La presenza delle aziende italiane nell’ASEAN. Una ricerca dell'Osservatorio ASIA

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Tratto da “Le imprese italiane nei paesi ASEAN”, una ricerca dell’Osservatorio ASIA – Ministero dello Sviluppo Economico – Italian Trade Agency – ICE.
Le aziende italiane nell’Asean: gli investimenti
La ricerca di Osservatorio Asia nella prima fase ha ordinato le informazioni esistenti. Gli elenchi delle aziende nazionali presenti nei 10 paesi sono stati armonizzati e aggiornati. Successivamente sono stati integrati attraverso un meticoloso e rigoroso lavoro di ricerca. Esso si è basato sugli archivi e le informazioni di Osservatorio Asia, sulle sue analoghe ricerche in India e Cina, sui siti aziendali, sulla consultazione della stampa economica. Gli elenchi finali sono considerevolmente più numerosi di quelli iniziali. Nella seconda fase sono stati elaborati i dati raggiunti, con analisi sulla provenienza regionale italiana, il settore merceologico e il nome assunto dalle aziende registrate in loco. Da ultima è stata analizzata la tipologia di attività, probabilmente il dato più importante. Serve a stabilire se l’investimento rientra nelle macro aree dei servizi o della produzione. Dato il carattere iniziale, seppure innovativo, della ricerca, non sono stati effettuati approfondimenti sul campo o scientifici che potessero rilevare – con missioni, interviste, questionari – valutazioni probanti sulle singole scelte aziendali (risparmi sui costi di produzione dovuti all’offshoring, destinazione finale dei prodotti, soddisfazione dell’investimento, sostegno delle istituzioni italiane e dei governi locali, entità delle risorse finanziarie trasferite in Asean). Il criterio cardine della ricerca è stato il trasferimento di risorse economiche da un’azienda italiana in uno dei 10 paesi Asean.
Non sono state dunque prese in considerazione le aziende nate da iniziative individuali, spesso attive nei settori della consulenza, del turismo, della ristorazione e dell’import-export. Va rilevato tuttavia che esse rappresentano un segnale di attivismo, frequentemente di successo, dell’imprenditoria italiana. Si tratta di fenomeni non strutturati, che trovano punti di riferimento nelle organizzazioni locali come le Italian Business Association (non ancora trasformate in Camere di Commercio come avvenuto in passato) e nelle aggregazioni trainate dal proliferare dei social network.
La loro presenza è quantificabile in più di 100 unità che hanno un legame discontinuo con il nostro paese, anche se la loro funzione di promotori del Made in Italy è innegabile.
Non sono state infine considerate le attività locali derivanti da accordi con aziende italiane. Sono i casi più frequenti dell’intermediazione commerciale, il veicolo più potente e consolidato per l’esportazione di prodotti italiani. A meno che l’impresa italiana non sia proprietaria della rete distributiva, quest’ultima è una società locale non solo legalmente. I suoi titolari traggono profitti – secondo diversi accordi aziendali – dall’acquisto (o dalla concessione) e dalla rivendita a consumatori del proprio paese. Il fenomeno è stato spesso considerato un ostacolo alla penetrazione dei prodotti italiani, perché si affida a distributori frequentemente non di grandi dimensioni o perché non in possesso dell’esperienza della GDO europea. È nota la difficoltà che incontrano i produttori italiani che non possono usufruire della leva negoziale in possesso dei giganti distributivi della Francia (Carrefour e Auchan), della Germania (Metro) e di altri paesi europei.
È necessario infine rilevare che esiste una differenza, che tende ad acuirsi, tra gli interessi degli stati nazionali e le tendenze della globalizzazione. I governi sostengono le aziende del loro paese perché possono creare reddito e occupazione. Incoraggiano le esportazioni perché dall’estero si crea domanda per i prodotti nazionali. Nella contabilità macroeconomica ogni aumento dell’export si traduce in incremento del Pil. Per questo si ricerca l’origine delle merci. Nel caso in oggetto è la provenienza dell’investimento che determina le rilevazioni. Nel fenomeno dell’internazionalizzazione, dunque, l’estero è considerato una destinazione. Esiste sempre un passaggio di frontiere, un processo doganale o valutario, una conversione di moneta.
La globalizzazione sta erodendo questa impalcatura teorica. Gli investimenti all’estero sono uno dei capisaldi di questo processo, perché tendono a reperire i fattori della produzione dovunque siano disponibili alle migliori condizioni. In questo caso i 10 paesi dell’Asean rappresentano per le aziende italiane un magnete teoricamente irresistibile. L’omologazione ai principi dell’economia – alla quale è devoluta la creazione di valore pressoché ovunque – rende un ricordo, talvolta un ostacolo, concetti quali identità, nazionalità, bilanci, persino le statistiche. L’Unione europea sta registrando in pieno questa contraddizione.
Da una parte mantiene strutture nazionali e identitarie, dall’altra gli stati hanno rinunciato a molte delle prerogative. Da qui discendono una politica commerciale e, per l’area Euro, una moneta comune. Alcune di queste dicotomie si sono presentate nella ricerca. Come registrare un’azienda italiana che ha investito nell’Asean ed è posseduta da una multinazionale non italiana? Come classificare un’azienda ad es. di Hong Kong, fondata da un’azienda italiana, che ha aperto una succursale a Singapore? Nelle risposte è stata privilegiata la storia dell’azienda, la sua localizzazione in Italia, la riconoscibilità del Made in Italy. Abbiamo dunque scelto il prisma dell’internazionalizzazione ragionata, nella convinzione che questa ricerca sia utile alle aziende, alle istituzioni, all’intero Sistema Paese.
Le presenze nei paesi ASEAN

Sono state registrate nei 10 paesi Asean 421 presenze aziendali italiane (tutte le statistiche riportate sono visibili nei grafici e nelle tabelle allegate all’indagine). Il numero di aziende è leggermente minore perché alcune di esse hanno presenze multiple. Si tratta di pochi casi nei quali un’azienda ha stabilito una rete di distribuzione con il proprio nome in diversi paesi, o è attiva sia nella produzione che nella distribuzione, oppure infine ha deciso di aprire vari stabilimenti produttivi o estrattivi – tutti derivazione della casa madre italiana – in paesi di grandi dimensioni. Il numero di 421 presenze è variamente interpretabile.
Sembra ridotto:

  • in valore assoluto;
  • in relazione alle dimensioni dell’Asean;
  • in relazione alle dinamiche dell’Asean.

Sembra adeguato o positivo:

  • se paragonato ad altri paesi;
  • in relazione alle attese;
  • in considerazione della crisi.

Di fronte alla vastissima platea di imprese italiane, il numero di 421 è appena visibile. Per un paese a forte vocazione esportativa, le destinazioni estere sono parte essenziale delle gestioni aziendali. Se le esportazioni sono il primo passo verso la decisione di investire nello stesso mercato, verosimilmente il numero di aziende nell’Asean riflette lo scarso peso dell’Associazione come destinazione dell’export (vedi capitolo precedente). Tradizionalmente i mercati più vicini sono quelli privilegiati dagli imprenditori italiani. Sono note le ragioni di carattere strutturale che hanno determinato questo disequilibrio. Sfortunatamente i paesi industrializzati, dove appunto le relazioni economiche italiane sono più forti, sono variamente attraversati dalla crisi iniziata dal 2007. Sarebbe stato dunque auspicabile un maggiore dinamismo verso i paesi cosiddetti emergenti, in modo particolare l’Asia orientale e in questa l’Asean Quest’ultimo rappresenta un blocco in crescita, con conti economici sostanzialmente in ordine e dove l’immagine dell’Italia è molto positiva. Il nostro paese ha eccellenti relazioni bilaterali, non inquinate da rancori post-coloniali. Non esistono tensioni politiche, tanto meno militari o legate alla sicurezza. Anche tra i consumatori è forte l’immagine dell’Italia come paese di arte e cultura, dove la qualità della vita è alta e si producono prestigiosi beni di consumo. Se ne apprezzano lo stile di vita, la cucina, le manifestazioni sportive. Tale prestigio tuttavia non trova riscontri coerenti negli investimenti e nelle esportazioni.
Al contrario, 421 presenze possono essere valutate positivamente. Se messe in relazione con altri paesi e con le aspettative appaiono sorprendenti. Secondo valutazioni di Osservatorio Asia (che ha pubblicato 2 libri sulle presenze italiane in Cina e in India e segue l’evoluzione del fenomeno) sono attive circa 1.950 aziende in Cina e circa 380 in India. La distanza con la prima non è grande, se si tiene in considerazione la differenza di popolazione (più di 2 volte superiore a quella dell’intero Asean). La Cina è inoltre per antonomasia «la fabbrica del mondo», il paese che da decenni riceve il maggior numero di investimenti diretti esteri a fini produttivi. Oltre la Grande Muraglia si è registrato uno dei fenomeni probabilmente più importanti della globalizzazione: la congiunzione degli interessi del paese con quello delle multinazionali. L’attrazione degli investimenti stranieri è stata strumentale alla Cina per acquisire le tecnologie necessarie a sconfiggere il sottosviluppo, mentre le aziende hanno potuto delocalizzare con vantaggi immediati che la Cina poteva concedere al massimo livello. Le imprese italiane hanno contribuito all’industrializzazione della Cina, inizialmente con una massiccia fornitura di macchinari e successivamente stabilendo unità produttive in loco. Una terza fase ha riguardato investimenti per i beni di consumo, le parti e i componenti. Rispetto alla Cina dunque e alle sue grandi potenzialità, il numero dell’Asean è soltanto relativamente minore. Esso è inoltre superiore a quello dell’intera India, la cui popolazione è pressoché doppia. Si tratta in questo caso di una supremazia più simbolica che reale, perché i ritardi dell’India – e dell’intero subcontinente – sono così radicati da essere con rassegnazione considerati cronici.
Non esistevano analisi complessive sugli investimenti aziendali nell’Asean, se non quelle derivanti dalla somma dei singoli stati. Era quindi difficile immaginare risultati soddisfacenti se si fossero esaminate valutazioni bilaterali e frazionate. L’attenzione dei media era e rimane sostanzialmente carente, perché l’attrazione dell’Asia era appannaggio dei giganti politici ed economici del nord est asiatico: Cina, Giappone e più recentemente la Corea del Sud. La percezione del sud-est asiatico ancora oggi rimanda a luoghi di storia, cultura, esotismo. Le popolazioni non risultano affrancate dal sottosviluppo e ancora oggi prevalgono considerazioni extra economiche. Si tratta chiaramente di una valutazione insufficiente, ma che lasciava presagire, per le sue ripercussioni, una rilevazione statistica più modesta. Inoltre l’interesse economico delle aziende italiane non ha trovato spesso approdi nei paesi lontani e di nuova industrializzazione. La crisi infine avrebbe potuto debellare ogni velleità di investimento, lasciando le aziende italiane nella gestione della difficile situazione interna. In considerazione di quanto esposto il numero delle presenze può considerarsi sostanzialmente positivo.
Probabilmente la crisi ha agito da fattore di necessità. Di fronte al ristagno della domanda interna era necessario rivolgersi ai mercati con maggiore crescita. Molte aziende italiane nell’Asean sono state inaugurate negli anni recenti. È un segnale di iniziativa verso un’area non tradizionale dell’imprenditoria nazionale che ha fatto giustizia, almeno in parte, dello scetticismo sulla sua vitalità.
Le destinazioni
La destinazione preferita è Singapore, con 118 presenze. Vietnam (76), Indonesia (73), Malaysia (72) registrano comunque valori importanti e tra loro appaiati. Sono seguite da Thailandia (57) e Filippine (18). Sono quasi assenti gli investimenti in Myanmar (3), Laos (3) e Cambogia (1), inesistenti quelli in Brunei. Le rilevazioni più importanti sono le seguenti:

  1. viene confermata l’eccezionalità di Singapore;
  2. all’interno dell’Asean esistono due sub-regioni molto diverse tra loro;
  3. il Vietnam mostra dinamiche molto promettenti per gli investimenti.

1) Singapore è il luogo di uno spettacolare, straordinario sviluppo economico, unico nel suo genere. Compie 50 anni di vita indipendente nel 2015 e in questo periodo ha saputo trasformare il volto della sua dimensione sociale, politica, economica, culturale. È passata From third world to first, come il titolo di un libro autobiografico del suo padre fondatore, Lee Kwan Yew. Il suo reddito pro capite non solo è di gran lunga il più alto nell’Asean, ma tra i più elevati al mondo. Il numero di milionari per abitanti è al vertice internazionale, così come la classifica del suo aeroporto, della linea aerea, del porto, dell’efficienza della pubblica amministrazione, dell’assenza di corruzione, della diffusione dell’inglese, della qualità della vita in generale.
Le valutazioni riguardano ovviamente la dimensione degli affari e della vita pubblica. La sintesi di questa supremazia è data dall’International Finance Corporation, l’Agenzia della World Bank che si occupa dell’attrazione degli investimenti. Ogni anno pubblica una classifica dei paesi business friendly, dove è cioè più agevole condurre affari. Anche per il 2014 Singapore si è confermato il 1° posto al mondo. La città-stato risulta attraente perché è riuscita a mantenere the competitive edge, l’espressione che viene ripetuta come un mantra per mantenere la sopravvivenza di Singapore: conservare la differenza competitiva nei confronti di paesi vicini che potrebbero diventare ostili laddove le convenienze economiche dovessero soccombere rispetto ad antiche rivalità. Gli operatori italiani non sono respinti dagli alti costi di Singapore. Sono compensati da altri fattori che alla fine rendono la città ancora la destinazione principale. Il suo ruolo baricentrico – sull’Equatore e con facilità di collegamento – la rendono spesso la meta iniziale, se non ideale, per gli investimenti nel sud-est asiatico.
2) I 5 paesi fondatori dell’Asean sono quelli con maggiore reddito procapite, le economie più grandi e – probabilmente come conseguenza – quelli che ricevono maggiori investimenti dall’Italia. Il destino di Filippine, Malaysia, Indonesia, Singapore e Thailandia è stato disomogeneo e talvolta conflittuale, però sono riusciti a crescere congiuntamente e ad affermarsi sulla scena internazionale. Nel 2013 i 5 paesi hanno ricevuto complessivamente un numero maggiore di investimenti dall’estero rispetto alla Cina. Sono ancora distanti – con gli stessi criteri di classificazione – invece le nuove acquisizioni: Brunei, Vietnam, Laos, Cambogia e Myanmar.
La loro crescita è innegabile, l’appartenenza all’Asean è stata efficace, ma le condizioni al momento dell’adesione erano incontestabilmente penalizzanti. Costituiscono 2 eccezioni il Brunei e il Vietnam (vedi sotto). Il sultanato del Borneo è un piccolo stato di 500.000 abitanti, conformato a una rigorosa tradizione islamica. Deve il suo benessere ai giacimenti petroliferi e la sua economia è poco aperta verso l’estero, dipendendo dalla confinante Malaysia e da Singapore per i commerci internazionali.
3) Il Vietnam rappresenta la seconda destinazione preferita dagli investimenti italiani. Si è rivelata importante l’apertura del paese agli scambi internazionali, la politica del Doi Moi inaugurata nel 1986 e seguita senza gravi titubanze dalla dirigenza. Come nel caso della Cina, la contemporaneità di un governo formalmente collettivista con l’ideologia del mercato ha prodotto risultati positivi, in grado di proiettare il paese velocemente nell’orbita della globalizzazione con l’attrazione di tecnologia straniera.
La provenienza regionale e le dimensioni aziendali
La Lombardia è la regione con la più numerosa provenienza aziendale: 135, pari al 32% del totale. Il risultato è largamente atteso, sia nella supremazia che nelle percentuali. Riflette inoltre precedenti analisi. Alle spalle della regione si registrano nuovi equilibri rispetto al tradizionale assetto dell’industria italiana. Colpisce la bassa presenza delle aziende piemontesi (18), probabilmente penalizzate dal disimpegno della Fiat e dell’intero comparto automotive.
Il nord-ovest trova peraltro una buona affermazione della Liguria (19), per il traino esercitato dalle compagnie di navigazione, dalle società di spedizione e armatoriali che operano nei porti della Regione. È rilevante il numero dell’Emilia- Romagna (69) e del Lazio (56), anche se quest’ultimo risente delle presenze istituzionali e delle grandi aziende ubicate a Roma. La presenza delle aziende dell’intero nord-est è significativa (69) e conferma il dinamismo imprenditoriale delle 3 componenti. Da tutte le regioni del Mezzogiorno solo 8 aziende hanno effettuato investimenti (7 dalla Campania, 1 dalla Puglia). Si conferma dunque il drammatico ritardo dei processi di internazionalizzazione del sud Italia, sia nei riguardi delle altre 2 macroregioni che verso i mercati considerati più lontani e difficili. Si registrano infine valori attesi per la Toscana (34) e ridotti per le Marche (13).
Il numero di quest’ultima Regione è una conferma delle difficoltà delle imprese medio-piccole, anche se a forte vocazione internazionale, a investire in paesi esposti a forte concorrenza. La presenza italiana è variegata, anche se l’impatto delle grandi aziende è più importante di quanto esprima la composizione in Italia. Il loro impegno deriva da commesse pubbliche, dall’appartenenza a settori strategici, dalla titolarità di tecnologia avanzata e costosa, da accordi internazionali che richiedono esposizione finanziaria. Per esse, competere su un livello globale è relativamente più agevole. Le PMI al contrario trovano in via di principio maggiori difficoltà, non soltanto per la competizione globale, ma anche perché devono affrontare oneri più ingenti di quelli che sarebbero necessari in Europa. La composizione delle presenze italiane risulta dunque più affollata di imprese medio-grandi, soprattutto quando la destinazione dell’investimento è la manifattura (vedi paragrafo successivo).
 
I settori merceologici
Le aziende italiane, nell’Asean come in ogni paese oggetto di delocalizzazione, sono attratte da 5 elementi principali:

  • bassi costi dei fattori di produzione;
  • clima favorevole agli investimenti esteri;
  • stabilità politica;
  • rete infrastrutturale;
  • mercato interno in crescita.

Tutti i paesi sono inclini ad attrarre investimenti stranieri. I vantaggi sono quelli fatti propri  dall’economia dello sviluppo: gli IDE recano tecnologia, migliorano l’assetto produttivo del paese, creano reddito e occupazione, innestano un circolo virtuoso imperniato sui surplus commerciali che permettono di finanziare ogni stadio dello sviluppo. Questa impostazione è valsa tuttavia, nel caso dell’Asean, soltanto in una fase iniziale. Allora, il ritardo tecnologico non consentiva margini di trattativa che non fossero legati alla protezione legale degli investimenti e all’offerta di manodopera disciplinata. Inoltre, le risorse delle istituzioni bancarie multilaterali apparivano scarse, mentre la loro erogazione risentiva di canoni politici e dell’imposizione di misure cogenti per i cittadini. Oggi invece, le migliorate condizioni economiche pongono i paesi Asean in grado di selezionare la ricezione degli investimenti; non è più cogente un aumento della ricchezza («l’ossessione del Pil» nelle parole del presidente cinese Xi Jin Ping), quanto la sostenibilità della crescita. Soltanto i paesi meno industrializzati dell’Asean favoriscono gli IDE nei settori maturi. Gli altri blandiscono i trasferimenti di risorse che proteggano l’ambiente, rispettino gli standard lavorativi, aumentino la produttività del paese. Il messaggio dei governi agli investimenti internazionali non è più la promessa di profitti intoccabili, quanto l’assicurazione di produrre ricchezza insieme, di creare valore sociale e di partecipare congiuntamente alla global value chain.
Creata sui 5 fattori sopra indicati, ogni paese dell’Asean presenta una miscela differente di attrattività. Le dotazioni energetiche dell’Indonesia sono concomitanti all’insufficienza della loro lavorazione; i bassi costi dell’industria tessile in Laos e Cambogia convivono con i ritardi infrastrutturali; la fertilità del suolo in Myanmar non è sfruttata da una sufficiente meccanizzazione agricola; gli alti costi di gestione a Singapore vengono compensati dall’offerta creditizia e finanziaria; il progresso della Thailandia viene ridotto dall’incertezza politica che vi regna; la crescita recente delle Filippine non trova ancora riscontro nel mercato interno per i beni di importazione. L’elenco potrebbe continuare. È importante rilevare che tutte queste componenti rientrano nei business plan dell’azienda quando vengono prese decisioni strategiche come un investimento nel sud-est asiatico. Conseguentemente alcuni settori merceologici vengono privilegiati e altri trascurati. La ricerca ha evidenziato, nella composizione merceologica, la prevalenza di 3 settori importanti:

  • la meccanica e i beni strumentali (23% del totale);
  • la chimica petrolchimica farmaceutica energia (19%);
  • l’elettrotecnica elettronica ICT (11%).

Per i beni strumentali italiani si tratta della conferma della loro validità e della capacità di intercettare le necessità dei paesi in via di sviluppo. È il riflesso altresì del massiccio, epocale spostamento di capacità produttive in Estremo Oriente. La nuova divisione internazionale del lavoro ha assegnato al versante asiatico del Pacifico il ruolo di centro manifatturiero del mondo, dove trovano spazio sia i settori tradizionali che quelli innovativi. Entrambi hanno bisogno della migliore tecnologia meccanica, che trova nell’offerta italiana – insieme a quella tedesca – uno dei più validi fornitori mondiali.
Anche il secondo macro settore più numeroso («chimica petrolchimica farmaceutica energia») rileva l’incontro tra una valida produzione nazionale italiana e le necessità del sud-est asiatico. L’enorme dotazione di minerali e di energia non trova ancora adeguata capacità di estrazione e trasformazione. È evidentemente insufficiente la pur eccellente capacità di raffinazione di Singapore, ed è inoltre un tema politicamente sensibile garantire il monopolio dell’attività alla città-stato. Sul versante della chimica farmaceutica hanno svolto un ruolo importante la protezione degli investimenti in Ricerca&Sviluppo, le capacità manifatturiere, l’incremento del consumo dei farmaci sul mercato interno.
L’elettrotecnica, l’elettronica e l’intero comparto dell’Information Communication Technology italiani hanno reperito nell’Asean risorse sia per lo sviluppo di parti e software – che tagliano orizzontalmente tutti i settori produttivi offrendo soluzioni efficienti – che nella componentistica per l’elettronica di consumo. In alcuni paesi Asean, in particolare la Malaysia, sono presenti ingegneri, manodopera qualificata, diffusione dell’inglese, esperienza di lavoro nel settore. Ne hanno tratto vantaggio i pochi grandi produttori nazionali, le società di software e le aziende già consolidate nel panorama italiano dell’elettrotecnica e dell’elettromeccanica.
Un valore importante assume l’intero comparto delle spedizioni, della navigazione e armatoriale (9%). È anch’esso una conseguenza della dotazione di ingenti risorse minerarie dell’area e della sua capacità manifatturiera destinata alle esportazioni. Altri raggruppamenti merceologici presentano valori attesi e comunque migliorabili. Sono le «costruzioni infrastrutture cantieristica» (8% del totale), le «consulenza banche assicurazioni» (6%) e il «veicoli aeronautica» (4%).
Nella ricerca sono stati considerati anche gli «investimenti istituzionali» che hanno registrato la presenza di 7 Ambasciate, un Consolato Generale a Ho Chi Minh City (il Vietnam è l’unico paese dell’area con due sedi diplomatiche), 5 uffici Ice Agenzia e 2 Camere di Commercio. Le 15 sedi rappresentano il 4% del totale delle presenze.
Valori non in linea con la notorietà e il prestigio del Made in Italy raggiungono il Sistema Persona, il Sistema Casa e l’agroalimentare, attestati complessivamente al 16% del totale. Questi dati – analoghi per i 3 settori – contrastano con la loro notorietà internazionale, condivisa dai paesi Asean. I dati duplicano quelli della composizione merceologica dell’export italiano. In entrambi i casi emerge una forte contraddizione: l’Italia è conosciuta e apprezzata per i beni di consumo, ma le statistiche rilevano una loro presenza marginale. Al contrario, i beni strumentali e industriali sono poco conosciuti al grande pubblico e la loro reputazione, talvolta molto redditizia, è conosciuta solo dagli operatori del settore.
 
Le modalità degli investimenti
La grande maggioranza degli investimenti (301, pari al 71%) si concretizza nei servizi: uffici di rappresentanza, distribuzione e consulenza, studi legali, presenze istituzionali, banche, assicurazioni, società della logistica. La parte rimanente (120, pari al 29%) è attiva nella produzione di manufatti e, in misura minore, nell’estrazione di prodotti energetici. Come per altre destinazioni asiatiche (Cina e India principalmente) non è il numero degli investimenti ma la loro composizione a imporre delle riflessioni. Le grandi aziende si sono impegnate nel sud-est asiatico come in altre parti del mondo, con prospettive strategiche e lungimiranti. Il tessuto delle piccole e medie aziende ha invece stentato e spesso ha affrontato quei mercati con investimenti ridotti. Aver privilegiato i servizi e non la produzione non è un indice di ritardo tecnologico. Certamente non è in discussione la capacità produttiva delle imprese italiane, quanto l’inadeguatezza – almeno in via di principio – delle dimensioni aziendali. Aprire un ufficio è certamente più economico che inaugurare uno stabilimento. Le PMI italiane risentono della statura ridotta che condiziona le risorse. Privilegiare una scelta prudente è spesso una necessità più che un’opzione. È comunque vero che un numero valido di aziende – probabilmente inatteso – ha mostrato segnali di vitalità e dinamismo che sono spesso peculiari dell’imprenditoria italiana, stabilendo impianti in zone ancora lontane dai flussi principali.
Singapore attrae maggiormente gli investimenti nei servizi; Indonesia e Vietnam quelli rivolti alla produzione. Si tratta di risultati coerenti con le dotazioni dei singoli paesi. La Malaysia rappresenta lo stato più equilibrato, dove la destinazione degli investimenti coincide con quella dell’intero Asean. Anche qui, la rilevazione riflette la struttura del paese che ha un’invidiabile composizione di dotazioni: è ricco di risorse, ha una popolazione in crescita ma gestibile, fornito di talenti, gode di un notevole dinamismo dalla minoranza cinese. Insieme alla Thailandia – l’altro «tigrotto asiatico» – non è riuscita tuttavia a capitalizzare sulla prima fase di sviluppo, rimanendo invischiata nella middle income trap teorizzata dalla World Bank.
 
Prospettive
L’impostazione della ricerca non consente conclusioni inequivocabili. Sarebbero necessari tempi più lunghi di analisi per un lavoro strutturato che raggiunga certezze interpretative. È possibile tuttavia trarre alcuni indicazioni sia per le aziende che per il Sistema Paese nel suo complesso. La più importante è la concreta possibilità di incremento nelle relazioni economiche – sia commerciali che di investimento – con l’intero blocco dell’Asean e con le singole nazioni che lo compongono. Non si tratta di concetti usuali o di aspirazioni disarmate. Le prospettive si fondano su una serie di fattori oggettivi che impongono scelte innovative. Il trasferimento di capacità produttive in Estremo Oriente è incontestabile, presentando al tempo stesso diversificazioni che vanno approfondite; la maturità e la stabilità dei paesi Asean sono asset consolidati; la crescita economica – diffusa e consistente – sostiene un riscatto socio-culturale di dimensioni epocali; la capacità di generare valore nei processi economici è ormai solida nel sud-est asiatico. In questo quadro, la presenza delle aziende italiane non è marginale ma appare suscettibile di incrementi. Sono 3 i macrosettori che presentano opportunità concrete. A essi ovviamente sono legati gli investimenti dei comparti collegati:

  1. i beni strumentali. I buoni risultati raggiunti non hanno esaurito la domanda interna. I processi di industrializzazione di tutti i paesi Asean (con la parziale eccezione di Singapore e Brunei) hanno un passaggio obbligato: la trasformazione delle materie prime. La secolare ambizione a non doverle esportare ha trovato una leva potente nella delocalizzazione produttiva dei paesi industrializzati. L’Asean può ora più facilmente trattenere il valore aggiunto derivante dalla trasformazione delle loro risorse: legno, minerali, fossili, marmo, metalli preziosi, gomma, prodotti dell’agricoltura. Le ripercussioni sulla meccanica leggera italiana sono evidenti e immediate;
  2. la costruzione di infrastrutture. La dotazione dell’intero Asean non è insufficiente come quella di altre aree in via di sviluppo (è noto al riguardo il ritardo del sub-continente indiano). Inoltre il ruolo centrale di Singapore la mancanza dei singoli stati. È invece insufficiente in relazione alle prospettive di crescita. La recente decisione collettiva di aderire all’iniziativa di Pechino per creare una banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali conferma l’urgenza di questo aspetto. In ogni documento dei governi viene ribadito l’impegno a costruire strade, aeroporti, porti, dighe, centrali elettriche. Soprattutto l’Indonesia – il paese di gran lunga più esteso, frastagliato e popoloso – ha espresso questa volontà come cardine della politica economica del nuovo presidente Joko Widodo. Le motivazioni non si discostano da quelle classiche: produrre senza poter distribuire è un’operazione incompleta; la libera circolazione di merci e persone offre vitalità all’intero sistema economico. Anche in questo caso la tradizione delle aziende italiane di costruzione, progettazione e gestione potrebbe trovare riscontri superiori a quelli finora registrati;
  1. i beni di consumo. La produzione italiana – con il traino delle grandi firme, ma non limitata a esse – è conosciuta per prestigio, qualità, status sociale che trasmette. La crescita di una classe media è un fenomeno economico e demografico di dimensioni impressionanti nel sud-est asiatico. Affrancata da condizioni di sussistenza, esposta al marketing internazionale, rappresenta un approdo insostituibile per il Made in Italy. Le sue 3 articolazioni – Sistema Moda, Sistema Persona, Agroalimentare – rappresentano le ambizioni di un ceto medio urbano, sensibile a nuovi gusti, dotato di una capacità di spesa ormai rilevante.

Esiste infine un’altra opportunità per il futuro immediato. È una conseguenza generale del progresso dell’area e interessa l’intera sfera degli affari. Si sono affermate nell’Asean moltissime imprese medio-piccole, spesso di derivazione dei grandi gruppi o di investimenti a base familiare. Si tratta di aziende giovani, private, nate dalla globalizzazione, che non risentono dei condizionamenti politici. I retaggi del passato, le vicinanze con i governi avevano favorito, nella prima fase di industrializzazione, le multinazionali che avevano maggiori risorse e tempo dilatato a disposizione. Il loro vantaggio sulle PMI era incontestabile. Ora questa distanza si è notevolmente ridotta; lo certifica un dato statistico inequivocabile: nell’Asean, il 96% delle aziende è di dimensioni medio-piccole.
L’apertura progressiva dei mercati e la garanzia del rule of the law consentono dunque alle aziende italiane di affrontare i mercati con meno apprensione, con partner della loro stessa dimensione e dunque con scelte più lungimiranti e redditizie.
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