un rifiuto del binarismo ante-litteram. Secondo Vonne Patiag, “bakla è una parola tagalog che indica la pratica filippina del cross-dressing maschile, che indica un uomo che ha modi “femminili”, si veste come una donna “sexy” o si identifica come una donna”. I bakla, storicamente, rivestono anche ruoli di leadership importanti a livello sociale. Nonostante questo modello di fluidità di genere, e anche se l’omosessualità è legale nelle Filippine, il matrimonio per le coppie omosessuali non è ancora riconosciuto, e la legislazione per la conversione delle persone transessuali è ancora piuttosto ambigua. Secondo Brian Wong, dottorando in Teoria politica presso il Balliol College di Oxford e borsista Rhodes di Hong Kong, “è stato il contatto con l’Occidente a ridurre progressivamente la permissività dell’Asia nei confronti delle relazioni omosessuali”. Gli episodi di omofobia, secondo lo studioso, avrebbero una correlazione con l’esperienza coloniale, che comprometterebbe l’unicità del dibattito sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale in Asia orientale. Per questo, Wong invita la comunità del Sud-Est asiatico a recuperare quei “valori asiatici”, che qualche detrattore vorrebbe confondere con paradigmi di pensiero conservatori, ai quali invece bisognerebbe attingere per portare lo stato dei diritti delle comunità LGBTQIA+ nel Sud-Est asiatico ancora avanti.