Mentre Mosca è impegnata nel conflitto, Naypyidaw torna a contare poco nell’elenco delle priorità russe. E la Cina si prepara a riempire questo vuoto nonostante la diffidenza di entrambe le parti
“Né con la Russia, né con l’Ucraina” è uno slogan che suonerebbe poco piacevole alle orecchie della giunta militare al potere in Myanmar. Gli amici dell’esercito birmano, il Tatmadaw, si contano sulle dita di una mano. E tra questi proprio Mosca e Kiev erano i migliori partner sul mercato delle armi, unico mezzo per legittimare il proprio potere con la forza dopo il golpe del 1° febbraio 2021. Con la crisi ucraina il Myanmar ha alcuni inevitabili punti in comune, gli stessi di tutti i conflitti: povertà, distruzione e caos. Come denuncia l’inviato della Nazioni unite in Myanmar Andrew Kirkwood, il numero di birmani in condizioni di povertà assoluta ha raggiunto i tre milioni, mentre crollano i servizi pubblici di base, soprattutto nelle aree rurali. A fermarsi non è invece la violenza degli scontri, che continuano a provocare morti tra i civili. In questo contesto di profonda crisi economica e politica non è quindi più così certo che il Tatmadaw riesca a (ri)modellare il paese a sua immagine e somiglianza. Soprattutto non ha più le spalle coperte. Con la Russia distratta potrebbe dover cercare altrove un protettore, guardando verso la Cina. Una scelta che l’esercito birmano ha sempre cercato di ritardare per le storiche diffidenze nei confronti di Pechino, che intratteneva peraltro rapporti profondi col governo di Aung San Suu Kyi.
Da quando le forze armate hanno ripreso il potere è emersa subito la lotta impari tra cittadini pressoché disarmati e un Tatmadaw dotato tanto di mezzi militari quanto di strumenti per la sorveglianza e il tracciamento dei nuclei ribelli, i gruppi che si riconoscono nelle People’s defence forces (Pdf) o nei più strutturati eserciti etnici. Anche a loro, in qualche modo, la notizia di due attori in meno sul mercato aggiunge ulteriori difficoltà in un contesto di crescente scarsità. Le Pdf faticano a trovare il pieno appoggio armato del governo democratico in esilio (il National Unity Government of Myanmar, o Nug), e ancora più sfuggente è il sostegno dei paesi occidentali. Nelle ultime settimane, il dipartimento di Stato americano ha ufficialmente definito “genocidio” la repressione dei Rohingya ma sul piano concreto le pressioni occidentali sul governo golpista si sono affievolite anche a causa della “distrazione” ucraina. Lo stesso vale per gli eserciti delle realtà etniche, spesso in conflitto tra loro. Il conflitto russo-ucraino potrebbe erodere sia le reti commerciali tradizionali, che i traffici più opachi di materie prime e droghe – spesso alla base delle entrate degli eserciti informali.
Nel frattempo, il golpe ha tagliato la maggior parte dei legami commerciali e diplomatici con l’Occidente, lasciando pochi spazi di manovra agli affari della giunta militare. La minaccia di una Russia sempre più concentrata su se stessa rischia di ridurre non solo il potenziale bellico del Tatmadaw, ma anche il commercio di farmaci e altri beni essenziali a favore – ancora una volta – di Pechino. Ad aggravare il quadro della situazione, il fatto che le potenze occidentali fatichino a trovare i canali giusti (e slegati dalla giunta) per fornire gli aiuti necessari. Sui 350 milioni di dollari richiesti dall’inviato Onu nel 2021, per esempio, ne è arrivato solo un terzo e ciò non rimuove il rischio di ripercussioni da parte dell’esercito. Le stesse risorse naturali che abbondano in Myanmar non sembrano rappresentare un incentivo abbastanza allettante da richiamare l’attenzione dei partner occidentali oltre le sanzioni emanate in passato e l’embargo alla vendita di armi.
Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il Myanmar sembrava naturalmente diretto verso la nascita di nuove istituzioni pseudo-democratiche. Il Tatmadaw, infatti, si sta attrezzando per togliersi la divisa e indossare gli abiti della politica. L’attuale State Administrative Council (Sac), l’istituzione governativa creata ad hoc dopo il golpe, parla di indire nuove elezioni entro l’agosto del 2023: una competizione plurale di facciata, necessaria a tentare di riguadagnare la fiducia di partner commerciali, investitori e donatori internazionali. Tra questi, la Cina sta giocando d’anticipo: il Nug è sparito dalle dichiarazioni ufficiali e le iniziative bilaterali ora coinvolgono il braccio diplomatico del Tatmadaw, l’ex colonnello Wunna Maung Lwin.
Maung Lwin è stato invitato a marzo 2022 come parte di una delegazione Asean in visita a Pechino per parlare degli “effetti negativi della crisi ucraina nel Sud-Est asiatico”. Il 1° aprile il ministro degli Esteri cinese Wang Yi lo ha poi incontrato nello Anhui per confermare il “massimo sostegno” della Cina allo sviluppo del Myanmar “indipendentemente da come muterà la situazione geopolitica”. Queste dichiarazioni, insieme a progetti come la costruzione di nuove infrastrutture (per esempio, un nuovo gasdotto-oleodotto) e l’avvio di zone industriali lungo il confine, arrivano in un momento cruciale. Un momento in cui un “no” diventa sempre più impensabile, anche a fronte della storica diffidenza del Tatmadaw nei confronti della Repubblica popolare. Nel frattempo, l’eventualità di un Myanmar instabile ancora per molto tempo con l’allontanamento della Russia fa avvicinare Pechino anche ai gruppi etnici. Una strategia che tiene aperte tutte le possibilità, ma che il presidente del Nug (criticando Pechino per l’avvicinamento a un governo che definisce “illegittimo”) ha definito “pericolosa” perché passibile di “continuare, e non cessare, i conflitti interni”.